Qual è il nostro Karma?

 

Siamo o non siamo liberi di decidere? Se non lo fossimo, che senso avrebbe pagare le conseguenze delle nostre azioni, se già tutto è determinato e non è stato da noi deciso? 

 

di Diletta Badaile

 

Paolo Signac, "Place des Lices, St. Tropez" (1893)
Paolo Signac, "Place des Lices, St. Tropez" (1893)

 

La parola karma deriva dalla terminologia religiosa e filosofica indiana e denota l’influsso delle azioni delle vite precedenti, di un individuo, sulle sue vite successive. Questo particolare concetto rappresenta uno dei fulcri delle dottrine orientali, quali l’Induismo, il Buddismo ed il Jainismo, ed è strettamente legato a quello di reincarnazione. In India, in particolare, considerata culla di queste antiche credenze, il karma contribuisce a dare una spiegazione alla suddivisione gerarchica della società in caste: infatti, la classe a cui un individuo appartiene dipende dal grado di condotta tenuto nelle vite precedenti; l’anima, nel suo continuo reincarnarsi, tende perciò a diventare di volta in volta più o meno pura a seconda delle virtù e dei peccati commessi in vita e, solo dopo questo lunghissimo processo, riuscirà a raggiungere il tanto desiderato nirvana, ossia una sensazione di perfetta beatitudine determinata dall’estinzione di tutte le passioni. Anche Platone, seppur vissuto ad Atene tra il 427-347 a.C., sembra credere in tutto ciò, quando – attraverso le parole di Socrate, parlando delle anime di coloro che in vita non hanno saputo resistere alle tentazioni del corpo – afferma:

 

« Devono vagabondare finché per la febbre di quel loro ossessivo compagno, l’elemento carnale, s’imprigionano un’altra volta in un corpo. E, logicamente, s’intrecciano a consuetudini tali e quali quelle praticate nella trascorsa vita. Esempio: gente innamorata del mangiare, pancioni, disordinati, beoni, che mai hanno saputo regolarsi, probabilmente si calano in corpi di somari, o d’altro bestiame del genere. » (Fedone, 81e-82a)

 

 

In Occidente, tuttavia, area in cui queste credenze occupano una piccolissima minoranza, questo termine è molto più spesso utilizzato per indicare quella che si suppone essere una particolare legge della natura, secondo la quale, usando un eufemismo, “ciò che si semina si raccoglie”, ossia, detto in altre parole, una persona subisce le reazioni delle proprie azioni. Tralasciando la prima definizione che abbiamo dato, che, come abbiamo visto, è strettamente influenzata dall’aspetto religioso, ci concentriamo, invece, sulla seconda: possiamo dire che il karma sia il nome di un processo realmente esistente e dipendente dall’uomo? Esso “gira” veramente e necessariamente? 

                     

Al fine di cercare di dare una risposta a queste due domande, è bene formulare alcune premesse. Sappiamo, innanzitutto, che qualsiasi cosa si trova all’interno di un contesto, che definiamo essere il Tutto, e qui essa intrattiene delle relazioni con ogni singola altra cosa; l’uomo, in quanto essere ignorante, non è in grado di percepire tutti questi legami, ma riesce a individuarne solo una parte: in virtù di ciò, quando egli compie un’azione, non può conoscere, in quell’istante, tutte le conseguenze in assoluto della sua decisione; ecco quindi spiegato il motivo per cui, sebbene l’essere umano non sia incline a recare danno a se stesso, compia del male, commetta cioè quelli che possiamo considerare degli errori di valutazione; un’altra conseguenza di quanto abbiamo appena asserito è la legittimità del principio del bene comune, poiché, essendo ciascun individuo non solo in rapporto con il Tutto, ma anche definito come l’insieme delle sue relazioni, il bene suo coincide con il bene degli altri e, viceversa, il male suo è il male degli altri. 

 

Tutte queste affermazioni – che meriterebbero una più adeguata dimostrazione – sembrano in perfetta armonia con la definizione del concetto di karma; rimane tuttavia da comprendere il meccanismo secondo il quale si è giunti a sostenere che esso “giri”: se un individuo compie un’azione che ha degli effetti negativi su chi lo circonda, non fa altro che creare e diffondere il male; ma, poiché, come abbiamo visto prima, tutto è in relazione, questo stesso male si ripercuoterà, prima o poi, anche sulla persona stessa; tuttavia si potrebbe anche dimostrare che il karma non abbia necessariamente bisogno di questo processo affinché una persona subisca le conseguenze delle proprie azioni: infatti, attraverso l’utilizzo della ragione (ossia in grazia di una più consapevole conoscenza), nel momento in cui il soggetto preso in questione capirà di aver preso una decisione sbagliata – perché basata solamente su una ridotta quantità di emozioni (cioè le conoscenze legate a delle particolari esperienze) o sulla maggiore ignoranza in quel momento specifico –, si ritroverà a fare i conti con i suoi sensi di colpa, e quindi con se stesso.

 

E. Munch, "L'urlo" (1893)
E. Munch, "L'urlo" (1893)

 

A questo punto della nostra riflessione sorge, però, un’altra domanda: può essere considerato il karma un esempio di determinismo?

In particolar modo con questa espressione si indica quella concezione filosofica per cui in natura nulla avverrebbe a caso, ma tutto accadrebbe secondo ragione e necessità: determinato, cioè, da una o più cause, intese, però, come ciò da cui dipendono degli effetti. Confrontando la definizione di determinismo con il concetto di karma ci accorgeremmo che esse combaciano perfettamente, in quanto, come abbiamo spiegato precedentemente, le azioni di ogni essere umano, e quindi le cause, provocano, ossia determinano, delle conseguenze, vale a dire degli effetti; tuttavia, un problema ulteriore si presenta nel momento in cui si consideri che il determinismo afferma che ad essere stabilita è anche la vita di ogni individuo, riducendo così il libero arbitrio ad una semplice illusione della mente umana, mentre che il karma viene concepito assieme alla libertà di scelta. Ma allora siamo o non siamo liberi di decidere? Se non lo fossimo, che senso avrebbe pagare le conseguenze delle nostre azioni, se già tutto è determinato e non è stato da noi deciso? Al fine di risolvere queste questioni, dobbiamo considerare il fatto che, ogni qualvolta ci ritroviamo a prendere una decisione, sceglieremo sempre, tra le varie opzioni, quella che ci apparirà essere, in quel momento, la cosa migliore; non possiamo sapere, tuttavia, se questa sarà effettivamente un bene oppure se, con il tempo, si rivelerà essere un male: questo perché, a causa della nostra ignoranza, siamo incapaci di prevedere esattamente tutte le conseguenze che essa avrà in futuro.

 

G. Caillebotte, "Uomo che passeggiava in riva al mare" (1885)
G. Caillebotte, "Uomo che passeggiava in riva al mare" (1885)

Ciò che però è certo è che, se ci ritrovassimo esattamente nella stessa condizione, prenderemo sempre quella stessa decisione che reputeremo, ancora una volta e per le medesime motivazioni, la migliore. È assurdo quindi pensare che siamo liberi di scegliere, in quanto sono le circostanze in cui ci ritroviamo (e quindi anche la nostra ignoranza in quel momento) che determinano quale sia la scelta più giusta da fare. In virtù di ciò, ogni individuo ha delle responsabilità, ossia è tenuto a rispondere del bene o del male che ha commesso, ma, diversamente, non ha delle colpe, in quanto non avrebbe potuto evitare in nessun modo di compiere quella particolare azione, essendo essa, come abbiamo precedentemente mostrato, già determinata dalle circostanze. A questo punto diventa pertanto inutile punire qualcuno per delle colpe che non ha, ma è necessario metterlo nella condizione di capire  riducendo così l’ignoranza che minaccia  che ciò che ha fatto è un male, al fine che egli non commetta più lo stesso errore.

 

11 aprile 2018

 




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