Perché il sistema scolastico italiano ha bisogno dell’estetica?

 

Dalle intuizioni di Stefano Zecchi, ecco una breve riflessione per un’estetica scolastica.

 

di Edoardo Rossi

 

Claude Nicolas Ledoux, "Eye enclosing the theatre at Besancon"(1847)
Claude Nicolas Ledoux, "Eye enclosing the theatre at Besancon"(1847)

 

« L’arte è un simbolo perché l’uomo è un simbolo. » (Oscar Wilde, De Profundis)

 

Oggi la filosofia a scuola è in pericolo: l’appiattimento del sapere umanistico in favore del mantra illuministico-tecnologico è un problema che deteriora il sistema scolastico italiano. Tutti i processi formativi sono stati ridotti alla valutazione quantitativa, alla prestazione: invece di porre domande e di svelare la complessità del mondo in cui viviamo, il sistema scolastico richiede allo studente di elencare i punti di un determinato sistema di pensiero o di ripetere certi concetti o tassonomie. È fondamentale conoscere le basi del pensiero di un filosofo, ma non ci si può fermare là, bisogna metterlo in dialogo con altre materie, con la nostra contemporaneità e con le nostre esperienze di vita: ciò accade sempre meno.

 

E la persona scompare.

 

 La nozione schiaccia la riflessione, le domande a risposta multipla vincono sull’esposizione orale o sulle domande aperte, la rielaborazione e la riflessione personale spesso non vedono la luce: l’esperienza delle materie umanistiche smette di essere crescita e passione, diventa un incontro con dei pallidi cadaveri da vivisezionare, da analizzare con distacco e freddezza.

 

E non c’è da stupirsi se oggi l’Italia sia un paese sull’orlo della recessione: elemento fondamentale di ogni stato in crescita è lo stato dell’istruzione e il modo d’intendere la cultura.

 

Nelle classi italiane, spesso, la storia della filosofia si congela in sterile ripetizione di idee e fatti storici: lo studente che prende il voto più alto è quello che ricorda di più, non quello che fa propri gli argomenti e li studia con passione, chi sviluppa un senso critico o chi fa domande.        

 

E la passione si spegne. 

 

La filosofia è inutile allo stato attuale del sistema scolastico: non viene dato spazio e valore all’enorme forza educativa che le branche della filosofia portano con sé, dalla logica, all’epistemologia, fino all’estetica.

 

E su quest’ultima mi soffermo, proprio perché legata allo studio del linguaggio e ai segni propri dell’arte: estetica deriva da Aísthesis, che in greco significa sensazione, sentimento. 

 

Fu il filosofo tedesco Baumgarten nel ‘700 ad introdurre questo termine in un contesto accademico, definendo l’estetica come «scienza della conoscenza sensitiva.»

 

Secondo Baumgarten, la conoscenza dei fenomeni artistici passa attraverso i sensi che percepiscono le qualità del gesto artistico e si relazionano con la sua forma: è scienza della conoscenza sensitiva, prima che filosofia dell’arte o della bellezza. 

 

Da Baumgarten a Kant, fino a tutto il ‘900, l’estetica si configura in vario modo, ma al di là delle sue sfumature, si dimostra uno strumento fondamentale per relazionarsi con la realtà ed il mondo dell’esperienza. 

 

Chi intuisce il potenziale formativo dell’estetica è un filosofo italiano, Stefano Zecchi, che dice: «La bellezza è una domanda radicale di significato non riducibile in termini psicologici.» (Stefano Zecchi, Dopo l’infinito cosa c’è, Papà?

 

Secondo Zecchi, c’è bisogno di opporre ai processi formativi di un mondo riduzionista e basato sulla tecnica dei processi riferiti ad un altro modello: il modello di estetizzazione

 

Zecchi pensa di ridare centralità formativa alla bellezza come espressione di verità: la “verità” è il tentativo di adeguare la nostra capacità di comprensione alla realtà, il problema è intendersi su ciò che significhi “adeguarsi” o “avvicinamento al reale” e su quali siano le possibili esperienze di verità. 

 

Secondo Zecchi c’è una contrapposizione tra le forme di appropriazione della verità, da queste nasce un’adesione alle forme estetiche della creatività, intese come rapporto di verità con il mondo.   

                

E la verità riveste la sua forma più potente nella forma simbolica che incarna il vero e la natura. 

 

Tra le forme estetiche della creatività, Zecchi privilegia quelle forme energetiche che spaccano i codici linguistici continuamente: la forma metaforica è quella che connette con ciò che è distante, mostra ciò che veramente è e accende il nostro sguardo

                     

Altre forme privilegiate sono l’analogia e il simbolo, che spezzano la dimensione informativa dei codici linguistici e trasformano il linguaggio: ciò consente di vedere la realtà in modi sempre nuovi, secondo diverse forme.

 

 La visione di Zecchi richiama l’estetica di Goethe, che scrive: 

 

«Non c'è via più sicura per evadere dal mondo, che l'arte; ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte. » (Massime e riflessioni)

 

Goethe vede l’arte come simbolo visivo capace di cogliere il particolare nell’universale, in modo intuitivo: questo è avvenuto soprattutto nel mondo greco, dove si è realizzata quella continuità di natura e arte, di creatività e compiutezza che dà alle sue opere un carattere di intrinseca verità e necessità.

 

Attraverso lo studio dei processi creativi, dei simboli e dell’incontro autentico con l’opera ci si può avvicinare con successo e profondità a tutte quelle catacresi (metafore e simboli), che abitano il nostro linguaggio ed il nostro pensiero, ed alle loro metamorfosi continue: è necessario tornare a dare valore al come la creatività elabora il reale e l’esperienza. Basta pensare alla mitologia: racconti di simboli stratificati che raccontano la percezione, l’Aísthesis del mondo dei popoli antichi.

 

Solo studiando queste catacresi e i loro processi, secondo Zecchi, è possibile comprendere le cose e il mondo. 

 

Mi sembra che l’opposizione di Zecchi ai processi tecnico-scientifici sia troppo netta: la realtà è complessa, variegata e ci sono tantissimi modi di far esperienza del mondo, ognuno con le sue peculiarità e caratteristiche interessanti. 

 

Ma è un dato di fatto che il nostro mondo privilegi la “tecnica”, che è regina insieme al re “consumo”.

 

Nei nostri licei, ciò che conta sono quei processi formativi tesi a fare analisi testuali molto tecniche e poco attente alle sfumature di significato delle metafore, delle immagini che l’arte veicola: far fare ad uno studente la parafrasi del XXVI canto dell’Inferno, non lo aiuterà a capire ed apprezzare veramente il testo e men che meno a cogliere la potenza metamorfica della lingua.

 

Scoprire il significato allegorico e simbolico di Ulisse e del suo “folle volo” e sondare le categorie filosofiche e culturali che Dante usa per confrontarsi con un racconto come l’Odissea, così apparentemente lontano dalla sua epoca storica, invece sì: questo aiuterebbe il nostro giovane studente a non liquidare come “noioso” e “antico” un testo come la Commedia.

 

Attraverso le opere d’arte, bisogna far rintracciare i processi creativi del linguaggio. Il linguaggio artistico elabora e codifica la realtà, cercando di bloccare la continua trasformazione della natura, un divenire incessante di forme, con la potenza delle metafore e dei simboli. 

 

Ecco perché l’estetica dovrebbe essere uno strumento privilegiato nell’educazione: non educa al “bello” o al “gusto”, educa ad uno sguardo attento e critico, che sappia cogliere le qualità intrinseche, le istanze culturali e i meccanismi simbolici e metaforici dell’arte, che offre occasioni esemplari in cui si storicizza un senso molto potente che può e deve essere incontrato, oggi più che mai.

 

10 dicembre 2019

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica