Caos e necessità: l'incarnazione perversa di Hegel e Spinoza nel capitalismo contemporaneo

 

Il capitalismo flessibile, quello che si fonda su caos degli appetiti, società atomizzate e divieto di ogni altro possibile, può essere visto come un inveramento, eterodosso e perverso, di alcuni concetti cardine della filosofia hegeliana e spinoziana, come quelli di totalità organica e necessità del Tutto. È possibile resistere? Sì. Come? Abbandonando l’eticità  che, evidentemente, si è realizzata al di là del senso hegeliano – e facendo ritorno alla moralità (riconquistare cioè l’idea che ci si possa opporre a questo stato di cose, che ciò che si è realizzato non coincide con il necessario).

 

M. Escher, "Biglietto per il nuovo anno", 1 gennaio 1947, xilografia
M. Escher, "Biglietto per il nuovo anno", 1 gennaio 1947, xilografia

 

Senza tema di smentita si può affermare che la vita quotidiana dei nostri tempi offre abbondante materiale per un’autentica “fenomenologia dell’oppressione silenziosa” o “fenomenologia dell’irrilevanza”. Ogni mattina milioni di persone si svegliano con la consapevolezza – più o meno angosciosa (in modo inversamente proporzionale al grado di assuefazione) – che, per quanto importante sia la loro occupazione e il grado di potere che essa permette di esercitare, si è inseriti in strutture incredibilmente imponenti e solo parzialmente visibili, vere e proprie architetture invisibili la cui totalità non può offrirsi allo sguardo. Queste strutture crescono come edera rampicante sulle nostre vite: la forza che esercitano è spaventosa e misteriosa; ci stupisce la facilità con cui se ne può spezzare un singolo rametto, ma a ciò si accompagna la consapevolezza che non importa, che niente crollerà. L’obiettivo non è schiacciarti sotto un peso insostenibile, ma soffocarti con pervasività e velocità di riproduzione. Il cancro non è solo la malattia dei nostri tempi: è la riproduzione microcosmica della contemporaneità. Siamo la società del cancro, ma se lo siamo è perché qualcosa ci invade e non riusciamo a reagire. Potremmo essere, finalmente, la società della resistenza.

 

Cosa è andato storto? Si potrebbe dire che viviamo in una società che vive in una sorta di eticità hegeliana, anche se in forma, per dirla con Freud, “perversa e polimorfa”. Hegel riteneva che l’eticità fosse il bene realizzato non astrattamente, cioè individualmente e idealmente, ma concretamente, cioè organicisticamente e oggettivamente. Questa nostra società lo ha individuato da tempo ciò che è bene, il Bene, e lo sappiamo tutti: il profitto e la sua logica. Beninteso: il profitto non è fondamentale, la sua logica lo è ben di più perché essa è il nome che sta ad indicare le istruzioni per riprodurlo, il suo codice-sorgente, i comandi che permettono al profitto di non essere solo questione di bilancio ma quella Weltanschauung che va a infilarsi a tutti i livelli delle relazioni personali e professionali (in famiglia, nella scuola, nel lavoro) oltre che nel proprio “interno” (nei bisogni, desideri, aspirazioni, paure). Questo Bene, oggi, si è realizzato oggettivamente in tutte le istituzioni e le governa dall’interno.

 

L’eticità hegeliana era fondata sul concetto di totalità organica e ciò vale a dire un tutto in cui le parti, concepite come interdipendenti, non precedono l’intero; quest’ultimo, dunque, non è una mera somma delle parti ma, al contrario, le costituisce. Il cammino storico della Ragione, il tutto dell’Assoluto che si sviluppa nella realtà secondo una processualità storica, viene prima dei soggetti e li fonda. Ogni parte non sarebbe “reale” se non si riconoscesse nell'intero della razionalità storica a cui appartiene e se non si rapportasse alle altre soggettività in un rapporto magari conflittuale ma dialettico. L’eticità del capitalismo è in una condizione particolare: la logica del profitto, inoculata dalla culla alla tomba, da una parte fa sì che il volere del soggetto si adegui e identifichi con la realtà storica prodotta dalla Ragione capitalistica, ed in questo vi è traccia della totalità organica; ma, dall’altra, a differenza della teoria hegeliana, le parti sono concepite come monadi, atomi, punti irrelati che disegnano una figura non unendosi ma venendo “percorsi” da una linea continua che è concepita altrove, in quelle strutture economiche sovrapolitiche e sovranazionali che presiedono la vita collettiva. Lo Stato, a differenza di quello hegeliano, non innalza il disordine della società civile, non sintetizza il caos degli appetiti, perché anch’esso è dominato da forze tanto impalpabili quanto coercitive che cospirano per separare ciò che potrebbe unire (religione, cultura, nazionalità). Come è noto, Marx aveva colto molto bene questa verità ma oggi, rispetto al XIX secolo, l’intrico degli interessi e la continua distrazione di massa rendono meno chiara la percezione della realtà e dei suoi burattinai: tutti – capitalisti e noi – e quindi nessuno in particolare. È stata questa la strategia geniale del capitalismo; renderci, con il consumismo e l’edonismo patologico, carcerieri e carcerati. Le carte di credito, i debiti, le rate: i più straordinari strumenti di controllo sociale fatti funzionare dagli stessi controllati, cioè noi.

 

Scena del cartone animato "Moby"
Scena del cartone animato "Moby"

 

Ecco, allora, il problema: la storia, come Fukuyama in un certo senso disse, è finita perché è venuta meno la soggettività contrapposta ad un’alterità. La narrazione è diventata la stessa per tutti, la collocazione di ciascuno rispetto a tutti gli altri è come quella dell’individuo in una piazza, non esiste più la dimensione politica per eccellenza, cioè il “sopra-sotto”, e ciò lo si vede soprattutto nei modelli per eccellenza della società dello spettacolo: il cinema e la televisione. La galleria al cinema non esiste più, sopravvive ancora nel teatro dove persiste una certa aristocraticità; ma l’intrattenimento di massa non gradisce fare differenze dall’alto al basso, al cinema chi ha una posizione migliore è perché è arrivato prima (sotteso elogio all’individualismo sgomitante); la televisione, ancora di più del cinema e del teatro, riunisce il separato tenendolo drasticamente separato nei loculi domestici. Guy Debord, nel suo celeberrimo La società dello spettacolo, lo aveva capito molto bene, come indica la tesi 29:

 

« ciò che lega gli spettatori non è che un rapporto irreversibile con lo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma in quanto separato. »

 

Nell’era del capitalismo flessibile tutto cambia perché nulla cambi, miriadi di programmi e spettacoli diversi che, qualora anche tentino una critica al Reale, sono condannati a subire la stessa logica (se il film non incassa, è spazzatura da sala d’essai).

 

Lo spettacolo, idealmente, mette tutti sullo stesso piano uniformandone i gusti, riproducendoli, per poi, infine, far sentire davvero tutti sullo stesso piano. Ѐ venuta a mancare la percezione della subalternità che, invece, sussiste ancora e produce effetti: i consumi di massa, volatili e liquidi finché si vuole ma senza soluzione di continuità, hanno sostituito la verticalità con una finta orizzontalità. In fondo, allora, lo spettacolo è ogni sera lo stesso, l’unico possibile, l’alternativa non c’è o, se proprio la si vuole, coincide con la fine, la chiusura della visione. L’asociale socialità, la dimensione esistenziale dell’“assistere” e l’appiattimento del reale sull’esistente è la totalità dis-organica dell’eticità capitalistica.

 

Questa situazione è la vera responsabile della distruzione della moralità che Hegel condannava (forse non prevedendo le conseguenze della sua scomparsa): la lotta soggettiva ed individuale contro i mali del mondo. La molla originaria della storia è sempre stata l’ambizione di portare l’essere al dover essere. Ma ciò era anche favorito dalla percezione di una verticalità rispetto all’orizzontalità di oggi. È perché una certa parte di umanità ha cominciato a percepire gli abusi subiti e gli odiosi privilegi altrui secondo una rappresentazione verticale che si è mandata avanti la storia, che i re sono caduti e Dio è morto. Quando l’individuo si è risvegliato dal ‘sonno dogmatico’ allora ha capito, in teoria e in pratica, che la scenografia era sorretta da lui e altri come lui; così ha potuto riconoscersi, comprendere il proprio ruolo, politicizzarsi nel senso più nobile del termine. L’individuo politico (cioè il gruppo), sfilandosi finalmente dal coro dei portatori lungo la processione della Storia, ha fatto crollare a terra la statua santa del Reale (che, anche allora, era presentato come l’unico possibile) e, sotto il suo peso, i suoi difensori. Ma è a questo proposito che va notata una grande differenza con il passato.

 

Al tempo delle monarchie assolute, dei dogmi e dei papi con gli eserciti, insomma di quell’alleanza trono-altare che ha caratterizzato l’umanità per secoli, vigeva il “tu devi”. Ma, come insegnava Kant, il “tu devi” implica il “tu puoi”. Ma puoi perché sei libero. In modo quindi solo apparentemente paradossale, il dogma era fondato sulla libertà. Se devo obbedire è perché posso obbedire ma se posso obbedire posso anche non farlo. Ecco la morale soggettiva tanto vituperata da Hegel di cui oggi sentiamo terribilmente la mancanza. Di questi tempi non c’è alcun dogma, non c’è alcun “tu devi”. Si è privato l’uomo direttamente della possibilità naturalizzando in modo necessario il Reale. Oggi, avendo da decenni messo in moto l’inarrestabile macchina propagandistica così meravigliosamente sintetizzata dal celeberrimo adagio tatcheriano “there is not alternative”, vige, inversamente, un “tu puoi” perché “devi”. Ossia: ti è possibile fare quel che fai perché è una necessità. La libertà, in modo contro-intuitivo ma realmente operante, è fondata sulla necessità e ciò vale a dire che è una pura libertà negativa, mera assenza di impedimento fisico. Se, dunque, esiste e può esistere un unico possibile, allora è necessario. L’economia borghese, la razionalità strumentale che la presiede, i processi di globalizzazione, il funzionamento e gli scopi delle istituzioni economiche sovranazionali, etc. sono “naturalizzati”, ossia presentati come dei fatti in sé neutri e necessari, non decisi da qualcuno: “è così che va l’economia, è così che si fa in politica, è così che funziona il lavoro”. Questi processi sono de-soggettivati, vale a dire: vengono presentati come la naturale e “obbligata” evoluzione di qualche particolare ambito dell’umano operare nascondendo i reali interessi, quella verticalità che ancora oggi esiste eccome.

 

Il capitalismo contemporaneo è allora non solo la perversione dell’eticità hegeliana ma anche della filosofia spinoziana. In Spinoza, come è noto, libertà e necessità coincidono. Cogliere davvero la realtà vuol dire afferrarne l’intrinseca necessità. All’uomo della strada molte cose sembrano semplicemente possibili, contingenti, cioè gli pare che potrebbero anche essere diverse, ma ciò evidenzia la limitatezza della sua conoscenza. Esse appaiono possibili perché ne possediamo una conoscenza insufficiente e sostanzialmente inadeguata. La vera conoscenza che ha in mente Spinoza è quella che ci mostra la necessità della realtà di essere così come è e, su questa base, suggerisce come dobbiamo agire con necessità razionale. Ugualmente, nel capitalismo contemporaneo, l’uomo non vive, secondo i probiviri del Sistema, in un mondo caotico o irrazionale, tutt’altro: egli è collocato dentro un ordine razionale e, dunque, assolutamente necessario: la vera questione, ci dicono, è capire proprio questo; il cittadino deve cogliere la sua posizione nell’ordine delle cose e vivere il più “felicemente” possibile nelle pieghe del Tutto. Tutto il resto è “utopia”, cioè ignoranza. Immaginare un altro possibile è ignorare la necessità del reale.

 

 

La conoscenza che aveva in mente Spinoza, però, non certo portava a tale schiavitù dell’anima, non si limitava a constatare ma semmai ad elevare la coscienza; l’intuizione dell’identità di Dio e natura non poteva certo concludersi come etica della schiavitù ma portava al cospetto di un’altra idea: che la liberazione presuppone la conoscenza e la vittoria sulle passioni, non l’essere fagocitato da esse nel tempo libero dall’alienazione quotidiana. Ecco, allora, il vero lavoro di “resistenza”: riportare l’orizzontalità alla verticalità, ridare carne e sostanza ai soggetti che muovono gli interessi, ricostruire una vera socialità e profonda coscienza di interdipendenza, smascherare il ‘necessario’ e mostrare il “possibile” :

 

« Ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l’apparenza dell’ ”ordine naturale”, deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano » (M. Fisher, Realismo capitalista).

 

10 luglio 2019

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica