Dalla strada per la strada

 

«Mi piace guardare le persone. A volte prendo la metropolitana tutto il giorno e le guardo e le ascolto. Voglio solo capire chi sono, cosa vogliono e dove stanno andando» (Ray Bradbury).

 

di Nicolò Gasparetto

 

La metropolitana è un efficiente punto di osservazione. Circondato da persone che stanno vivendo momenti completamente differenti, ritrovi la tua strada intrecciata con quella altrui, magari solo per qualche attimo, cadendo, a volte, per immaginare come saresti stato in altre vesti, più riconosciute e più abbienti, altre invece, per comprendere che, in fondo, ognuno vive una propria battaglia, piccola o grande che sia. Qualcuno stanco, qualcun altro perennemente in ritardo, chi legge nervosamente il giornale e chi guarda pensieroso verso l’ignoto.

 

Ognuno vive una propria battaglia. Tentar di categorizzarle come battaglie interiori, collettive, eroiche o memorabili potrebbe rivelarsi complesso oltre che vano. Ci sono persone che nella propria strada si fortificano e riemergono. Altre invece, nonostante abbiano cercato di fare altrettanto, cadono vittime degli ostacoli del percorso, in parte perché incapaci di perseverare distanti dalla mala vita, in parte perché poco istruiti per comprendere la gravità delle proprie azioni. Quanto (e come) incida la nostra silenziosa noncuranza verso certe tematiche più attuali e concrete che mai, in un presente così parallelo che ad ascoltare certe storie ci sembra di venir catapultati davanti ai grandi schermi delle ultimissime generazioni, è sicuramente un tema che negli ultimi anni sta riemergendo, forse spinti dalla carica emotiva che, finalmente per una giusta causa, i social media stanno trasmettendo anche agli italiani “più medi” e pantofoloni. Ma quando sentiamo parlare di “vita di strada” o di “etica della strada”, la maggior parte di noi si riconduce a scenari molto diversi tra loro: espressioni, dunque, diventate di uso comune per identificare impropriamente ciascuna americanata comparsa su Netflix od ogni strofa di un qualsiasi rapper occasionale. I termini si legano indubbiamente a situazioni diverse che si verificano tra le più disparate stratificazioni sociali: sarebbe dunque impossibile tentare di inglobarle dentro una tradizionale ma incompleta definizione. Ma negli ultimi anni, nei quali le culture urban & underground stanno obiettivamente ricavando un fortissimo seguito, vi sono molte tematiche le quali si stanno prendendo una propria e personale rivincita nei confronti di realtà più comuni ed allo stesso tempo relativamente più serene, anche dal punto di vista economico e sociale. È proprio la “musica di strada” che negli ultimi tempi sembra ricondurre la nostra attenzione verso temi fino a qualche anno fa distanti dalla cultura di massa e da quella delle classi dominanti. Il rap stesso, che nel nostro Paese nacque come un qualcosa per pochi emarginati, per poi espandersi e ramificarsi fino a prendere il centro della scena, ci racconta storie, sebben diverse tra loro, le quali tendono a puntare il dito verso le posizioni passive intraprese dalle nostre istituzioni o al menefreghismo di chi vive nei piani alti delle stesse città nelle quali, a solo qualche metro di distanza, in una qualsiasi casa popolare, non vi sono nemmeno le possibilità per condurre una vita dignitosa. Ma di fronte a queste situazioni, con la stessa incredibile capacità utile alla massa nel sorvolare sui problemi distanti al proprio ristretto nucleo sociale, si è più pronti a giudicare il circolo della mala vita, il quale si lega troppo spesso ai racconti degli stadi economicamente più bassi, invece di indagare nei perché di determinate azioni, usuali in periferia o, più generalmente, nella povertà.

 

Sono molti gli artisti nati tra le vie più povere del nostro Paese che, nonostante il successo, non hanno dimenticato le umili origini che hanno contraddistinto le prime opere e che continuano ad influenzare la loro morale. Ma oltre ad ammettere le disuguaglianze nelle quali molti poveri vengono abbandonati a se stessi, il passo successivo è mobilitarsi nel tentativo di aiutarli, in modo da precedere piste facili a chi si trova con le spalle al muro, nel tentativo di re-indirizzare le sregolate situazioni nelle quali persone poco seguite finiscono per ritrovarsi.

 

Nel famoso format ideato da Esse Magazine e condotto da Antonio Dikele Distefano, non sono rari confronti e dibattiti nei riguardi di vita e codici della strada. Ponendo l’attenzione su di essi, Dikele ha chiesto a Tedua in un’intervista (la quale vide la partecipazione anche di Massimo Pericolo, altro rapper cresciuto in estreme condizioni di povertà) quale sia la via principale per poter strappare un biglietto verso condizioni sociali più serene per un giovane che vive tutt’oggi nelle strade dove è cresciuto lo stesso artista di Cogoleto, in provincia di Genova. Egli rispose, in maniera piuttosto concisa e cinica, che «dalla strada ci si esce con la cultura». «Non c’è altra strada», aggiungerebbe il Maestro di Certaldo Luciano Spalletti in un qualsiasi post-partita ricco di pathos. Se qualcuno citasse altri percorsi, si tratterebbe semplicemente di vie molto facili da attraversare, ma che, alla fine, ti riportano al punto di partenza, impedendoti di slegare dalla coscienza azioni che non avresti mai dovuto compiere. Tedua stesso, parlando di se stesso come il più colto tra i suoi, agiva un po' come la coscienza del gruppo, biasimando a fine giornata alcune delle loro azioni. Fu addirittura punito per aver tentato di riportare nella giusta strada qualcuno del suo quartiere. Quasi ad impedire che la cultura prendesse il sopravvento dove la mala vita sguazza. Perché è molto più difficile riportare la luce nei quartieri bui che attirare chi è ingenuo nelle tenebre. A sguazzare nelle strade, tutt’oggi, vi sono molti ragazzi che giocano a ricercare il vero fascino della strada con azioni sbagliate, nonostante il fascino della strada, inconfondibile per chi ci abita ed incomprensibile per chi ne è distante, non si possa cogliere con gli atti vandalismo, ma con i veri valori di fratellanza che essa (duramente) insegna.

 

Con una visione d’insieme più ampia rispetto a quella presa in considerazione finora, è evidente come dinamiche simili si riflettano anche al di fuori del nostro confine, e di come il rap venga da sempre utilizzato come strumento per rivendicare alcune realtà dimenticate, con un filo conduttore comune tra di esse. Raccontare, testimoniare e ricordare sono ottimi strumenti per impedire che le masse non dimentichino, con il proprio ego sproporzionato, di appartenere ad una società nella quale non vi sono le stesse possibilità per tutti.

 

Agli inizi per combattere le discriminazioni razziali negli USA, in seguito quelle sociali in tutto il mondo. Il linguaggio con il quale si esprime la cultura di strada ha molto da insegnare a tutti coloro che si sentono moralmente distanti da determinate situazioni. Il rispetto e la valorizzazione dei luoghi sono parte integrante del bagaglio culturale che l’arte di strada insegna a coloro che si cimentano alla scoperta dei borghi poveri delle metropoli, allo stesso piano dell’aiuto fraterno, degli spiriti di adattamento e di condivisione. Perché quando nasci nella povertà cerchi il conforto, ancor di più, in coloro che stanno nelle tue stesse condizioni. È la strada stessa a fortificarti, a renderti più pronto davanti alle sventure. Tutto questo ci viene segnalato non solo dalla vasta dimensione artistica, ma dagli stessi personaggi che, una volta promossi in quartieri più tutelati, raccontano di una infanzia ricca di povertà e contraddizione, la quale, tuttavia, li ha resi inevitabilmente più cinici e accorti nella scalata verso una vittoria. Molti calciatori sudamericani, per citarne alcuni, hanno vissuto un’infanzia composta da macabri slalom tra i barrios della droga e quelli delle armi, abbandonati a sé stessi e molto spesso perdendo, intorno a sé, le persone alle quali avevano affidato la propria esistenza. Ma nel percorso, nonostante i ricordi dai quali non puoi più nasconderti, la cosiddetta “fame” spesso si riprende la rivincita. Diventa l’inarrestabile stimolo per sconfiggere le avversità nella tua formazione, forse perché relativamente più semplici rispetto a quelli che ti vedevano affamato ma col frigo vuoto.

 

Ma se tutto ciò appartiene all’immaginario della strada vista con gli occhi di chi ne è uscito a pieni voti, allora il compito dell’artista è anche quello di testimoniare per chi non ce l’ha fatta, per chi è rimasto intrappolato tra le terribili fauci dei quartieri dimenticati, dove è uso comune la forza per farsi giustizia da soli – perché non tutelati o perché più facile, non comprendendo fino in fondo la gravità delle proprie azioni –, risolvere una diatriba di quartiere da solo, perdendo la speranza di un futuro degno di essere vissuto. È questo il lato probabilmente più oscuro nella strada: il codice stesso. Se non sei tutelato, tocca a te attaccare per difenderti: non esiste comfort zone.

 

Grande o piccola essa sia, ognuno di noi vive una propria battaglia nella propria strada. Sicuramente vivere un’infanzia difficile, per qualche artista, può risultare il vero stimolo da cui partire. Ma, ovviamente, non solo chi è molto vicino a determinate tematiche trova gli stimoli per “affermarsi”, nel suo piccolo, in virtù delle proprie passioni e soprattutto dei propri obiettivi. Gli ostacoli nel percorso li vive ciascuno di noi, ricco o povero che nasca. Lo stesso Tedua ci racconta di come la sua prospettiva nei confronti dei benestanti sia cambiata nel corso del tempo, scoprendo che ciò che chiamava “odio” da piccolo, era solamente “invidia”, ma una volta raggiunto il successo tra palchi ed ascolti, notò simili difficoltà in coloro che tanto detestava per menefreghismo verso chi patisce la fame. Nella sua seconda opera, Mowgli, accomuna la forza di volontà dei «ragazzi del riformatorio» a «chi cresce da solo e sta fuori dal coro» e, con una dimensione e prospettiva più ampie, anche a «chi è nato ricco ma diventa il triplo» (necessaria, ovviamente, una interpretazione che tenga in considerazione oltre alle umili origini dello scrittore, anche le critiche che egli stesso rifilava alle istituzioni). Lo stesso Leopardi, all’interno dello Zibaldone, ci dimostra (in un’ottica colma di “pessimismo” e priva dell’infantile ed ingenua speranza che contraddistingue chi vive nei barrios), prendendo come esempio un cavallo, che, una volta ricevuto un cavallo che tanto desideravamo, (vista l’incolmabile ricerca di felicità dell’essere umano) capiamo di aver in realtà soddisfatto semplicemente un piacere circoscritto, continuando (vanamente) a cercar di riempire il vuoto creatosi tra noi e la felicità.

Avvicinando l’infelice Giacomo allo speranzoso Tedua (se è vero che la vita di strada stimola sin da piccoli, allora il secondo non ha nulla da invidiare al primo) tutti noi viviamo una propria personale battaglia contro ciò che ci rende infelici: le strade si intraprendono sempre per un obiettivo, molto spesso il rispettivo treno passa una volta sola.

 

Quando prendiamo la metro a fine giornata, dunque, stanchi, affamati, arrabbiati o delusi, ricordiamoci che 

«una cravatta non distingue un uomo, neanche se muore. Una farfalla vive un giorno solo, pensa se piove».

 

22 gennaio 2021

 




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