L’oblio del padre: Dante e il linguaggio postmoderno

 

Il linguaggio è ormai considerato come qualcosa di variabile, relativo e senza una direzione stabile di sviluppo. Ma si è sempre ragionato così su di esso? Soprattutto, è questa la visione corretta su cui far poggiare le proprie parole?

 

di Francesco Pietrobelli

 

Dipinto di Leonid Osipovich Pasternak (1862-1945)
Dipinto di Leonid Osipovich Pasternak (1862-1945)

 

Uno dei principali problemi, che un maestro deve affrontare nell’educare l’alunno, è l’insegnamento della grammatica. L’apprendimento della propria lingua è spesso visto come qualcosa di noioso e complicato, specie nel caso dell’italiano, intriso di regole e situazioni particolari, ardue da comprendere appieno e attuare nei vari contesti. Una difficoltà che porta l’insegnante inevitabilmente a scontrarsi con gli scolari, da un lato vogliosi di qualsiasi altra cosa piuttosto di un’arida lezione sulla forma; dall’altro immersi in un sacco di lacune grammaticali, causate dalla prima educazione infantile, difficili da sanare se non con un lavoro costante. Gli errori che si fanno quotidianamente, in quanto immersi nel proprio parlato, non si tolgono certo con una semplice ammonizione.

 

Una delle più tipiche lacune, talmente diffusa nei giovani da diventare paradigmatica, è il famoso a me mi piace. Quante volte un maestro – come pure un genitore – si è trovato a dover specificare l’errore insito nella ripetizione del pronome personale? Per quanto, in determinati contesti informali, tale costrutto possa essere accettato, si tende in genere a ribadire di evitare tale ridondanza. Ma oltre a ciò, non poche volte si è anche sentito dire che sì, a me mi piace va evitato nella maggior parte dei casi, ma se col tempo entrerà d’uso nel linguaggio comune, nei vari contesti di dialogo, la grammatica si adeguerà.

 

È fondamentale far caso a questa affermazione, perché con essa non si indica solo che la lingua varia nel tempo – su questo c’è poco da ragionare –, ma che il cambiamento, in fin dei conti, è casuale. Detto in altri termini: le regole del linguaggio sono del tipo A, ma se la gente continua a usare il tipo B, col tempo il manuale di grammatica si adeguerà a questo cambiamento. Ci si trova così di fronte ad un’affermazione alquanto problematica: se tutto è casuale, per quale motivo allora si dovrebbe imparare la forma corretta? 

 

Ludwig Wittgenstein (1889-1951)
Ludwig Wittgenstein (1889-1951)

 

Tanto la grammatica cambia e a modificarla è proprio colui che parla nella quotidianità. Che senso ha faticare e cambiare il proprio modo di esprimersi, se tanto la fatica la si può benissimo evitare? Ecco così che il proprio parlare è un semplice Gioco linguistico, un modo di esprimersi basato su regole che non sono migliori rispetto ad altre, né che tendono ad un ideale:

 

« E non si dà anche il caso in cui giochiamo e – ‘make up the rules as we go along’?. E anche il caso in cui le modifichiamo – as we go along. » (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche)

 

Semplicemente si parla secondo un determinato modo di fare, che si sviluppa e cambia nel tempo a seconda di come si è interessati a proseguirlo.

 

Eppure, a guardare un po' indietro nel tempo, ci si accorgerebbe che non tutti la pensavano così. Si apra uno dei libri più conosciuti del panorama italiano – il De vulgari eloquentia – e si noti come il padre della nostra letteratura non la pensasse allo stesso modo. Dopo aver esplicitato l’interesse di trovare il volgare illustre – la forma adatta allo stile sublime, alla trattazione degli argomenti più elevati –, prosegue la ricerca affermando che:

 

« definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, curiale e regale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati. »

 

 

Dante evidenzia come il volgare illustre sia quella lingua ideale, a cui ogni singolo dialetto tende in misura diversa. Col risultato che, se si vuole svilupparlo seriamente, bisogna comparare le diverse lingue del suolo italiano e scovare quanto vi sia di buono in ognuna di esse, così da poter usare tali scoperte come base per lo sviluppo di un linguaggio migliore, più vicino alla forma corretta.

 

Il linguaggio insomma, secondo questa prospettiva, non è arbitrario. Certo, si è liberi di cambiarlo a casaccio, decidendo di usare espressioni differenti da quelle attuali per esplicare i propri pensieri. Ma si è sicuri che un cambiamento casuale sia realmente indifferente? Guardando al caso italiano – ma il discorso potrebbe essere esteso benissimo ad altri casi –, la lingua è stata il risultato di uno sviluppo meditato, del processo col quale uomini illustri, partendo dalle prime espressioni rudimentali, hanno cercato di sviluppare una forma che meglio potesse rappresentare i propri pensieri, nella consapevolezza che la forma non è assolutamente qualcosa di indifferente per il contenuto da trasmettere. Per fare un esempio a riguardo, sarebbe come sostituire la famosa poesia Soldati di Ungaretti:

 

Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

 

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie.

 

Con un semplice I soldati schiattano al fronte con la facilità con cui cadono le foglie in autunno, si può realmente pensare che le due differenti formano trasmettano lo stesso contenuto? La morte dei soldati è espressa nello stesso modo?

 

Bisogna porre in questione il modo usuale di guardare allo sviluppo della lingua. Da decenni si vive ormai immersi nell’atmosfera postmoderna, che tutto relativizza, facendo obliare alle persone il valore che si cela dietro le cose, ciò che guida il proprio agire. Un modo di pensare che ha toccato anche la lingua col quale ci si esprime, affermando ch’essa pure non ha direzione, ma è un mero concatenarsi di variazioni casuali, dovute alle indifferenti scelte della gente. Ma si può esser sicuri di non aver preso un abbaglio con ciò? Non si rischia di perdere secoli di faticosi lavori per comprendere il modo di esprimere al meglio ciò che si pensa? Ricordandosi che non riuscire ad esprimersi bene equivale a non riuscire a capirsi. Ricordandosi che forma e contenuto non vanno separati e che, se si vuole veramente far chiarezza fra i propri pensieri, forse è necessario far chiarezza nella grammatica stessa.

 

18 ottobre 2017

 




  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica