Il Premier Conte intervista il filosofo Severino

 

Qualche giorno fa ho partecipato, a Brescia, al Festival dedicato all’“impresa familiare”, un’occasione per riflettere sulle caratteristiche del capitalismo italiano. Ne ho approfittato per fare visita al professore Emanuele Severino, un punto di riferimento della filosofia teoretica a livello internazionale. Da tempo desideravo incontrarlo, anche per l’estrema versatilità di pensiero che traspare dai suoi scritti, in cui la filosofia è sorpresa a dialogare con la poesia, con l’arte, la scienza, il diritto, la politica. Da quel dialogo è nata l’idea di ricavare questa intervista, che riassume i temi allora trattati.

 

di Giuseppe Conte

 

 

Professor Severino, le sono grato per la disponibilità subito manifestata per questo incontro.

 

«Anche io la ringrazio per questa visita, Presidente. È un incontro che si prospetta interessante sul piano culturale. Ho seguito il suo intervento all’Università Cattolica e l’ho molto apprezzato, anche perché rivela una profonda sensibilità filosofica».

 

Non posso vantare una specifica preparazione filosofica, ma la filosofia è stata una mia antica passione e ha senz’altro contribuito alla mia più complessiva formazione culturale. Credo che le categorie del pensiero filosofico, nella migliore tradizione aristotelica, possano risultare di estrema utilità per un politico. Partirei proprio dal ruolo del capitalismo nell’attuale congiuntura storica.

 

«Credo che occorra distinguere tra capitalismo e strumento tecnico di cui il capitalismo si serve. Capitalismo e tecnica non sono complementari: stanno insieme, ma con scopi essenzialmente diversi. Lo scopo del capitalismo è l’incremento indefinito del profitto privato, anche se spesso il capitalismo dichiara di essere interessato al “bene comune”. Lo scopo della tecnica è invece l’incremento indefinito della potenza, ovvero della capacità di realizzare scopi».

 

Nel suo scritto La potenza dell’errare, lei ha dedicato un paragrafo anche ai governi tecnici, ragionando, all’epoca, di quello presieduto da Mario Monti.

 

«Sì. La tesi principale è che la tecnica è destinata al dominio. Bisogna intendersi sul significato della parola “tecnica” (e “destinazione”); ma occorre intendersi anche sul fatto che i “governi tecnici”, come in un certo senso è anche il suo, sono in qualche modo l’anticipazione, il protendersi, verso quella situazione, non certo imminente, che chiamo dominazione della tecnica».

 

Personalmente non concordo sul fatto che il mio sia un governo tecnico, quantomeno secondo l’accezione comune, ma seguo il suo discorso.

 

«Capisco, ma tenga presente che i “governi tecnici”, in Europa e in Italia, sono ancora guidati da un’ideologia (e intendo “ideologia” nel senso forte della parola, per cui, ad esempio, sono ideologie la democrazia, il comunismo, il cristianesimo, l’Islam, l’ebraismo; è ideologia anche la grande dimensione umanistica dell’Occidente), sì che questi governi non hanno come scopo l’incremento della potenza tecnica, ma la tecnica serve come mezzo per realizzare il loro scopo ideologico».

 

Ideologia come sistema di pensiero coerentemente impostato su alcune idee “forti”.

 

«Esatto. Quindi anche la gestione politica della società è destinata ad essere sostituita dalla gestione tecnica della società».

 

 

Perché la tecnica, nella sua riflessione, risulta così vorace, così assorbente? Perché questa propensione per il dominio assoluto al punto che essa non riconosce altro da sé?

 

«Vediamo. La democrazia si serve della tecnica. Lo scopo della democrazia è di realizzare un mondo di uguaglianza, di libertà, di fraternità. Altre forze intendono realizzare scopi diversi. È interessante la parola da lei usata: voracità: va intesa come sopraffazione delle forze antagoniste. Esse sono tra loro in conflitto: ad esempio, la democrazia è in conflitto con il capitalismo; a sua volta, esso non vuole che lo scopo ultimo della società sia l’affermazione dei principi democratici. Per combattersi e prevalere le une sulle altre, queste ideologie si servono della forza maggiore a disposizione dell’uomo, che è oggi la tecnica, guidata dalla scienza moderna».

 

Ovviamente comprende nella tecnica tutte le articolate discipline specialistiche della scienza moderna.

 

«Certo; ma anche le istituzioni, la burocrazia, l’apparato militare, l’apparato sanitario, quello scolastico, eccetera, che vanno conformandosi ai protocolli che sono propri delle scienze tout-court. In questa situazione di conflittualità, come fa una di queste forze a prevalere sull’altra?»

 

Rafforzando lo strumento tecno-scientifico.

 

«Proprio così. In questo rafforzamento, essa si porta al di sopra delle altre. Oggi la forza più potente è il capitalismo, più ancora della democrazia. Ma a un certo punto il sistema che avrà come unico scopo il potenziamento della tecnica prevarrà sul sistema capitalistico (e su ogni altro sistema) che, oltre a tale potenziamento, dovrà realizzare il proprio scopo specifico. L’inevitabilità di questo prevalere è la destinazione della tecnica al dominio. Da mezzo la potenza tecnica diventa lo scopo dell’uomo».

 

Il capitalismo tenta dunque di estendere la sua sfera di influenza e di applicazione ai danni della democrazia. La seguo, e condivido il suo pensiero: benché si tratti di una prospettiva per dir così ferale, in quanto prevede una inversione tra scopo e mezzo. Inoltre, nella sua prospettiva, della “tecnica” fa parte anche la scienza.

 

«Si. Dopo che la scienza ha rinunciato ad essere verità incontrovertibile, in base a che cosa si decide la validità tra due teorie scientifiche? Non in base alla loro verità, ma in base alla maggior capacità di una delle due di trasformare il mondo. E questa capacità è la tecnica».

 

E quando si sarebbe verificata questa svolta? Forse quando si sono posti in dubbio, per esempio, i fondamenti della matematica, con la nascita delle geometrie non-euclidee, con il principio di indeterminatezza di Heisenberg? È allora che la scienza cade in braccio alla tecnica?

 

«Sì. Questo processo si verifica anche in campo giuridico, nel quale la geometria euclidea sta a quella non euclidea come il diritto naturale sta al diritto positivo».

 

Mi aspettavo questo parallelismo.

 

«Ma soprattutto si tratta di capire perché la fiducia nella verità incontrovertibile tramonta. Il continuo trasformarsi del mondo mina la possibilità di un qualsiasi eterno. Nella tradizione si crede che, se non esistono l’eterno (il divino), il divenire del mondo è impossibile. Viceversa, nel sottosuolo filosofico degli ultimi due secoli si comprende che, se esistesse l’eterno, non potrebbe esistere il divenire dal mondo. Poiché però il divenire e trasformarsi del mondo è considerato innegabile, allora l’esistenza dell’eterno è impossibile. Infatti l’eterno, il Dio della tradizione, anticipa tutti i tempi».

 

Intende dire che Dio contiene tutto in sé?

 

«Certo. E non si sorprende di nulla. Ha in sé la totalità del tempo. Ma allora il trasformarsi del mondo è solo apparente. Ma sin dall’inizio la filosofia e poi l’intero Occidente credono che la trasformazione sia l’evidenza indiscutibile. Dunque è inevitabile che la filosofia dell’Occidente concluda negando l’esistenza di ogni eterno».

 

Ed è qui che forse merita di essere evocata la metafora della “bobina” di popperiana memoria.

 

«La metafora della bobina allude all’alternativa più radicale al pensiero dell’Occidente (che ormai è il pensiero dell’intero pianeta). Destinata al dominio è la tecnica che sente la voce che, al culmine di questo pensiero, dice: “se ci fosse un eterno, non ci sarebbe il divenire”. Infatti, se l’eterno non esiste, allora l’azione dell’uomo non ha alcun limite, che invece si costituisce quando si crede che ci sia un eterno, una Legge eterna. Per una sommaria risposta alla sua domanda: la distruzione dell’eterno, la quale autorizza la tecnica ad andare oltre ogni limite, è l’inevitabile Follia degli ultimi due secoli. La sua radice è l’origine filosofica dell’Europa… Ma vedo che Lei è addentro a questi temi».

 

Diciamo più modestamente che sono un suo lettore, ho molta curiosità intellettuale...

 

«Il punto di partenza di questa Follia, che è la dominazione della tecnica, è la fede nel “diventare altro” delle cose. Sin dal suo inizio la filosofia approfondisce questa fede, ponendo che le cose passano dal loro non essere al loro essere e viceversa. La Follia è appunto questa fede, che invece viene ritenuta come l’evidenza più indiscutibile. Ma non basta dirlo. Nei miei scritti lo si mostra in concreto. Si mostra che ogni cosa ed evento sono eterni, ovvero è impossibile che vi sia un tempo in cui essi non siano. È singolare che Einstein, in base alla logica della Follia, giunga ad affermare che il futuro e il passato non sono meno reali del presente, e che dunque sono come fotogrammi avvolti su una bobina, sì che il loro divenire è un’apparenza determinata dalla proiezione».

 

Una serie di “positività”, di “fotogrammi”, che si dipanano nel cerchio immutabile dell’essere.

 

«Ma la logica di Einstein non gli poteva consentire di parlare in questi termini. Inoltre egli non poteva essere in grado di rispondere a Popper che gli obbiettava. “Ma almeno il movimento della bobina esiste, ossia c’è qualcosa che diventa altro”».

 

Quale risposta dà il professor Severino?

 

«Che dobbiamo uscire dalla metafora della bobina. Il variare del mondo non è un incominciare ad essere e cessare di essere: il variare è che gli eterni in cui consistono le cose e gli eventi del mondo compaiono e scompaiono, incominciano e cessano di apparire in quel luogo che è l’apparire del mondo (un luogo al quale nemmeno la scienza presta più attenzione). Ma siamo entrati nella dimensione più complessa del discorso. Forse qui è più opportuno rilevare che la fede nel “diventare altro” delle cose è la forma originaria della violenza perché, diventando altro, una cosa si strappa da sé e si sopprime. D’altra parte, la filosofia è la spregiudicatezza assoluta che non può partire da un’etica, nemmeno dall’etica che sostiene la dignità dell’uomo. Mette tutto in questione. Quindi, se l’uomo deve essere difeso ed ha una dignità e dei diritti, tutto questo deve emergere dalla necessità del pensiero filosofico».

 

 

Non può essere un a priori?

 

«Può essere un a priori se è fondato, radicalmente fondato, altrimenti è una fede».

 

Deve essere un a posteriori, in base alla sua filosofia?

 

«Deve fondarsi sulla struttura originaria di ogni sapere. Ma qui mi limito a dire che, se tale struttura fosse data dalla “mia” filosofia, non avrebbe alcun valore. Affermo spesso, d’altra parte, che ciascun uomo è un re che crede di essere un mendicante. Già qui, ora, ognuno di noi è la regalità che consente quel conoscere la verità facie ad faciem (“faccia a faccia”, come dice l’apostolo Paolo), che per il cristianesimo è possibile soltanto nella condizione paradisiaca. Si tratta di comprendere che questo sapere incontrovertibile è presente in ognuno di noi, anche se occultato dalla persuasione dell’esistenza del diventare altro delle cose».

 

Lei mostra di avere quindi un’alta concezione dell’essere umano.

 

«È la verità incontrovertibile a mostrare l’altezza vertiginosa dell’essere umano».

 

Anche se nelle riflessioni che qui sintetizza non sembrerebbe esserci uno spazio dedicato all’etica, almeno come tradizionalmente intesa.

 

«L’etica presuppone la libertà dell’uomo. Ma, innazitutto, la libertà dell’uomo non è un dato di esperienza, non è evidente; come non lo è la contingenza delle cose, per cui crediamo che il nostro incontro e gli altri eventi del mondo sarebbero potuti non esistere. Non è un dato di esperienza, anche se si crede che lo sia. Ma poi è l’eternità di ogni cosa ad esigere che tra ogni cosa e ogni altra esista un legame necessario, laddove la libertà rifiuta di esser legata necessariamente al passato dell’uomo».

 

È una contraddizione, certo. Ma il libero arbitrio resta un nodo sul quale riflettere. Come risponde alle accuse secondo cui nel suo pensiero filosofico ci sarebbe una certa dose di determinismo?

 

«Da un lato, rispondo che c’è addirittura un “superdeterminismo”; dall’altro lato, rispondo che la difesa della libertà e il determinismo stanno sullo stesso piano, sono due lottatori che lottano sullo stesso ring (e il ring è la fede nel “diventare altro”). Gli uni credono che il diventar altro del mondo si sarebbe potuto realizzare diversamente da come si è realizzato; gli altri non lo credono. Il contenuto a cui si rivolgono i miei scritti sta al di là dell’opposizione tra determinismo e contingentismo, tra amici e nemici della libertà (tra amici e nemici di Dio)».

 

Vorrei ritornare al discorso evocato prima, ragionando di scienza e tecnica: la colpisce il fermento che si registra nell’ambito delle varie discipline del sapere sino al punto di rimettere in discussione vecchi e consolidati postulati? Per esempio, l’economia, che sul piano epistemologico si è definita in base alla teoria della “scelta razionale” dell’uomo inteso come homo oeconomicus, oggi conosce ben diversi indirizzi di sviluppo, che riconsiderano questo antico postulato e riconoscono la presenza di impulsi all’azione diversi rispetto a quello del mero profitto. Che cosa ne pensa?

 

«Là dove questi impulsi sono presenti, ci può essere un apparato produttivo, ma non c’è capitalismo. Questo, anche se il capitalista non è mai soltanto homo oeconomicus. Comunque, la tendenza generale è il progressivo affermarsi della specializzazione scientifica, dove è inevitabile che venga fuori quel tipo di economia che parla dell’homo oeconomicus come se fosse un qualcosa di reale, di analizzabile di per se stesso. Ma questo dipende dallo specialismo».

 

Trova anche lei che si sia persa l’idea dell’unitarietà del sapere e che le discipline scientifiche si strutturino a compartimenti-stagno, che secondo Edgar Morin è il grande problema del nostro tempo?

 

«L’isolamento in cui consiste il “compartimento stagno” è riconducibile all’isolamento per il quale una cosa ha bisogno di diventare altro per unirsi ad esso. A proposito del rapporto scienza-tecnica, al quale lei, Presidente, mi ha invitato a ritornare, vorrei aggiungere che se oggi la scienza riesce a trasformare il mondo, tuttavia essa richiede il riconoscimento intersoggettivo della trasformazione: se qualcosa è vero solo per me, ma non per gli altri, non ha valore scientifico. Tuttavia noi del “prossimo” (degli altri soggetti) vediamo soltanto il comportamento esterno. Che la sua interiorità esista, è un’interpretazione; e interpretare significa voler aggiungere qualcosa che non si manifesta a qualcosa che si manifesta. L’esistenza del “prossimo” è il contenuto di un’interpretazione, cioè di una fede. A maggior ragione, la capacita tecno-scientifica di far “diventare altro” le cose non può essere qualcosa di intersoggettivamente riconosciuto. L’esistenza della potenza della tecnica è il contenuto di una fede. Il che è congruente con la tesi apparentemente inammissibile dell’eternità di ogni cosa (umile o grande che sia)».

 

Lei non ha avvertito mai, quindi, la sensazione di perdere qualcosa nella capacità di rappresentare questo essere, quella che Horkheimer chiamava “la nostalgia del totalmente altro”?

 

«Nato in una famiglia cattolica, ero abituato a un certo tipo di fede…».

 

Se mi permette, lei non è solo “abituato”. Anche nei suoi scritti dimostra una conoscenza profonda della dottrina cristiana.

 

«Per rispondere alla sua domanda: no, non ho avuto la sensazione di perdere, ma di guadagnare qualcosa. Perché il conoscere facie at faciem non è da attendere in un aldilà, ma è già qui – anche se ci attende un al di là infinito».

 

Nella sua prospettiva l’immersione diretta nel divino sarebbe, per certi versi, già qui, adesso. Lei ha scritto tantissimo, ma c’è qualcosa che ritiene ancor più importante del già detto, secondo la famosa lettera di Wittgenstein all’editore Fisher che operava questa distinzione?

 

«No, per ora. D’altra parte, come il dito che indica la luna non è la luna, così i miei scritti sono il dito, ma la luna è il re che c’è in ciascuno di noi».

 

Secondo lei, ci sarà ancora spazio per la riflessione filosofica o la tecnica assorbirà anche questa attività dello spirito?

 

«Già Adamo pensa che le cose siano un diventar altro (tanto che egli prova a diventar Dio); ma il diventar altro è pensato nel modo più radicale dalla filosofia: il diventar altro è il “non esser più”, dove l’”essere” proviene dal “non essere”. La filosofia rende radicali anche il volere e l’agire (che sono un far diventar altro). L’Europa e ormai il Pianeta sono venuti alla luce all’interno di questa radicalità. Ma poi la tecnica può dominare ed essere una potenza che all’interno della storia dell’Occidente non si presenta come pre-potenza solo se ascolta la voce del pensiero filosofico, che mostra l’impossibilità di ogni eterno e di ogni verità definitiva sovrastante la verità del divenire del mondo. Dunque, anche in questo caso, il pensiero filosofico è determinante, anche se è la forma rigorosa della Follia. Infine è inevitabile che la stessa dominazione della tecnica tramonti, perché la felicità che essa dà all’uomo è fondata sul sapere scientifico, che è soltanto ipotetico. Una felicità non garantita in modo incontrovertibile, quindi tanto più angosciosa quanto più desiderata. Sarà pertanto ancora una volta la filosofia a mostrare la necessità che anche il dominio della tecnica venga oltrepassato. Non solo, ma la filosofia sarà il richiamo a cui i popoli stessi sono destinati a prestare ascolto. Solo essa è infatti in grado di indicare il senso autentico della Non-Follia. In una Repubblica dove, a differenza di quella di Platone, saranno le macchine a compiere ogni forma di lavoro, tutti saranno filosofi».

 

Professore, secondo lei, che cosa fa di un politico un buon politico? Che cos’è la “buona politica”? Questa domanda reclama una risposta diversa rispetto al passato, anche recente?

 

«Sono molte le concezioni della “buona politica” (democratica, totalitaria, liberale, socialista, eccetera). Hanno in comune la convinzione che la politica, quale è da loro intesa, debba guidare la società, assegnandole un certo scopo (“ideologico”); e la politica si serve della tecnica per realizzarlo. La “bontà” della politica (e del politico) sta in questa realizzazione. Ma abbiamo anche mostrato che, come il capitalismo, così anche ogni altra “ideologia” è costretta a lasciare che sia la tecnica a guidare la società. A questo punto non parlerei più di “buona”, ma di “grande (ossia vincente) politica”. È quella che ha compreso la destinazione della tecnica al dominio e che si adopera perché le “ideologie” non ostacolino questa destinazione. La “Grande politica” porta al tramonto il senso tradizionale della politica».

 

Quale messaggio possiamo trasmettere ai giovani?

 

«Innanzitutto che l’uomo è infinitamente di più di quel che crede di essere. In secondo luogo, ai giovani nessuno deve rivolgersi dicendo: “Voi dovete fare la tal cosa”, ma piuttosto: “Voi siete destinati a qualcosa”. E a che cosa sono destinati? Sono destinati a ciò che è richiesto dal binomio re/mendicante. Direi loro: è inevitabile che il vostro agire vi conduca ad essere progressivamente – so che detto così può infastidire – dei funzionari della tecnica. Della tecnica che però sa ascoltare la potente voce della Follia che dice: “Non ci sono eterni, non ci sono limiti alla volontà di aumentare la potenza”. Ma siete destinati ad andare oltre questa voce. Anche il tempo della tecnica è destinato a finire».

 

Ma perché questo strapotere della tecnica non conduce, neppure in parte, intanto, al progresso?

 

«Lei crede, Presidente? Già Keynes parlava di quello che quasi cento anni fa la tecnica avrebbe potuto fare ma non faceva. Chiedo perché non l’abbia fatto e non lo faccia. Perché – rispondo – è gestita dall’ideologia imperante del capitalismo, che produce soltanto ciò che può esser venduto e non ciò di cui si ha bisogno ma non si ha il denaro per comprarlo».

 

Però noi ci avviamo verso una prospettiva in cui l’ideologia sembra contare sempre meno…

 

«È quello che ho sostenuto nella prima parte del nostro discorso, quando dicevo che, ad un certo momento, lo scopo dell’ideologia sarà occupato dal potenziamento della tecnica, e quindi…».

 

… la tecnica non avrà più freni.

 

«Non avrà più freni, quando ascolterà la voce del culmine della Follia che mostra l’inesistenza di ogni eterno e quindi di ogni freno. Ma poi anche la dominazione della tecnica è destinata al tramonto».

 

Professore, le sue riflessioni sono molto stimolanti.

 

«Io le sono grato, Presidente, della sua cortesia nei miei confronti: Lei è il Primo Ministro e viene qui ad ascoltare le parole di un filosofo. È un gesto di cui mi ricorderò e che mostra una grande intelligenza. E poi congratulazioni per il modo in cui sta guidando questa difficile situazione italiana, perché credo che nessun Presidente del Consiglio si sia trovato ad avere davanti i problemi che Lei ha di fronte, e dai quali tenta di far uscire il Paese».

 

Sono io che la ringrazio e confido che anche i lettori potranno giovarsi di questa nostra conversazione.

 

 

14 aprile 2019

 




SULLO STESSO TEMA

E. Severino, Essere nella verità






  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica