Balena blu: il gioco della morte

 

Blue Whale Challenge, Jonathan Galindo e molte altre: sono sempre di più le sfide che spingono i giovani a farsi del male e a togliersi la vita. Ma perché, prima di tutto, i ragazzi accettano di compiere questi gesti estremi?

 

di Sofia Gallinaro

 

 

La Blue Whale Challenge (Sfida della Balenottera Azzurra), è un fenomeno che ha iniziato a diffondersi nel 2016 dalla Russia attraverso i social media. Questo “gioco” consiste in cinquanta giorni di pratiche autolesionistiche e degradanti che si concludono con il suicidio. Il nome deriva dal fenomeno di spiaggiamento proprio delle balene. Questi animali, infatti, alla fine della loro vita si isolano dal loro gruppo e muoiono nelle spiagge. Viene visto come un parallelismo con gli adolescenti che decidono di seguire le regole: anche loro sono persi, lontani e si sentono senza via d’uscita.

 

Tutto è iniziato dal suicidio di Rina Palenkova, una ragazza di sedici anni che ha postato il suo gesto su un social media russo. Da allora l’onda delle morti volontarie tra i teenager non si è più placata: al contrario, si è diffusa in tutto il mondo.

 

Sono passati 5 anni ma non si può ancora dire che i casi di questa “challenge”, benché notevolmente diminuiti, siano scomparsi.

Tutt’oggi, infatti, molti ragazzi in tutto il mondo si tolgono la vita come ultima tragica conseguenza a uno stato d’animo di sofferenza, e la quarantena forzata per il Covid-19 non ha di certo aiutato.

 

Ma il fatto più grave è che stanno nascendo delle varianti peggiori, in quanto non possono essere riconosciute dai soggetti che ne sono affetti. Infatti, mentre la Sfida della Balena Blu richiede di essere documentata con video, altre più recenti, come il “gioco” di Jonathan Galindo, non lasciano tracce.

 

 

Questo gioco – che si è sviluppato da un “Creepypasta” dove si raccontava di un uomo incappucciato che rapiva giovani e li uccideva – non è molto conosciuto ma ha mietuto anch’esso molte vittime, persino in Italia, dove un bambino di undici anni si è tolto la vita a Napoli.

«Mamma, papà, vi amo ma devo seguire l’uomo col cappuccio» sono state le sue ultime parole, scritte in un biglietto per i genitori.

 

Non sono stati trovati foto o grandi tagli nel suo corpo, due dei segnali che solitamente venivano usati per individuare chi metteva in pratica le regole della Blue Whale Challenge. In questo modo diventa più difficile intervenire prima che sia troppo tardi.

 

Ma perché tantissimi giovani si lasciano coinvolgere da sconosciuti in questi comportamenti autolesionistici? Tutto inizia dai social media: da un giorno all’altro potresti trovarti un messaggio su Instagram da un profilo falso che ti chiede se vuoi giocare ad un gioco. Se è il caso di Jonathan Galindo, ad esempio, l’immagine profilo sarà una foto inquietante di Pippo, realizzata anni fa da un creatore di effetti speciali cinematografici per un altro scopo. E forse un po’ per curiosità, un po’ perché pensano di non aver nulla da perdere, molti ragazzi rispondono , cominciando il loro percorso verso il suicidio.

 

Certo, la risposta sarebbe negativa se non ci fosse un malessere già presente nella vita di questi giovani. Anche senza seguire delle regole, infatti, l’autolesionismo è molto diffuso tra gli adolescenti: Affinity Healthcare è arrivata a stimare che circa il 33% di loro lo pratica, ma potrebbero essere molti di più, in quanto chi ne è affetto tende a nasconderlo. Un’altra ricerca, ad esempio, non fornisce una percentuale precisa ma afferma che i numeri potrebbero variare dal 17% al 41%.

 

 

L’autolesionismo, ovvero la pratica di infliggersi consapevolmente ferite fisiche attraverso tagli, bruciature o colpi, non è però una tappa verso il togliersi la vita: la maggior parte di chi lo pratica non ha intenzione di uccidersi e i danni sono quasi sempre controllati. Infatti, il principale scopo del procurarsi del male in questo modo è di “scappare” da ciò che non va e sentire del piacere che non si prova emotivamente, quasi come una droga. E proprio come una sostanza stupefacente: non si riesce più a farne a meno.

 

Inoltre, mentre è luogo comune pensare che sia la conseguenza a condizioni cliniche come depressione, ansia e disturbi alimentari, in realtà l’autolesionismo può colpire chiunque. Ovviamente è molto più probabile che chi soffre di patologie psicologiche ne sia affetto, ma non sempre i due aspetti sono collegati.

 

L’autolesionismo e il suicidio sono quasi dei tabù: nessuno ne parla e, così facendo, non si aiuta a migliorare le statistiche attuali.

Il 10 settembre, per convenzione il giorno della prevenzione del suicidio, tutto quello che è stato distribuito sono stati articoli di giornale per ricordare quanto fosse importante parlare con qualcuno se si avessero pensieri sulla morte.

La stessa storia capita ogni 1° marzo, giornata internazionale per la sensibilizzazione dell’autolesionismo.

 

Una postilla a fondo pagina dove si ricorda di chiedere aiuto non cambierà le carte in tavola: finché questo tema non sarà reso noto a più persone possibili, quindi magari anche alle stesse persone che vi si rispecchiano in prima persona, i numeri dei casi non diminuiranno. Educando le persone su questo argomento, si crea uno spazio sicuro dove le persone possono sentirsi sicure di chiedere aiuto.

 

Un’altra piccola azione che si può fare è controllare che i propri amici e familiari stiano bene: siccome cicatrici e tagli possono essere oggetto di vergogna, si nascondono spesso con vestiti larghi o coprendo con il trucco. Quindi, anche se qualcuno sembra stare bene non è detto che lo stia davvero: bisogna prestare attenzione alle persone a noi vicine.

 

11 maggio 2021

 







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