L’origine comune dell’estremismo religioso e della schizofrenia occidentale

 

Senza il confronto, il conflitto, pur possibilmente zittito dalla forza prevaricante di una delle due parti, si riavrà, come le teste dell’idra che rispuntano da ferite non cauterizzate.

 

Il sacrificio estremo dei combattenti della jihad, il desiderio di strappare le vite di quanti più kafir, infedeli possibili, ci rende difficile la comprensione di queste azioni, ed è forte la tentazione di individuare il fattore scatenante di queste atrocità in una presunta “cultura differente”, definendo la logica manichea per cui “l’Occidente” vestirebbe i panni del paladino della libertà insidiato da nemici crudeli che disprezzano la vita. Una visione improbabile, sdoganata dallo studio di Olivier Roy, rinomato islamologo francese, che indaga l’identikit tipica del novello jihadista nato in seno all’Europa: giovane, straniero di seconda generazione, proveniente da un ambiente familiare problematico, con un passato di piccoli crimini e spesso un periodo passato dietro le sbarre; il ripudio o il conflitto con la religione islamica prima di una repentina “conversione”, che spesso avviene in prigione e viene fomentata dal mondo chiuso generato da un algoritmo dei social network.

Gurvan Kristanadjaja, alias Rue89, racconta in un articolo per Internazionale di come sia riuscito, tramite un profilo fasullo, a impersonare un aspirante jihadista. In ciò venne facilitato dal funzionamento del social, che propone allo user contenuti simili a quelli apprezzati. Se consideriamo inoltre che non è possibile per lo staff censurare tutti i contenuti che non si accordano alle linee guida – contenuti, quelli pubblicati da questi sedicenti combattenti “per l’Islam”, che spesso mostrano cose ben oltre persino il codice penale – il risultato riportato da Rue89 è prevedibile: 

« Ho passato appena due giorni su Facebook con il mio account falso e ho l’impressione che i miei punti di riferimento si stiano dissolvendo. Come se Facebook mi avesse trasportato in un universo differente. A forza di vedere morti, decapitati e jihadisti, comincio a trovarlo normale. […] Anche per me c’è una sorta di circolo infinito. Più i miei amici saranno filojihadisti, più Facebook mi proporrà di fare amicizia con gente della stessa opinione. È l’endogamia estremista. »

A coloro che sono cresciuti nell’epoca della political correctness, che, irriflessa come spesso è, porta al timore di esprimere un giudizio sulle opinioni che ci vengono proposte, tale condizione potrebbe trasmettere un senso di claustrofobia; ciò non toglie che il non esprimere un giudizio e il non prendere posizione risulta tanto castrante per il pensiero come il propugnare delle convinzioni ignorando ed escludendo dal ragionamento gli elementi che potrebbero contraddirle. Queste due tendenze presentano ad ogni modo differenti modalità di espressione, inoltre è piuttosto raro trovare qualcuno che patrocini in toto l’idea per cui non esiste alcuna verità, mentre negli ultimi anni abbiamo visto come l’adozione di un dogma come misura di ogni cosa abbia preso decisamente piede. Entrambe le posizioni sono, se estremizzate, insostenibili: l’oppressione della libera espressione ha portato nel passato a declamazioni della libertà individuale estreme come quella della rivoluzione francese; mentre il bisogno di certezze e verità in un’epoca di confusione pare condurre alla radicalizzazione di alcune posizioni. In questo senso la scarsità di modelli e punti fermi, la più sfrenata mondanità esperite dai nuovi jihadisti precedono la dedizione assoluta al dogma religioso. 

Manifestazione del movimento tedesco “anti-islamizzazione dell’Occidente” PEGIDA
Manifestazione del movimento tedesco “anti-islamizzazione dell’Occidente” PEGIDA

Non possiamo parlare di opposizione fra due modi differenti di vedere il mondo se l’uno è la reazione all’altro: i giovani spiantati che andranno a immolarsi hanno conosciuto la schizofrenia “occidentale” declinata per esempio nel disagio sociale, nell’inefficacia del sistema carcerario, hanno trovato una loro presunta stella polare in una fede cieca e violenta e una famiglia (sia pur virtuale) nei commilitoni. I due atteggiamenti che possiamo individuare sono facce dello stesso problema e portano con loro conseguenze e implicazioni deleterie: da una parte troviamo la fluidità contemporanea, spesso eccessiva, che si può riscontrare fra gli altri ambiti nel campo lavorativo (l’invito “a non essere choosy” per esempio si può leggere anche come l’impossibilità per il lavoratore di riconoscersi in una professione ben definita); dall’altra, come reazione all’insicurezza, l’abbracciare la fede in una “verità” grigia e granitica, una presunta verità rivelata che pretende di annientare, e non di comprendere, le istanze che le vengono opposte. Questa ideologia può solamente tentare di annichilire le opposizioni, senza mai riuscirvi, dato che le motivazioni che determinano lo scontro sono ben più profonde e difficili da individuare dello scontro per come emerge, e che le parti in contrasto tra loro sembrano inconciliabili nella misura in cui ignorano le motivazioni l’una dell’altra e rifiutano di vagliare la bontà e la fondatezza di esse. Purtroppo la violenza proveniente da una parte indurisce l’altra: non a caso siamo attualmente testimoni del sorgere di gruppi “islamofobi” che si arroccano in ideologie tanto sterili e sclerotizzate quanto la fazione che si prepongono di contrastare. Senza il confronto, il conflitto, pur possibilmente zittito dalla forza prevaricante di una delle due parti, si riavrà, come le teste dell’idra che rispuntano da ferite non cauterizzate. Da parte nostra – intendendo per “noi” la fazione cui sentiamo immediatamente di appartenere, gli “occidentali” – non possiamo arroccarci nella convinzione irriflessa che colui che con le sue terribili azioni (terribili, per cui è necessario e giusto venga riconosciuto colpevole) provoca la morte di centinaia di persone sia l’unico imputabile, e noi le sole vittime.

Siamo contagiati, pur in modo differente, dalla stessa malattia che infetta lo jihadista. Ciò appare palese se riflettiamo su altri casi che appaiono più “nostrani”, come la questione dei micronazionalismi: l’idea di respingere un’unione fra vari territori ottenuta con una lunga lotta in favore dell’autonomia di aree estremamente ridotte che ritengono di potersi gestire meglio da sole può sembrare un passo da retrogradi, una proposta destinata ad affondare in quanto anacronistica. Ma non è così, anzi, essa porta alla luce dei problemi molto attuali, insiti nel modo di gestire questa collaborazione fra varie aree, che non possono essere ignorati, pur essendo estremamente poco proficuo adottare una linea dura contro questi “indipendentisti” senza instaurare un dialogo.

 

Il processo di affrancamento da auctoritates cui abbiamo assistito e siamo stati partecipi nei secoli, la serie di passi verso una maggiore comprensione dei vari attriti che sono emersi e potranno emergere sono conquiste preziose, beni che possono degenerare; e, probabilmente, i problemi che ci affliggono ai giorni nostri sono i segni di quella degenerazione. Quando le catene hanno smesso di stringerci le caviglie non abbiamo saputo dove andare, tanto che questo spavento ha portato alcuni a cercare altri vincoli. Non per questa reazione, per quanto comprensibile, ha senso negare la bontà del dialogo, quando è teso alla comprensione vera di ciò che ci troviamo a vivere, tenendo presente che non possiamo distruggere qualcosa, ma “solo” capire il buono, gli elementi di verità che ha immancabilmente in sé.

 

28 settembre 2017

 




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