Il distacco del filosofo dalla politica mainstream

 

Sulle orme della celebre Settima Lettera di Platone, unica epistola ritenuta autentica, raccontiamo l’esperienza che il filosofo ebbe con i governi del suo tempo. Questo tentativo di avvicinare la filosofia alla politica messa in pratica, porterà a un infelice allontanamento di Platone dalla politica stessa.

 

Acropoli di Atene al tramonto, oggi
Acropoli di Atene al tramonto, oggi

 

L’età della giovinezza, sostiene Platone nella Settima Lettera, è foriera di un forte desiderio di cimentarsi con la politikḗ. Più di ogni altra cosa, questo anelito è caratterizzato da una grande fiducia. Il giovane percepisce l’ingiustizia della politica del proprio tempo ed è fiducioso di poter introdurre delle novità nel sistema politico al fine di migliorarlo. Lo stesso filosofo ateniese, in gioventù, vide la cosiddetta oligarchia dei Trenta governare su Atene dopo che la polis ebbe perso la guerra contro Sparta. Alcuni parenti e conoscenti di Platone fecero parte di quel governo e lo invitarono a entrare nel mondo politico.

 

« Data la mia giovinezza, non c’è da stupirsi se ritenevo che i nuovi governanti avrebbero ripristinato la giustizia in città, contro l’ingiustizia che vi regnava prima; perciò stavo molto attento a quello che facevano. » (Platone, Settima Lettera)

 

Nonostante la grande fiducia giovanile, il filosofo si accorse presto che il nuovo governo non era diverso da quello precedente poiché esercitava ugualmente un potere ingiusto sulla città. Anzi, il nuovo potere faceva persino rimpiangere il vecchio. Fu chiesto a Socrate, maestro di Platone, di partecipare all’arresto di un uomo innocente, ma Socrate non volle diventare complice di ingiustizia e si rifiutò di farlo. In questo modo, sulle orme del maestro, anche Platone si tenne lontano dal potere oligarchico dei Trenta.

Quando l’oligarchia cadde dopo soli otto mesi, lasciò il posto a un nuovo regime, stavolta di stampo democratico. Le speranze di partecipare a una rinnovata politica di giustizia non si erano spente in Platone:

 

« Non molto tempo dopo, il governo dei Trenta cadde. E allora mi prese di nuovo, anche se più moderato, il desiderio di occuparmi della vita pubblica e politica. » (Ivi)

 

Eppure, anche la democrazia ateniese si macchiò di ingiustizie allo stesso modo – se non in maniera peggiore. Infatti, proprio in questo periodo, Socrate venne accusato di corrompere i giovani con la filosofia. L’accusa gli costò il processo e la conseguente condanna a morte per mezzo della cicuta. Le speranze di Platone furono tradite ancora e più duramente: questa esperienza – la quale è un’esperienza personale oltre che politica – segnò il filosofo in maniera indelebile.

 

J.L. David, “Morte di Socrate”
J.L. David, “Morte di Socrate”

 

La terza e ultima prova con la politica pratica, Platone l’ebbe a Siracusa. Viaggiò per tre volte in Italia, ognuna delle quali si concluse in maniera travagliata. Qui conobbe il giovane Dione che, udendo la filosofia platonica, divenne suo fedele discepolo fino a mutare la propria vita e i propri valori per ricercare il bene. In forza di questi dettami, Dione si organizzò per spodestare l’allora tiranno di Siracusa, Dionisio il Giovane, figlio di Dionisio il Vecchio. Anche Platone intrattenne dei rapporti diplomatici con il tiranno, nella speranza – l’ultima rivolta alla politikḗ – di far applicare la filosofia al governo della Sicilia.

 

« Dionisio aveva una possibilità grandiosa: se filosofia e potere si fossero veramente riunite nella sua persona, a tutti gli uomini della terra, greci e barbari, sarebbe stata chiara questa verità: che nessuna città è felice e nessun uomo, se non vivono secondo saggezza ispirata da giustizia […]. » (Ivi)

 

Tuttavia la delusione fu grande anche in questo caso perché Platone, nonostante si prodigasse per dare saggi consigli al tiranno, finì per essere accusato di cospirazione e venne tenuto prigioniero. Quanto all’allievo Dione, dopo essere stato esiliato scatenò una sanguinosa guerra civile, per finire assassinato da alcuni dei suoi uomini.

 

Nonostante il desiderio di agire politicamente per il bene della polis, Platone fu sempre spinto ad allontanarsi dalla cosa pubblica. Osservò da lontano il legiferare dei governi. Occuparsi di una politica che non seguiva la filosofia, infatti, avrebbe implicato sporcarsi le mani, avrebbe portato a macchiarsi, in un modo o nell’altro, di qualche crimine. Allo stesso modo, trovare amici fidati con i quali condividere un simile senso di giustizia era un’impresa davvero ardua perché il malcostume imperversava ovunque. La cattiva politica dei governanti e il cattivo costume dei cittadini, dunque, sembrano avere un legame inossidabile: a fortìori, la cattiva politica trova una sicurezza di stabilità proprio nel cattivo costume. Cittadini che pensano a spendere i propri denari – spiega Platone – educati a svagarsi, a mangiare, bere e dedicarsi ai piaceri, non potranno diventare saggi e misurati, e di conseguenza non avranno mai una politica giusta.

Il filosofo che cerca la giustizia, di fronte a queste condizioni etiche, prima ancora che politiche, vede tradite le sue speranze. Non può che provare un senso di alienazione e di smarrimento:

 

« Alla fine capii che il mal governo era un male comune a tutte le città, che le loro leggi non erano sanabili [...]; fui costretto a riconoscere che solo la filosofia permette di distinguere ciò che è giusto, sia nella vita pubblica sia nella vita privata. » (Ivi)

 

Quando un filosofo riscontra nella propria epoca che la politica non segue la filosofia, vedrà prospettarsi una grande delusione qualora intenda mettersi in gioco. Ne è un esempio il progressivo allontanamento di Platone da quella che diremmo “la politica mainstream” del suo tempo. Non si tratta di una idiosincrasia, ma di un distacco inevitabile se non si vuole essere complici di ingiustizia, di una consapevole impossibilità. Tale frattura lo portò a teorizzare il governo degli uomini d’oro, ossia dei filosofi, nella Repubblica. La filosofia è presentata come l’unico faro per giungere a un buon governo. Se a capo dei governi, al contrario, non ci saranno dei veri filosofi, le città passeranno affannosamente da un regime corrotto a un altro. Tirannide, oligarchia o democrazia, non farà molta differenza, come insegna la vita di Platone. I cittadini, se ineducati alla saggezza e alla misura, passeranno da un governante all’altro, senza che in verità cambi niente per loro. Al contempo, finché il senso di giustizia veicolato dalla filosofia non guiderà il governo, sembra proprio che al filosofo non resti altro che allontanarsi dalla politica mainstream, pena la fine di Socrate o Dione.

 

Nonostante il desiderio di agire politicamente per il bene della polis, Platone fu sempre spinto ad allontanarsi dalla cosa pubblica. Osservò da lontano il legiferare dei governi. Occuparsi di una politica che non seguiva la filosofia, infatti, avrebbe implicato sporcarsi le mani, avrebbe portato a macchiarsi, in un modo o nell’altro, di qualche crimine. Allo stesso modo, trovare amici fidati con i quali condividere un simile senso di giustizia era un’impresa davvero ardua perché il malcostume imperversava ovunque. La cattiva politica dei governanti e il cattivo costume dei cittadini, dunque, sembrano avere un legame inossidabile: a fortìori, la cattiva politica trova una sicurezza di stabilità proprio nel cattivo costume. Cittadini che pensano a spendere i propri denari – spiega Platone – educati a svagarsi, a mangiare, bere e dedicarsi ai piaceri, non potranno diventare saggi e misurati, e di conseguenza non avranno mai una politica giusta.

Il filosofo che cerca la giustizia, di fronte a queste condizioni etiche, prima ancora che politiche, vede tradite le sue speranze. Non può che provare un senso di alienazione e di smarrimento:

 

« Alla fine capii che il mal governo era un male comune a tutte le città, che le loro leggi non erano sanabili [...]; fui costretto a riconoscere che solo la filosofia permette di distinguere ciò che è giusto, sia nella vita pubblica sia nella vita privata. » (Ivi)

 

Quando un filosofo riscontra nella propria epoca che la politica non segue la filosofia, vedrà prospettarsi una grande delusione qualora intenda mettersi in gioco. Ne è un esempio il progressivo allontanamento di Platone da quella che diremmo “la politica mainstream” del suo tempo. Non si tratta di una idiosincrasia, ma di un distacco inevitabile se non si vuole essere complici di ingiustizia, di una consapevole impossibilità. Tale frattura lo portò a teorizzare il governo degli uomini d’oro, ossia dei filosofi, nella Repubblica. La filosofia è presentata come l’unico faro per giungere a un buon governo. Se a capo dei governi, al contrario, non ci saranno dei veri filosofi, le città passeranno affannosamente da un regime corrotto a un altro. Tirannide, oligarchia o democrazia, non farà molta differenza, come insegna la vita di Platone. I cittadini, se ineducati alla saggezza e alla misura, passeranno da un governante all’altro, senza che in verità cambi niente per loro. Al contempo, finché il senso di giustizia veicolato dalla filosofia non guiderà il governo, sembra proprio che al filosofo non resti altro che allontanarsi dalla politica mainstream, pena la fine di Socrate o Dione.

 

 6 marzo 2020

 









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