Severino e il possibile ricordare falsamente

 

In un momento storico in cui si fa sempre più riferimento alle “radici” e alla “storia” per attestare l’identità, occorre ripensare al ruolo del ricordare come unico strumento capace di permettere il resistere dell’identità passata. 

 

di Sergio Iacino

 

Jacob van Ruisdael, "Veduta di Haarlem con campi di candeggio" (1670-1675 ca.)
Jacob van Ruisdael, "Veduta di Haarlem con campi di candeggio" (1670-1675 ca.)

 

La filosofia di Emanuele Severino si impegna nel mostrare come il “passato” non sia un “annichilito” ma non può sfuggire da ciò che rende il passato così misterioso: il suo mostrarsi solo nello strumento più imperfetto: la memoria

 

In “Passato, perfectum”, capitolo VI di Destino della Necessità, Emanuele Severino parla del “ricordo” come ri-apparire di ciò che precedentemente era già apparso. Ma è davvero così? Cosa accadrebbe se, in questa ontologia basata sul principio di identità e differenza, un ricordo avesse per contenuto un ricordato mai apparso come passato? Qual è la natura del ricordare e perché si può parlare anche di “falsi ricordi”, come vengono oggi chiamati dalla psicologia e dalla scienza moderna? 

 

Il ricordare ha in sé il carattere del rimandare-a. Ma questo rimando-a dovrebbe rimandare a qualcosa che non è più attestabile per come esso fu. Attenzione: certo non possiamo dire, ancora, che questo “che-fu” è ora un nulla: di fatto appare come non-apparente-nel-modo-dell’ora, poiché appare nel modo del che-fu proprio nel ricordo: questo che-fu è un presente, ma è tale, attestabile, solamente nel ricordo. «…su quale base si può affermare che il passato appariva secondo la stessa modalità secondo cui appare il presente […]?» (E. Severino, Destino della Necessità). Tale “che-fu” è dunque un “prima”, ed è tale in sé, poiché sopraggiunge un “poi”. «Il sopraggiungere può apparire come tale […] solo in quanto appare il ‘prima’ rispetto al quale il ‘poi’ è un ‘poi’. […] e dunque solo in quanto qualcosa del ‘prima’ continua ad apparire, cioè a permanere.» (Ivi). 

 

Anche il problema della permanenza si pone in questa maniera: appare in T1 una mela. In T2 permane la mela ma sopraggiunge un’arancia. In T1 la mela non aveva relazione con l’arancia, in T2 invece sì. Si dice che la mela permane. Ma come si può dire una permanenza se non attraverso il ricordo che è in grado di dire ciò che aveva e ciò che ha ora, ossia “non l’arancia” nel prima e “l’arancia” nel poi come relazioni della mela, che è il “prima-poi”?

Il ricordo è un continuo rimandare-a qualcosa come interno di una differenza temporale (prima). Ma come possiamo fidarci di questo apparire che si dovrebbe porre come un ri-apparire? Di fatto, l’attestare un passato è una fede: pertanto è una fede la permanenza. Non è certamente una fede l’esser-sé dell’essente: appare qualcosa che, per principio di identità e differenza immediate, deve essere considerato eterno. L’apparire non ha nessun bisogno di mediazione come lo ha, invece, il “prima”: questo è, a tutti gli effetti, un rimandato. Il rimando ha, appunto, l’essere di una mediazione! Come ci si può affidare ad una mediazione? 

 

Si dirà che il suo contenuto è immediato: appare con la natura del “prima” e il momento presente appare come un “poi”. Non è questa una mediazione? Ma proviamo a pensare, per assurdo, ad un apparire che non abbia al suo interno un ricordo. Apparirebbe come un “poi”? Rispetto a che cosa, ci si dovrebbe chiedere: accadrebbe, nuovamente, una mediazione. Ma ogni apparire sopraggiunge “sopra-qualcosa”. L’apparire sopraggiunge come un “poi” sopra il “prima” di ciò che permane: ma questa permanenza, perché sia tale, come la si riconosce? Il “prima” non accade mai semplicemente come un flatus vocis: ha tale carattere perché appare quel “prima”: e se anche apparisse semplicemente come mera sensazione, essa avrebbe il carattere del rimandare-a. Dunque appare come permanenza: ma di nuovo la “permanenza” ha il carattere del “prima-poi”: tale “prima-poi” è da differenziare tra il suo “prima” e il suo “poi”, per essere permanenza e non semplice-presenza (non usato qui come usato da Heidegger), ossia solamente apparente come presente non rimandante-a. Ossia, perché appaia la sensazione che tale mela è un “prima-poi” permanente si deve dare differenza tra la mela nel “prima” e la mela nel “poi”, ossia si deve dare la sua relazione diversificata nel “poi” rispetto al “prima”: ancora una volta una mediazione temporale attestabile solamente dal ricordare rimandante-a

Ma dove poggia questo rimando-a? Dove ha il suo principio che non sia, anch’esso un rimando-a? 

 

Heidegger critica Kant per aver posto come semplice-presenza l’in-me, mutevole, per giustificare il fuori-di-me come permanente, e spiegare così la realtà del mondo a partire dal tempo. Il problema sussiste nell’aver dato all’io un carattere di staticità implicita, pur affermandone il mutamento delle rappresentazioni.

Il mutamento è sperimentato da me. Ma questo “me” per sperimentarlo, dovrebbe anch’esso essere permanente. La critica si estende anche nella seconda sezione di Essere e tempo, nel paragrafo sull’ipseità, in cui Heidegger dice che l “io penso” è sempre l’io che pensa qualche cosa. Ma che cosa sarebbe questo “io” se non i pensieri che di volta in volta “produce” (ammesso sia esso a produrli)? Come scrisse Hume, «la mente altro non è che un teatro in cui entrano in scena le percezioni in successione: la memoria li tiene uniti.» (Trattato sulla Natura Umana). Questo io è il collante che tiene assieme le cogitationes? Ma mentre il teatro è, di fatto, un luogo ove gli attori entrano in scena, l’”io” che cos’è? Sarebbe molto più semplice rispondere alla domanda prendendo totalmente in considerazione il riduzionismo scientifico: lo sfondo, su cui tutto appare di volta in volta, è il cervello; una scatola, un contenitore. Esso “conserva” gli eventi sotto forma di energia e li ripropone sotto forma di immagine. I ricordi sono “ideali” rappresentazioni date da un entrare come percezioni di diversi apparire in un luogo ove esiste una rielaborazione. Nell’Apparire severiniano non c’è rielaborazione! Non può esserci poiché sarebbe un “diventar altro”. Il ricordo è “essere altro” rispetto all’evento di cui è ricordo, o di cui si presuppone il ricordo abbia come contenuto proprio quel ricordato? La risposta sembra essere molto intuitiva, avendo definito il ricordo come avente il carattere del rimandare-a: certamente non si può dire che appare come apparse, altrimenti quando apparse avrebbe avuto la stessa natura del rimandare-a. 

Questo rimandare-a deve certamente sopraggiungere su qualcosa, come dicevamo prima: questa non può essere la stessa permanenza a cui rimanda. Dunque, possiamo certamente attestare l’esistenza di un presente apparire che non appare anch’esso come ricordo. Non si potrebbe però obiettare che un ricordo può rimandare-a qualcosa come un altro ricordo, e anch’esso ad un altro e così via?[1]  Ma questo presente non ha la natura del rimandare-a per conformazione: esso è un apparire non-rimandante-a. Il suo contenuto è immediato. Potremmo, dunque, escludere che il presente sia un ricordo. Questo sarebbe la base su cui poggia il ricordo, altrimenti non ci sarebbe nemmeno differenza tra ciò che ha il carattere del rimandare-a e ciò che non lo ha: ossia non ci sarebbe mai una differenza tra l’ora e il prima. Non si avrebbe più una nozione di tempo.

 

 

Vincent Van Gogh, "Sulla soglia dell'eternità" (1890)
Vincent Van Gogh, "Sulla soglia dell'eternità" (1890)

 

Ma qui abbiamo un altro problema: il presente apparire appare come una configurazione di brevissima “durata”. Il ricordo, perché possa apparire sul presente durerebbe quanto esso. Ma ciò che chiamiamo ricordo non è una sola immagine: avrebbe il “tempo” di apparire come ricordo rimandante-a attraverso una sola configurazione? Il rimando in esso è immediato, non immediata è la relazione tra istante presente e istante passato: il ricordo è sempre mediazione al cui interno è presente il contenuto rimandante-a come immediato nella mediazione

 

Appare, come fosse un flash, una configurazione della mela senza l’arancia. Ma è bastevole quel flash per poter parlare concretamente di ricordo rimandante-a? Servirebbe, perlomeno una serie di configurazioni processuali. Allo stesso modo, però, servirebbero altrettanti “presenti” su cui “appoggiano” le configurazioni rimandanti-a. E, infatti, l’appagatività del ricordo si dà, nichilisticamente, quando “comunica qualcosa” e l’apparire del ricordo appare parallelo all’apparire di pensieri legati ad esso. Questo può accadere solamente all’interno di una processualità. Infatti, il sopraggiungere di una nuova configurazione è il sopraggiungere della configurazione presente e la configurazione del ricordo, ossia due processualità.

 

Si crea così un’immagine: la linea temporale del presente è la linea a). La linea b) è la linea del ricordare. Ma c’è un’ulteriore linea c), che è la linea per la quale si ricorda ciò che si è appena ricordato. Solo in questa maniera un ricordo è tale! La sua processualità abbisogna di un qualcosa che ricordi il ricordare il ricordato, altrimenti non si avrebbe ricordare! Ci deve essere nel ricordo una certa permanenza, un “prima-poi” di cui è riconoscibile il “prima” solo attraverso il ricordo stesso. Ovviamente non utilizziamo il termine “ricordare” come un “rammentare” o uno sforzo dell’intelletto, bensì come “apparire di un’identità con il carattere del rimandare-a qualcosa come un ‘prima’”. Ma tale identità è una sola configurazione? O meglio, può in una sola identità-configurazione apparire il ‘prima’? O appare solamente un rimandare-a un contenuto che però non è ri-conoscibile immediatamente nella mediazione (ricordo) come prima? Il legame con le parti del suo ‘tutto-ricordo’ è necessariamente indissolubile. Non è minimamente pensabile un non-oltrepassamento, dunque. Il presente è oltrepassabile, affinché sia oltrepassabile qualcosa come il ricordare. E questo è il fondamento del ricordo stesso, ossia di ricordare ciò che è oltrepassato, ossia un “prima”. Ma non attesta forse un continuo oltrepassamento la permanenza stessa, nel suo carattere di “prima-poi”, ossia propriamente nella parte del “prima” che è nell’ora attraverso il “poi”? E non è l’ora, anche, un contenuto rimandante-a qualcosa come quel prima? E il “poi” quell’ora rispetto a quel “prima” a cui si rimanda, ossia l’ora è un “poi” rispetto al prima? Insomma, non si può scindere la permanenza dal ricordo: ma senza permanenza non sembra poterci essere ricordo

 

Allora è necessario parlare di due concrezioni di ricordo differenti: una, la configurazione non fenomenica che agisce “inconsciamente” e permette quello che possiamo chiamare “fluire del tempo”. L’altra, è l’insieme di configurazioni che, nella loro totalità, formano l’attività (passiva) del ricordare[2].  Tale totalità necessita chiaramente della prima delle due configurazioni per attuarsi. 

Ma non si potrebbe forse obiettare che ciò che è il “fluire del tempo” è permesso dalla permanenza? Ma si può avere permanenza senza un ricordare ciò che permane tra un “prima” e un “poi”? La stessa “permanenza assoluta” (la verità inoltrepassabile) del destino è possibilmente riconoscibile in ciò che è passato solamente attraverso il ricordare! 

Ma dunque, se è il ricordo ad attestare sempre il “prima”, a essere suo rimando, il contenuto eterno del passato che non si annulla si può dare sempre e solo in esso. Questo dovrebbe forse escludere l’esistenza dei falsi ricordi? Eppure, il “falso ricordo” è un evento che accade spesso, fenomenicamente. Ma come si attesta essere falso qualcosa che per esserlo dovrebbe avere differenza con un vero? L’unico modo per poter dire che un ricordo è falso è mettendolo in relazione con il vero passato di cui sarebbe il “falso” ricordo. Ma se il passato è solamente attestabile come “prima” nel ricordo, come si potrebbe porre tale operazione? Evidentemente l’unico modo che ha la scienza per poter affermare l’esistenza di quelli che si chiamano “falsi ricordi” è attraverso il confronto tra più “memorie”. È solo abbattendo il problema del solipsismo che, teoreticamente, possiamo pervenire all’asserire circa la “verità” o la “falsità” di un ricordo. Verità e falsità diverrebbero dunque, relative

Pur tuttavia il problema rimane: dal momento che ci potrebbe essere la possibilità che i ricordi siano “falsi”, ci potrebbe essere la possibilità che la differenza temporale sia inesistente! Ossia il “prima” dell’evento non sussiste, se non come semplice “prima” del ricordato. Ma se tale ricordato non fosse l’evento passato? Come si potrebbe indagare la differenza tra presente ed evento passato? Anche il “poi”, come tale, diverrebbe un’illusione basata su quell’illusione del ricordato, poiché la reale differenza non sarebbe più una differenza temporale, di cui si è parlato all’inizio, bensì una differenza tra due modi del solo presente. Diverrebbe, il “poi” un “ora” soltanto. E il passato diventerebbe forse un “possibile” poiché in bilico tra l’essere-ancora e il non-esser-più? 

 

Tale problema non è negato da Severino. Egli non può negare che l’unica base per la quale si possa affermare il “prima” sia il ricordo, ma tenta di salvaguardare la differenza temporale attraverso la permanenza dell’identico. «Poiché lo scomparire del prima (quando il poi appare) non è un fatto ma una possibilità, non è una possibilità, ma un contenuto attuale dell’apparire che con l’apparire di questo albero col frutto continui ad apparire questo stesso albero col fiore, e che quindi permanga nell’apparire l’<<unità>> dei diversi, ossia ciò che ad esempio, l’albero col fiore e l’albero col frutto hanno di identico.» (Destino della Necessità). Tuttavia, egli non sembra dare importanza al carattere di “prima-poi” della permanenza e del suo “prima” attestabile, anch’esso, solamente attraverso il ricordo. La permanenza non esce dagli schemi della differenza temporale, e come tale, potrebbe darsi anch’essa (una parte di essa, quella del “prima”) in un falso ricordo.  

  


 [1] Si potrebbe addirittura parlare di “catena di rimandi” e dunque di “significatività” del ricordare. In realtà potrebbe essere più interessante parlare di “appagatività” del ricordo: l’appagatività si potrebbe effettuare laddove il ricordo attesti, per una qualche sensazione non relazionale, la maggior attinenza con il passato. Quando il ricordo non è fumoso, ma nitido e chiaro, si potrebbe parlare di “appagatività”. Tuttavia, questo non lo metterebbe al riparo dall’essere un falso ricordo: esso può presentarsi con una chiarezza genuina.

[2] Non è certamente un caso che sia Bergson che Proust abbiano parlato di ricordi involontari. Anche Julia Shaw, nel suo Illusions of Memory, parla propriamente di come la volontà di ricordare fuorvii il ricordo stesso.

 

22 aprile 2021

 









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