La relazione d'aiuto: quale modello scegliere?

 

Da qui si costruiscono le relazioni: se in un primo punto, infatti, è incontrovertibile l’esistenza dell’interesse, allora la ragione deve chiedersi – nelle relazioni d’aiuto – come aiutare l’interlocutore, e può farlo solo se all’interno della relazione c’è sia intendimento, sia amore verso quella persona. Sarebbe possibile aiutare – per un educatore, docente o psicologo –, cioè voler il bene, senza amare? 

 

di Matteo Gazzitano

 

 
Di fronte alle categorizzazioni e alle classificazioni alcuni intellettuali si bloccano. Sostengono che sia come fermarsi all'apparenza dell’essere e, quindi, radicalmente, sostengono l’ineluttabile destino della non praticabilità della categorizzazione. Facile controvertere questa tesi delle anti-definizioni categoriali: se si presentasse una persona che rappresenti tutto ciò che è aberrante, non si avrà intenzione di approfondirne la conoscenza; oppure, qualora ci si approcciasse ad una fiamma, essendo essa già insita nella memoria di un adulto come entità ustionante – quindi categorizzata –, si comprenderebbe immediatamente che non è conveniente toccarla. La mente funziona per categorizzazioni che sono presenti come oggetti astratti al suo interno. Ciò serve per orientarsi nella conoscenza e fare esperienza: da qui si può comprendere, inizialmente, ciò che è buono e meno buono. Tuttavia ci si può soffermare solo su questo? La difesa del sistema categorizzante è la visione che ai clinici piace chiamare “modello medico”, in cui l’approccio alla persona è riduttivamente diagnostico; e, clinico, è anche il modo in cui la relazione di aiuto – psicologica, pedagogica, sociale, educativa – viene a volte, purtroppo, concessa. Dialogare con un individuo e focalizzarsi su una parola piuttosto che un'altra, su un contesto ambientale unico, rapportandolo a dati statistici, che vorrebbero riassumere la complessità della persona con semplici numeri, medie e mode, senza incontrare le sue risorse e motivazioni, significa fare a “brandelli” l’interlocutore. Presto, quella che si voleva pre-annunciare come relazione d’aiuto, viene a trasformarsi in una vera carneficina dialettica, a colpi di diagnosi, etichette di personalità e convenzioni che descrivono il funzionamento della persona. “Egli funziona così” è una affermazione che fa evaporare i significati umani della motivazione e dell’inclusione sociale. È un modo di operare impotente verso l’analisi dell’alterità come un intero, poiché il totale non può essere stigmatizzabile attraverso una parte di esso. Come è anche vero che singole caratteristiche, sguardi, decisioni e motivazioni, non danno luogo alla relazione di aiuto. Una categorizzazione che fa a “brandelli” l’oggetto di studio è quella usata in alcuni ambiti psicologici. Per esempio quella in cui si vuole spiegare cos’è la violenza psicologica sulle donne attraverso ulteriori sottodivisioni in più punti – la svalutazione, il controllo, la gelosia, l’insulto, la limitazione. Il rischio è che, con questo standard di riduzione, si confonda la situazione concreta che si sta vivendo, nella sua complessità, con una di queste sottodivisioni. Si potrebbe affermare che la gelosia, qualora si presentasse, sarebbe tout court, a prescindere da ogni altro tipo di relazione, violenza psicologica sulla donna, perdendo completamente di vista cos’è la violenza sulla persona.  

 

Dunque sembra che la scelta della categorizzazione abbia un aspetto biunivoco: da un fronte non è possibile fuggirla, dall’altro è il modo con la quale si viene a conoscenza delle cose nella interazione tra i soggetti. Come uscire da questa presunta aporia? Non confondendo l’automatismo con il fine. 

Giovanni Gentile suggeriva bene all’inizio del secolo scorso:

 

« Se la vera realtà, per l’uomo che non astragga dal punto di vista morale, è non quella che c’è, ma quella che ci dev’essere, non è possibile intendere prima d’amare, e non sarà mai possibile amare se per amare si vuole intendere. »

 

Gentile rammenta come non sia possibile uscire dal concetto di “quello che si vuole”, cioè dall’interesse verso quella categorizzazione spirituale con la quale la mente si rapporta al mondo delle esperienze e anche che l’azione dell’uomo tenderà inequivocabilmente a questa idea. Dunque, la motivazione a cui ci si riferisce, è proprio la volontà dell’individuo che tende il presente verso il futuro. Da qui si costruiscono le relazioni: se in un primo punto, infatti, è incontrovertibile l’esistenza dell’interesse, allora la ragione deve chiedersi – nelle relazioni d’aiuto – come aiutare l’interlocutore, e può farlo solo se all’interno della relazione c’è sia intendimento, sia amore verso quella persona. Sarebbe possibile aiutare – per un educatore, docente o psicologo –, cioè voler il bene, senza amare? Assolutamente no! Come per il chirurgo non sarebbe possibile condurre una operazione al cuore senza conoscere il sistema cardiovascolare. La motivazione è proprio volere il bene dell’altro, amandolo.

Da ciò nascono ulteriori domande: come si fa a conoscere il bene per quella persona? Con quale boria, il professionista che ama, potrebbe sostenere di conoscere quale sia il bene del suo interlocutore? La difficoltà a trovare risposte a queste domande ha fatto sì che si sia convenzionalmente deciso che fosse superbo continuare a porsele, addormentando – ahinoi! – lo spirito in una letargica e ipocrita conclusione: “ognuno conosce il proprio bene”. Infatti non potrebbe essere diverso: ognuno opera in funzione di quello che considera essere il suo bene, ma quello che la persona reputa “essere il bene”, è davvero il suo bene?

 

Per rispondere si esamini un’altra parola chiave – oltre a “motivazione” – imprescindibile per la nostra analisi: “inclusione”. Stevens Wallace poetizzava in La vela di Ulisse:

 

« se conoscere e conosciuto sono tutt’uno,

conoscere un uomo è essere

quell’uomo. »

 

L'inclusione di cui si scrive è una riflessione che si muove attraverso i comportamenti giornalieri, cioè le scelte, viste come un eterno stimolo alle conseguenze future per sé e per gli altri. Insegnare l’inclusione significa proprio anteporsi alla follia dell’individualismo postmoderno, attraverso uno spirito che abbracci il più possibile l’interesse di tutte le relazioni dell’individuo, di ogni singolo essere insomma. Dunque, il bene per quella persona non consiste nel conoscere ogni singola determinazione che deve ancora verificarsi nella sua storia empirica, ma insegnarle ad avere uno sguardo sempre più complesso e completo, per analizzare la realtà, e agire con delle azioni “inclusive”, cioè che tengano conto, momento per momento, di quello che può essere conosciuto e che le è certamente in relazione.

 

 

Concludendo, il professionista che vuole essere il mezzo attraverso il quale l’utente finale si approccia ricercando il proprio bene, dev’essere motivato da un sentimento di amore e deve insegnare ad operare azioni sempre più inclusive. Si ponga, quindi, il confronto, dialogico e dialettico, come base paradigmatica per tutti quei settori in cui l’utopia è il raggiungimento della capacità e delle potenzialità dell’individuo. Ben vengano strumenti clinici che consentano un approccio chiarificante della persona, purché rimanga sistemico e complesso, e senza dimenticarsi che la ricerca ultima – utopica – per ogni professionista è la Gloria della persona, ovvero il tutto concreto e infinito, cioè il toglimento assoluto e totale di ogni contraddizione dall’individuo (Emanuele Severino, La Gloria).  

 

6 settembre 2017

 




  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica