Dimenticanza dell'essere: quando la traduzione sbagliata di un titolo presuppone altro

 

Le lezioni di Martin Heidegger ci hanno insegnato il valore della “parola” e, di conseguenza, quanto una traduzione non sia mai innocente: ogni traduzione infatti nasconde e presuppone una determinata “posizione” di pensiero. Abbiamo applicato questa idea analizzando il problema delle traduzioni del testo heideggeriano Die Frage nach der Technik.

 

 

Michele: Ero impegnato nella scrittura di un saggio per la rivista Studia Heideggeriana, richiestomi dal caro Federico Sollazzo. Questo saggio verteva su “La questione della tecnica e il tramonto occidentale: Heidegger, Spengler, Wittgenstein”. Nella scrittura mi sono imbattuto in un grandissimo problema: la traduzione del titolo del testo heideggeriano Die Frage nach der Technik. Questo testo, pubblicato originariamente in tedesco nel 1954 nei Vorträge und Aufsätze, è stato pubblicato nella sua traduzione inglese con il titolo The Question Concerning Technology.

Vi sono stati alcuni casi di traduzioni meno conosciute, rispetto a quella pubblicata dalla nota Garland, in cui si è preferito tradurre con technique, piuttosto che technology, ma le scelte della casa editrice più nota hanno influenzato il lessico accademico heideggeriano inglese, tanto che dire The Question Concerning Technique genererebbe un certo imbarazzo nell’interlocutore – come se noi pronunciassimo male un termine di uso comune, dato che technique sembra oggi in disuso e impiegato raramente solo come sinonimo di skill

 

Perché accanirsi allora su una sola parola?

Lo stesso Heidegger si è spesso cimentato nel sottolineare l’importanza della traduzione: 

 

« il fatto che una traduzione sia semplicemente letterale non significa per ciò stesso che sia anche più fedele a ciò che è detto. Una traduzione è fedele solo se le parole parlano il linguaggio della cosa in causa. » (Sentieri interrotti)

 

Tradurre dunque è un’attività che implica necessariamente un pensiero, una scelta. E scegliere di tradurre il tedesco Technik con Technology significa non aver afferrato il senso del testo heideggeriano. Perché La questione della tecnica affronta qualcosa di molto più ampio e profondo del semplice pro vs contro della tecnologia. Affrontare il discorso della tecnica significa dover risalire al senso dell’esistere stesso dell’uomo – non a caso Heidegger scrive che «per capire l’essenza della tecnica, non si deve partire dalla tecnica» e, da qui, affrontare anche il problema della tecnologia.

Tradurre invece Technik con Technology significa equiparare le due dimensioni – e prendere già posizione, sia pur inconsapevolmente, rispetto ad essa – quando è in realtà Heidegger stesso nello scritto a specificare che la tecnica non è da equiparare solo a situazioni “tecnologizzate”: non è l’avanzamento tecnologico a fare qui la differenza, ma la possibilità di disvelamento che nell’evento in questione si cela. 

Quell’errata traduzione non sarebbe per Heidegger qualcosa di casuale, ma piuttosto uno dei modi del nascondimento, dell’oblio dell’Essere che storicamente sta trovando compimento in quest’epoca e di cui Heidegger ha a lungo parlato in Sein und Zeit e diversi altri scritti, tanto da essere – anche dopo la famosa Kehre (la svolta del pensiero Heideggeriano dopo Sein und Zeit) – l’unico punto di riferimento costante nella ricerca del filosofo di Meßkirch.

 

Sottolineando questa precisazione ermeneutica emerge anche la vera posizione di Heidegger nei confronti della “tecnica”: Heidegger cerca di non affrontare il problema da una prospettiva dualistica del “pro” e del “anti”.

Tradurre Technik con Technology non ci farebbe comprendere la Technik nella sua duplice dimensione di Geschick e Gefahr, di “pericolo” e “destino”: destino perché è un risultato inevitabile del modo di rapportarsi dell’uomo al mondo; pericolo perché il rischio è quello di considerare il mondo che ci circonda non come qualcosa con cui rapportarsi, ma come un oggetto usabile, un fondo a cui attingere fin quando ci è consentito:

 

« È l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso […]. In realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza. » (La questione della tecnica)

 

Federico Sollazzo, curatore dell'edizione italiana, pubblicata da goWare, de "La questione della tecnica" di Martin Heidegger
Federico Sollazzo, curatore dell'edizione italiana, pubblicata da goWare, de "La questione della tecnica" di Martin Heidegger

Federico: Entro subito nel merito della questione. Ritengo che la traduzione inglese del termine tedesco usato da Heidegger Technik, a partire dal celebre saggio Die Frage nach der Technik, (per la cui riedizione per i tipi di goWare, Firenze 2017, ho avuto il piacere di scrivere un saggio introduttivo) dovrebbe essere Technique e non Technology (come invece è nella più nota traduzione inglese di quel saggio: The Question Concerning Technology). Quando mi sono trovato a trattare questo tema in lingua inglese, ad esempio tenendo corsi all’università di Szeged, questa è stata sempre la prima cosa che ho evidenziato: il titolo in inglese di quel saggio dovrebbe suonare come The Question Concerning Technique.

In italiano, giustamente, Technik viene tradotto come “tecnica” e non come tecnologia e il titolo di quel saggio è pertanto La questione della tecnica. Questa non è una certosina questione linguistica che si potrebbe liquidare dicendo che anche in tedesco esiste questa distinzione e che Heidegger ha usato Technik e non Technologie e dobbiamo quindi restare fedeli alla traduzione letterale, ne va invece della comprensione del senso del discorso filosofico qui in essere.

Non a caso, chi tende a trascurare questo punto fa di Heidegger sic et simpliciter un antimodernista (problema simile a quello che è toccato in sorte, con i relativi distinguo, a Marcuse e Pasolini) come se quella heideggeriana fosse una critica alla tecnica, anziché una critica della tecnica; pertanto, critica nel senso del tedesco Kritik, affine al greco krinein, ovvero non un parlar male, ma il separare cose diverse le une dalle altre al fine di pervenire ad un giudizio – che è poi, io credo, l’unico modo in cui possa avvenire il comprendere.

 

Questo è il cuore del discorso heideggeriano sulla tecnica, anzi, direi di tutta la produzione heideggeriana, dato che queste distinzioni sono alla base di tutta la sua opera. 

In breve, Heidegger, distingue fra "techne", ricordando come nel mondo antico questa indicasse anche quel fenomeno che noi oggi chiamiamo arte, essendo un qualcosa di poietico, da poiesis  «techne non è solo il nome del fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e delle belle arti. La techne appartiene alla produzione, alla poiesis, è qualcosa di poietico» –  e “tecnica moderna”, che in inglese si potrebbero distinguere rispettivamente come Technique e Technology (o in un qualsiasi altro modo che non confonda il greco techne e il tedesco Technik con l’inglese Technology). Questa distinzione è dirimente: nel primo caso (techne) abbiamo a che fare con un fenomeno che produce il mondo, Heidegger parla qui infatti di “tecnica producente” e di hervorbringen (un portare avanti, nel disvelamento); nel secondo caso (“tecnica moderna”), abbiamo invece a che fare con un fenomeno che provoca il mondo, qui egli parla infatti di “tecnica provocante”, di herausstellen e di herasufordern (un mettere in esposizione, uno sfidare). Addirittura, già fin da Essere e tempo inizia a riflettere su due diverse possibilità di incontrare il mondo da parte dell’uomo: lo zuhandensein (il fatto che il mondo sia alle mani, che rientra qui nell'ambito della techne) e il vorhandensein (il fatto che il mondo sia per le mani, che rientra qui nell'ambito della tecnica moderna).

 

Ora, mancare queste differenze e confondere tecnica con tecnologia non permette di cogliere adeguatamente quei due fenomeni essenziali che si danno in tutto ciò che è poietico: il destino (Geschick) e il pericolo (Gefahr). Certamente entrambi presenti sia nella techne che nella tecnica moderna, e tuttavia è solo nella seconda che il pericolo si realizza storicamente. 

Mancare questo significa non poter più fare la differenza tra un discorso tecnofobo o tecnofilo e quello heideggeriano, che non è né l’una né l’altra cosa, e così, ad esempio, non poter più distinguere Heidegger da uno Spengler o da uno Jünger, se non per irrilevanti questioni filologiche o storiografiche.

Questa differenza, che qui abbiamo nominato come quella fra tecnica e tecnologia, così come, ad esempio, quella fra una diga e un robot, o fra la cibernetica – che Heidegger pone come una sorta di scienza delle scienze, quindi non come altro da esse, pertanto recante in sé la medesima essenza di quelle – e qualsiasi altra scienza (oggi anche le neuroscienze, le ICT, la IA), rimanda ad un diverso modo di incontrare il mondo. E il modo d’incontrare il mondo peculiare della della nostra “epoca” (Epoche), “da Platone a Nietzsche”, e quindi della tecnica moderna, Heidegger lo chiama metafisica, il cui cuore è il Gestell, l’imposizione, tratto essenziale quindi proprio della tecnica moderna che è, appunto, una forma della metafisica:

 

« Ge-stell, im-posizione (…) pro-voca, l’uomo a disvelare il reale, nel modo dell’impiego, come «fondo». Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell’essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. » (La questione della tecnica)

  

Ne consegue che l’origine della tecnica moderna è la metafisica. La locuzione “tecnica moderna” diventa così una sorta di sinonimo di metafisica. Non indica, quindi, uno specifico modo, tecno-scientifico appunto, di realizzare le cose che si oppone ad altri specifici modi; indica invece un certo modo del disvelamento e la dimenticanza dello stesso: l’oblio dell'Essere. Anzi, cercando di dirlo meglio, poiché l’oblio dell’Essere è l’oblio della relazione che l’uomo ha con l’Essere e poiché tale oblio rimane pur sempre la risposta ad un appello dell’Essere, allora si deve dire che la tecnica moderna è proprio quel modo del disvelamento, la metafisica, che consiste nell’oblio dell’Essere.    

Ne deriva che anche il filosofo, nell'epoca della metafisica, è un metafisico. Si è infatti tali non a seconda di ciò che si fa, ma a seconda di come lo si fa, meglio, a seconda di come si incontra il mondo.

 

La casa di Heidegger a Todtnauberg
La casa di Heidegger a Todtnauberg

E se lo si incontra all’insegna del Gestell si è nella metafisica. Per questo, e niente affatto paradossalmente, il metafisico per eccellenza è lo scienziato. Per questo il pensatore, che quindi va distinto dal filosofo, può, e anzi deve, permettersi di essere un analfabeta scientifico. L’alfabetizzazione scientifica, infatti, ci fa conoscere i risultati specifici del Gestell, ovvero della metafisica, ovvero della tecnica moderna, ma proprio così facendo ci avvia verso l’oblio dell’Essere. Per questo la frase heideggeriana “la scienza non pensa” rimane valida nei confronti di qualsiasi scienza, perché questa assenza di pensiero deriva dalla tecnica moderna come metafisica, dalla quale poi, invertendo quanto comunemente si ritiene, viene la scienza, come forma di sistematizzazione di quella metafisica che è la tecnica moderna. Non è quindi questa o quella scienza che non pensa, ma la scienza in quanto tale, il Gestell in quanto tale, la metafisica in quanto tale. Si potrebbe dire: la tecnica moderna in quanto tale non dà da pensare.

Per concludere, ecco perché per Heidegger la tecnica non è un mero fatto storico che muta a seconda del suo grado di sviluppo, ma un evento ontologico, nella nostra epoca definibile come tecnica moderna e che potrà tornare ad essere techne solo se e quando il mondo verrà incontrato in un altro modo.

Tutto questo discorso non è sostenibile confondendo la tecnica con la tecnologia.

 

 

7 ottobre 2020

 




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