Ricordo di Gramsci

 

A un anno dalla fine della Seconda guerra mondiale, Mario Garuglieri consegnò alla rivista «Società» un vivo ritratto della vita di Gramsci e del rapporto che egli ha intessuto con il fondatore del PCI. A più di settant'anni di distanza, lo scritto permette di avere un intimo sguardo sulla coerenza d'azione e di pensiero di uno dei più grandi teoreti e politici del ventesimo secolo.

 

di Mario Garuglieri

 

Vidi Gramsci la prima volta nel 1920 al convegno nazionale della frazione, tenutosi a Firenze nel locale della FIOM. Immaginavo quell'uomo, che mi era noto per la sua attività politico-giornalistica, fisicamente forte, e grande fu quindi la mia delusione, quando, cercandolo fra i convenuti (ero incaricato della verifica dei poteri), mi fu additato dal prof. Verdaro. Mi alzai dal banco, commosso mi avvicinai a lui e gli strinsi con calore la mano. Questo fu l'inizio di una amicizia che rinsaldammo nel carcere

 

Fisicamente era brutto, deforme, ma noi, che gli fummo vicini, lo sentivamo bello. Era povero. Nacque ad Ales in Sardegna nel 1891 da famiglia piccolo-borghese, andata in dissesto, ed era costretto a lavorare per guadagnarsi le spese scolastiche. Andato a Torino, si chiude nelle biblioteche e studia filosofia, economia, scienze sociali.

 

Si laurea in filosofia e, attratto dal marxismo, entra nel Partito Socialista. Giornalista mordace, ironico, profondo, violento, stritola gli avversari in polemiche spietate. 

 

Mentre infuria la prima guerra mondiale, gli operai torinesi si sollevano e Gramsci, dopo aver studiato le cause di quel movimento, prepara il suo spirito, attraverso quelle esperienze, ad affrontare i problemi politici del dopoguerra. Fonda L'Ordine Nuovo dalle cui pagine cerca di rinnovare marxisticamente il pensiero socialista e di farlo aderire alla realtà storica del momento. E cento altri problemi affronta e studia con nuovi metodi: l'eduzione delle masse, l'istituzione delle commissioni interne, i compiti dei consigli di fabbrica, il controllo della produzione da parte del proletariato, i rapporti tra lavoratori di fabbrica e tecnici.

 

Studia e lavora instancabilmente. Trascura se stesso perché sente, col suo grande istinto, che il momento storico è propizio per la rivoluzione comunista: ma i socialisti non l'hanno prevista, né hanno preparato i quadri. Il suo gruppo – quello dell'Ordine Nuovo – lavora febbrilmente a questo scopo. Una nuova coscienza di classe si forma nei giovani proletari torinesi. I tempi incalzano, gli avvenimenti precipitano: la maggioranza si stacca dal massimalismo e dal riformismo.

 

Al Congresso Socialista di Livorno il gruppo torinese domina. Gramsci aveva adunato intorno a sé circa ventimila socialisti e tutto il movimento della gioventù socialista italiana: le basi per la formazione di un Partito rivoluzionario comunista in Italia erano gettate.

 

L'Ordine Nuovo diventa quotidiano e Torino il centro propulsore del movimento comunista. Torino proletaria, Torino che fu sempre all'avanguardia del movimento rivoluzionario in Italia, trova in Gramsci l'uomo del pensiero e dell'azione Ma e il resto d'Italia? No! Negli altri centri si era ancora al giacobinismo teatrale e demagogico.

 

Gramsci combatte quella mentalità massimalista, ma sa bene che per convincere le masse è necessaria la prova dei fatti: l'errore teorico dev'essere provato dall'esperienza. E così il fascismo si affermò: perché mancava la coscienza rivoluzionaria nei capi del massimalismo, perché le masse, non ancora preparate alla lotta di classe, non seguirono il Partito Comunista. Gramsci sentì la necessità di organizzare in Italia un partito forte della classe lavoratrice, perché egli non fu solo un grande pensatore ma anche un grande realizzatore.

 

Il marxismo gli aveva dato il metodo per interpretare la storia, vederne le contraddizioni, lo sviluppo dialettico e seguire la realtà in tutti i suoi movimenti, e il leninismo la prassi.

 

Egli diceva: «Un partito rivoluzionario dovrebbe, per definizione, essere un partito creatore di storia, padrone di ogni fatto, capace di vedere e compiere ogni cosa, nella luce di un principio universale, mai spettatore, attore sempre». Egli pensava che è l'uomo che fa la storia, e sentendo così il marxismo, lo difendeva dall'accusa di «fatalismo storico». Gli errori di interpretazione della prassi marxista li vedeva svilupparsi nel seno stesso del Partito Comunista e ce li dimostrava nelle sue lezioni, attraverso lo sviluppo dialettico della storia. Gramsci faceva un profondo raffronto storico fra il periodo che va dalla Rivoluzione francese del 1870 e quello dell'odierna civiltà supercapitalistica, contrapponendo il concetto di guerra di movimento a quello di guerra di posizione. 

 

Nel primo periodo non abbiamo i partiti politici organizzati, bensì movimenti che ci ricordano gli agitati Clubs della Rivoluzione francese, i quali movimenti, facendo prigionieri i governi, mettevano alla testa delle nazioni le capitali, quali arbitre delle decisioni ardite e violente; ma nel secondo periodo la struttura economica della società, coi suoi complessi industriali, con la costituzione dei grande partiti politici, ha rafforzato tutta l'ossatura dello stato moderno con una attrezzatura di difesa tale che non è più possibile impadronirsi della «diligenza» con un «semplice assalto». Ci vuol ben altro! Quindi non più guerra di movimento, ma guerra di posizione, ci insegna il Maestro, per il quale la rivoluzione permanente era storicamente superata. Ed è così che egli ha educato centinaia e centinaia di giovani, che oggi sono i migliori quadri di quel partito che egli volle creare.

 

Gramsci lavora con la fede dell'apostolo. Eletto deputato svolge in Parlamento il suo mandato, nel periodo aventiniano, affrontando coraggiosamente i fascisti che lo beffeggiavano miserabilmente per i suoi difetti fisici. Un giorno, mentre parlava alla Camera, il deputato fascista Giunta gridò: «Silenzio, parla Rigoletto». Povero Gramsci. Le deformità del suo corpo non raggiunsero mai quelle obbrobriose dell'animo ci chi quell'ingiura lanciò!

 

Intanto viene chiamato a Mosca per compiti di carattere europeo; vi giunge ammalato ed è costretto a vivere per lungo tempo in clinica: il suo corpo è già logoro! Ritornato in Italia nel 1925, dopo un lungo viaggio all'estero, viene arrestato. Mussolini, per toglierlo di mezzo, consuma un mostruoso crimine giuridico con la complicità della magistratura italiana. Gramsci viene processato per l'attività comunista, svolta prima delle leggi eccezionali e condannato a vent'anni di reclusione. È una sentenza di morte. Mussolini si vendica dell'uomo che lo aveva umiliato con articoli e discorsi pieni di sarcasmo.

 

Anche in carcere Gramsci studia e prepara i compagni detenuti alla futura ripresa proletaria: sa che l'avvenire storico è del comunismo. Contro le vecchie classi dirigenti, che avevano voluto l'esperimento fascista, profetizzava che «nessun movimento reazionario le avrebbe servite male come il fascismo». Scontò la pena quasi interamente a Turi di Bari ed io gli fui fedele compagno anche in carcere.

 

I detenuti politici ogni mattina attendevano con ansia l'ora del passeggio per ascoltare le lezioni del nostro Maestro. Scuola... peripatetica: all'aperto, camminando in modo da non dar motivo di richiami da parte dei carcerieri... Le espressioni di lui erano così forti da lasciare l'ascoltatore colpito: i suoi grandi occhi erano di una mobilità e profondità non comune. Spesso, quando parlava, si poneva l'indice sulla punta del naso, fissava con espressione dolce o severa, secondo l'argomento, e quella mimica armonizzava simpaticamente col suo dire. Anche il gestire, più delle mani che delle braccia, era corretto ed aiutava alla comprensione.

Aveva un'antipatia profonda per gli pseudo-intellettuali e per tutto ciò che era superficialismo, irritando spesso, con questa sua avversione, i compagni intellettualoidi che lo avvicinavano, perché Gramsci combatteva i presuntuosi e ciò che era disonesto nel campo intellettuale. Nelle lezioni che ci teneva era severissimo e, naturalmente, ogni qual volta incaricava qualche nostro compagno intellettuale di fare delle relazioni, non risparmiava a nessuno richiami per gli errori compiuti, dimostrandosi logicamente più intransigente con chi poteva e doveva dare di più, per il grado di istruzione e di preparazione. Non che egli avesse qualche preconcetto verso gli intellettuali, tutt'altro! Nelle sue lezioni insisteva spesso sulla necessità di preparare l'elemento intellettuale, constatando storicamente che, mentre le precedenti rivoluzioni sociali erano state precedute da un processo di formazione sociale del quale facevano parte i ceti intellettuali: clero, caste militari, professionisti liberi, la classe proletaria deve, al contrario, crearsi appositamente l'elemento intellettuale nel pensiero. Di qui, difficoltà, deficienze organiche che sono le cause principali delle sconfitte susseguenti e dei ritardi negli sviluppi storici.

 

Ebbe per noi, lavoratori manuali, e per tutti i compagni operai, che avvicinava, particolari riguardi e paterne attenzioni, curando pazientemente la nostra cultura e tenendoci in piena confidenza. Questa sua predilezione, come tutti i compagni carcerati a Turi sanno, si riversò massimamente su due cari giovani milanesi, Celesia e Piacentini, condannati a vent'anni di reclusione. Questo suo contegno suscitò certe volte gelosie fra gli stessi compagni che gli procurarono non pochi dispiaceri anche in carcere. Se si accorgeva che un compagno, trattandosi specie di noi operai, commetteva degli errori di concetto, o false interpretazioni, usava, pigliandoselo sotto il braccio, trattenersi isolatamente con lui, per chiarire, o meglio insegnare.

 

Una volta mi espressi sul concetto di «democrazia» in modo errato ed egli che aveva un culto profondo per la vera democrazia, non potendo trascurare il mio errore, mi disse: «Caro Mario, tutti gli scamiciati si credono democratici; coloro che aspirano all'uguaglianza sogliono dirsi democratici; democratici si ritengono tutti coloro che vogliono il benessere ed il governo del popolo, ma questo non è avere una concezione democratica della vita. Per raggiungerla si ha bisogno di interiorità, si deve tendere ad elevare il proprio spirito, sentire la necessità interiore che il proprio livello sia raggiunto da tutti i nostri simili, indipendentemente dal raggiungimento dello scopo o meno. Bisogna tender loro la mano, chinarsi a loro, se occorre, e fermamente sollevarli a noi. Uno spirito democratico deve avere un alto concetto della "personalità " umana, perché quando non v'è rispetto per questa, manca la concezione democratica, e la personalità umana trova le condizioni del suo sviluppo soltanto nella "libertà democratica"».

 

Questa chiusa mi fece comprendere il mio errore. Avevo infatti espresso un giudizio su alcune categorie della società umana, definendole «umili» ed egli scorse, come del resto era nel mio concetto, che non attribuivo a quelle categorie nessuna capacità di elevarsi alle aspirazioni più alte della vita. Per Gramsci ciò equivaleva a scarsa concezione democratica. Un giorno ci tenne una conversazione su di un tema discusso allora in alcune riviste di cultura, «umili e potenti» nella concezione manzoniana, e fu magistralmente grande, come sempre. Il suo spirito critico era in continua attività. Spesso ci intratteneva su problemi letterati o su argomenti di critica letteraria. Fra i poeti italiani prediligeva Foscolo e Leopardi e credo che abbia lasciato scritto nei suoi quaderni cose interessanti in proposito.

 

Per lui, la cultura della classe lavoratrice avrebbe dovuto tenere un passo più accelerato, per avvicinarsi sempre più all'alta cultura, seguendo logicamente quelle dottrine filosofiche che ebbero l'egemonia in un dato periodo storico. Al popolo, diceva, non si possono far fare dei salti, come nello sviluppo culturale di una classe o di una società non si può creare discontinuità. In questo suo accelerato percorso il popolo passerà dalla filosofia positivista, morta e sepolta dall'idealismo contemporaneo, al'idealista, sino a che raggiungerà le più alte conquiste che, nel campo del pensiero porteranno alla civiltà socialista. Ma nel volgarizzare al popolo, per elevarlo, scienza e filosofia, bisogna porlo nelle condizioni di afferrare la concezione che andiamo esponendogli, affinché ben preparato diventi cosciente. Positivismo, idealismo, agnosticismo religioso sono problemi che non si spiegano con immagini semplici, come ad esempio ha potuto fare la Chiesa cattolica. Essa è stata grande nel volgarizzare la «dottrina cristiana». Ha saputo creare una religione per l'alta cultura e per il popolo. Si è data cura di porre come risolto il problema della causa prima ed ultima della vita, ed il popolo vi trova la risoluzione della concezione del mondo e finisce con l'accettarla soddisfatto. La Chiesa, col presentargli il Padre degli uomini, gli spiega l'origine dell'uomo, senza le complicazioni scientifiche del darwinismo, ed il Padre Eterno, che, in quanto essere perfetto, non può venire ad altra causa, gli risolve il problema di causa ed effetto, di principio e fine. Col premio della Giustizia Divina, infine, dà lo stimolo a bene operare, dà forza al problema morale. Nel materialismo si ha la medesima semplicità nel risolvere il problema, che ha per il popolo la sua definitiva spiegazione. La materia è sempre esistita e sempre esisterà (principio e fine). «Niente si crea e niente si distrugge», ed il pensiero, traendo origine dalla materia, trova nell'uomo, ultima scala della evoluzione della specie, le condizioni di sviluppo. Ma... e il problema morale? Il fine morale della vita? Per Gramsci, Foscolo materialista si era posto questo problema. Egli pensava che alla Giustizia Divina, remora per gli uomini, bisogna sostituire un altro culto, che, religiosamente sentito, incitasse gli uomini al bene, al grande operare per eternarsi nella memoria dei posteri, perché

 

« a egregie cose il forte animo accendono

l'urne dei forti...»

 

e la morte darà a chi bene opera fama e riposo.

 

Ci intratteneva anche raccontandoci qualche novella dei nostri grandi e soprattutto di Sacchetti. Gli episodi dei «compagnoni» erano descritti da lui con tanta vivacità e colore che si vivevano veramente.

Né trascurava di parlarci dell'importanza dello studio della lingua latina. Ci faceva comprendere che la conoscenza di tale lingua permette di anatomizzare la nostra, di sezionarla in modo che ogni particella puoi studiare separatamente, come fa il chirurgo col corpo umano. E il suo dire era accompagnato da gesti della mano e ci pareva di vedere la lingua italiana già divisa dal bisturi, proposizione per proposizione, individuata, misurata, comparata dal grande strumento che è il latino. Lo seguivamo attenti, felici di apprendere o approfondire le nostre cognizioni.

 

Quando la mattina si scendeva al passeggio, era una gara, fra noi compagni, per essere tra i primi ad avvicinarlo e porgli dei problemi. Volli conoscere il suo pensiero sul movimento sindacalista italiano. «I sindacalisti italiani – mi disse – da Rossoni a Orano, sono stati così incapaci di comprendere lo spirito della dottrina di cui si facevano assertori, che presero per azione diretta la violenza immediata (è tipica questa mentalità rissosa portata nelle lotte politiche in Italia) mentre questa doveva intendersi quale Sorel la propugnò, come tattica che esclude il partito politico, per dare alle organizzazioni sindacali il diretto contatto, nei movimenti sindacalisti o rivoluzionari, con gli organismo statali o industriali».

 

Una volta gli sussurrai all'orecchio: «Sai, Gramsci, che alcuni compagni ti pensano crociano». Sorridendo mi rispose: «È una sciocchezza di più che si dice sul mio conto; mettila assieme all'accusa che io fui capitano degli arditi (lo era stato il fratello), ché ci sta bene» E rise divertito. «Io ho per Croce quel rispetto che si deve agli uomini di alto pensiero; Croce è uno studioso serio; nella sua critica storica ci dà prova della robustezza del suo pensiero e di profonda cultura. Come filosofo ha raggiunto la massima altezza nello sviluppo del pensiero italiano, come politico è l'ultima espressione della dottrina liberale in difesa di una società che ormai volge al tramonto. Si accorgeranno i compagni di quanto io sia crociano, se leggeranno un lavoro che darò alla luce, su Croce».

 

Quando poi gli ponemmo il quesito se l'industrializzazione, portata al massimo del suo sviluppo, avrebbe fatto dell'uomo un semplice servo della macchina, uccidendo l'amore al lavoro, inteso come sviluppo del pensiero, reagendo energicamente disse: «Sì, nel sistema odierno. Quando ai nostri compagni proletari torinesi (egli aveva per il proletariato Torinese una predilezione, essendoci intensamente vissuto insieme), io spiegavo che attraverso i consigli di fabbrica avrebbero preso parte alla direzione della fabbrica stessa, essi si esaltavano perché comprendevano che ogni lavoro, anche il più umile, in quanto ritenuto necessità produttiva, sarà riconosciuto come un atto di volontà da parte dell'operante: l'automobile prenderà luogo di simbolo dell'attività produttrice e l'operaio troverà nella fabbrica un'elevazione spirituale in quanto si sentirà parte del complesso processo produttivo della fabbrica stessa e si renderà sempre più appassionatamente attivo così da divenire al medesimo tempo uno studioso di quel processo».

 

Per Gramsci marxismo era una nuova concezione del mondo, o meglio vedeva nel marxismo tutti gli elementi per una nuova concezione del mondo, per l'instraurazione di una nuova civiltà: la civiltà socialista. E per romperla con coloro che accusavano il marxismo di meccanicismo, di fatalismo, di determinismo economico, di economicismo, invitava a non parlare più di «struttura» e «sovrastruttura» economica, ma solo di processo storico nel quale tutti i fattori prendono parte: solo la prevalenza di quel processo era economica.

 

Fermo restava per lui che il modo di vivere determina il modo di pensare e non che il modo di pensare determina il modo di vivere. Così si rileva, a contrasto del pensiero idealistico, che la rivoluzione francese fu liberale, perché il modo di vivere delle due classi che la determinarono era individualistico; mentre non può esser che comunista la prossima rivoluzione perché il modo di vivere delle grandi masse proletarie è associato. La società moderna è a produzione di massa e quindi la concezione del mondo della nostra società non può essere che concezione associata.

 

G. P. da Volpedo, "Il quarto stato" (1901)
G. P. da Volpedo, "Il quarto stato" (1901)

 

Gramsci era ormai logorato da scompensi cardiaci e da affezioni polmonari. Mussolini, in seguito ai referti inviati dai sanitari del carcere, mandò un suo medico a Turi di Bari al vile scopo di dimostrare a Gramsci che era alla fine e convincerlo quindi ad accettare le «generose» offerte, purché chiedesse la grazia. Tra i vari argomenti che il «messo» aveva l'ordine di esporre vi era anche quello della politica dei lavori pubblici: città nuove, nuove reti ferroviarie ecc. Il messo si affannava a decantare i miracoli, ma ad un tratto Gramsci seccato gli disse: «Signore, ma non le sembra puerile tentare di cambiare il mio modo di pensare solo col prospettarmi la costruzione di cento città e di qualche chilometro di ferrovia? No, signore, la mia concezione del mondo è in pieno contrasto con chi l'ha mandata ad offrirmi la grazia». Detto ciò, seccamente, Gramsci chiese di essere ricondotto nella sua cella.

 

Una notte del maggio 1933 fui bruscamente svegliato dai carcerieri: «Garuglieri, alzatevi, abbiamo trovato Gramsci disteso per terra, svenuto». Balzai dalla branda imitato dal caro compagno di fede e di prigionia Trombetti: ci vestimmo in fretta, fissandoci negli occhi senza parlare, presi dalla stessa ansia. Quando ci accingemmo ad uscire dalla porta per andare verso la cella di Antonio, il carceriere fermò Trombetti: «Uno solo – mi disse –, basta Garuglieri». Il caro amico compagni mi gridò: «Chiamami, eh!». Compresi il suo dolore, la sua apprensione e lo rassicurai. Attraversai il corridoio; circa quaranta passi dividevano le due celle. Quel percorso così breve mi sembrò infinito. «Gramsci ci morrà», dicevo tra me. Il corridoio era oscuro e a me che fissavo lo sguardo, sembrava ancora più buio. Vedevo con spavento il vuoto che avrebbe lasciato, tra le file del proletariato, la perdita del maestro. E così è stato.

 

Aveva uno spirito elevato, una coscienza democratica che si possiede solo quanto la concezione della vita riesce a trascendere noi stessi, per sentirsi dell'umanità e per l'umanità. Noi, che abbiamo vissuto con lui in carcere, possiamo dire di averlo conosciuto meglio degli altri che lo conobbero fuori. Abbiamo veduto l'uomo quale esso era, con le sue virtù, i suoi difetti, con le sue passioni; abbiamo vissuto accanto a lui nelle rare gioie e nelle continue pene che egli soffriva più di noi, perché fisicamente più debole, perché spiritualmente più alto. Nel carcere più alta è la sensibilità, più forte è la pena, perché maggiori i bisogni dello spirito, inteso, questo, come pensiero.

 

Quante volte, camminando a lungo con lui nel cortile del «passeggio», senza potergli rivolgere la parola, me lo sentivo vicino; in quei momenti, più di sempre. Lo comprendevo nel suo silenzio, nella sua repressa collera, nel suo profondo dolore. Caro Gramsci! Quante amarezze gli procurarono non solo i nemici, ma, incredibile a dirsi, anche gli stessi compagni di prigionia! Questi ultimi, preoccupati forse un po' troppo della loro vita vegetativa, spesso erano ingiusti con lui. Preoccupazioni di questo genere non ne aveva Gramsci, a cui la buona cognata inviava fraternamente tutto quello che poteva desiderare. I detenuti politici, nella privazione di ogni cosa sentendo maggiormente gli stimoli, avrebbero voluto che Gramsci applicasse il «collettivo», come si usava dire in carcere quando si metteva tutto... in comune. Di qui piccoli risentimenti e meschinità, favoriti dall'angusto ambiente, in cui lentamente passavamo i nostri giorni. A queste debolezze, però, si abbandonava solo la parte più trita dei detenuti politici che definivano Antonio un egoista e se ne distaccavano. In tali momenti il maestro non era sereno, forse perché dimenticava che l'uomo è schiavo di alcuni bisogni e che occorre compatire i più deboli, ma riusciva poi a vincersi con la non comune comprensione delle meschinità umane.

 

Reagiva a questi suoi stati d'animo scherzando con noi, prendendoci in giro con versi satirici improvvisati, canticchiando pezzi d'opera, mentre per riposarci dal lavoro intellettuale giocavamo a dama, o parodiando versi, per adattarli alle circostanze. E quando era allegro spesso prendeva con me, perché mi pensava un po' svelto alla mano, la posizione di schermidore e all'improvviso portava la mano stesa a mo' di spada verso la mia pancia, e colpendomi mi diceva: «toccato... Rodomonte!», accompagnando queste parole con una risata.

Egli, superiore ad ogni convenzionalismo piccolo-borghese, ad ogni suscettibilità, nel donare non si preoccupava della forma, perché troppo semplice e nudo nell'intimità, tali riteneva i compagni. Non posso fare a meno di sorridere quando ricordo la maniera con cui mi donava qualche cosa. Preoccupato di essere veduto dai carcerieri (perché era proibito), teneva stretto nel palmo della mano il minuscolo involto sino a che non si presentava l'occasione di passarmelo. Quando poi nella mia cella scartavo l'involto per mangiare quel bocconcino, dovevo giocare di arte per trarre dalla carta quel dolce ridotto quasi a poltiglia.

 

Ricordando quelle sue mani nervose, che mi porgevano furtivamente i piccoli doni, mi vien fatto di rammentare un episodio dovuto alle sue unghie, che provocarono l'intervento dell'occhiuta polizia scientifica fascista. Una sera fummo sorpresi da una straordinaria visita e relativa perquisizione da parte di un ispettore e di un alto funzionario dell'Ovra, giunti appositamente da Roma. Noi, a cui fu ritirata tutta la corrispondenza in arrivo, che tenevamo gelosamente conservata, non sapevamo renderci ragione di ciò. Mi avvicinai ad Antonio, che in tali circostanze era solito parlar poco, e gli chiesi: «Che cosa cercano?». Strinse le grosse labbra e spingendo in avanti quello inferiore, fino a portarlo poco distante dalla punta del naso, alzando la testa e aggrottando le folte sopracciglia non rispose. Lo lasciai. Di lì a poco venimmo tutti rimessi in cella. A tutti, fuorché a Gramsci, fu resa la corrispondenza. Noi, i più affezionati al Maestro, ci preoccupammo e congetturammo non poco: si temeva per lui. Una punizione lo avrebbe ucciso anzi tempo! La mattina dopo, scendendo le scale, mi prese sotto il braccio e sorridendo tranquillo, mi disse: «Hanno tanta paura, che se ti cade un capello in una lettera lo sottopongono ad un esame chimico. Ah! La polizia scientifica! Pensa che mi hanno sottoposto ad una prova calligrafica! Dopo avermi fatto scrivere una mezza pagina, hanno osservato, con una lente d'ingrandimento, sai che cosa?... – e qui si mise a ridere di gusto – i segni che lascio sulla carta con le mie lunghe unghie, quando scrivo. Per questo hanno mobilitato l'Ovra e la polizia scientifica!».

 

Un giorno mi raccontò, nel modo brillante come a lui solo riusciva, un episodio della sua infanzia: «Quando ero bambino, i ragazzi del paese non mi avvicinavano se non per motteggiarmi. Stavo quasi sempre solo; qualche volta, trovandomi per caso tra loro, si scagliavano contro di me e non solo a parole. Un giorno – e mentre mi raccontava i grandi occhi gli brillavano di una luce interiore – trovandomi sopra un piano elevato, cominciarono a scagliarmi dei sassi con più violenza del solito, con la malvagità che è propria dei bambini e degli esseri deboli. Persi la pazienza ed afferrando sassi anch'io presi a difendermi con un'energia tale da mettere in fuga i miei assalitori. mario, riuscii a vincerli! Li terrorizzai a tal punto che da quel giorno mi rispettarono e non mi dettero più noia. Corsi dalla mamma, (amava tanto la madre e me ne parlava spesso), e le raccontai la mia prima battaglia vittoriosa: ella mi baciò teneramente e questo fu il miglior premio che io potessi desiderare».

 

Nel racconto fattomi con forza e passione, si sentiva che riviveva quella scena e ne era orgoglioso. Il suo spirito si educò a quel dolore: l'essere beffeggiato, perché deforme, gli sviluppò un grande amore per tutti quelli che soffrivano ingiustamente ed il bisogno di soccorrerli lo spinse a sacrificarsi generosamente per la loro causa.

 

Per la sua fede in quella causa, il suo gracile corpo giaceva freddo nel lettuccio della misera cella!

 

Mentre agitato percorrevo il corridoio che mi divideva da lui, tutti questi episodi, tristi e lieti, si affollavano alla mia mente.

 

Entrai nella mia cella con la segreta speranza di riudire la sua voce, ma il mio desiderio non fu accontentato.

 

I suoi occhi erano ancora luminosi: «Antonio», gli dissi, «coraggio! Che hai?». Non poteva rispondermi: quella parola che ci aveva tenuti avvinti per tante ore, era muta! L'abbracciai. Lui mi guardava fisso e piangeva. Finalmente, mentre ansioso spiavo le sue labbra, dopo un'oretta e con uno sforzo sovrumano, riuscì a balbettare: «Mario, è una fortuna per me poter morire tra le braccia di un compagno che un giorno potrà dire ai lavoratori come io li abbia tenuti presenti nel cuore sino agli ultimi momenti della mia vita».

 

Giunsero il direttore del carcere, il medico ed il cappellano.

 

Il medico non nascondeva, con evidente perfidia, la gravità del caso: «Vede, Gramsci», gli disse, con un sorrisetto cattivo, «le sue condizioni sono quelle che sono... Lei non può resistere al regime del carcere, accetti la grazia offertale dal Duce...»

 

Intervenne il prete: «Pensi a sua madre», disse, «pensi ai suoi figli».

 

Gramsci riuscì ad alzare il braccio, com'era solito fare nei momenti d'irritazione e, fendendo l'aria con la mano tesa, balbettò:

 

«Lei, cappellano, è il custode delle anime, no? Ci sono due vite: quella dello spirito e quella della materia, vero? Quale volete che io salvi? La grazia potrebbe salvare il mio corpo, ma ucciderebbe il mio spirito. Ha inteso?».

 

Trascinò la sua vita ancora quattro anni. Egli difese il suo spirito sino alla morte, socraticamente.

 

Ci è stato maestro anche morendo!

 

Tratto dalla rivista Società, numero 7-8 del 1946

 







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