Il male radicale kantiano e la sua osservabilità

 

Secondo Kant il male è il frutto della libertà dell’individuo. Però, il male si può radicalizzare nell’uomo e divenire parte del proprio essere, mediante libere e ripetute azioni malvagie. È come se abituato a fare il male, l’uomo diventi malvagio per natura. La radicalizzazione del male, poi, è facilmente osservabile nelle azioni umane. Basta tutto ciò a deliberare l’innata tendenza al male dell’uomo?

 

di Paolo Cusenza

 

L'Arcangelo Michele e il diavolo, Notre-Dame
L'Arcangelo Michele e il diavolo, Notre-Dame

 

In Kant il male non è una questione di ordine metafisico, ma di ordine morale e la sua radicalizzazione è osservabile empiricamente. Non è di ordine metafisico poiché, nell’uomo, il male non è imputabile alla propria sostanza, né nel caso egli sia un essere creato da Dio, né dal punto di vista del suo biologico appartenere alla specie umana, insomma: il male non è innato, non in questo senso. Il male nell’uomo si può dire innato nella misura in cui esso si radicalizza nel soggetto libero e ne diviene un’acquisizione (originaria) della propria natura. Il male è il frutto della libertà dell’individuo e assume, perciò, connotati morali. Se l’uomo fa il male, è perché egli è innatamente libero: la colpa del male pertiene all’uomo in quanto dotato del libero arbitrio. Solo mediante il perpetuarsi di scelte “malvagie” e la conseguente radicalizzazione del male che deriva da queste scelte, si può dire che il male diviene nell’uomo un’acquisizione originaria e, quindi, “innato”. È come se abituato a fare il male, l’uomo diventi davvero malvagio per natura: il male si radicalizza in lui. Se, poi, si osserva l’azione umana nel corso della storia, il verdetto sull’uomo diventa scontato ed evidente, ma esso dipende sempre e comunque dalla propria libertà:

 

« l’uomo, così come lo si conosce per esperienza, non può essere giudicato diversamente, o nel senso che si può presupporre la tendenza al male di ogni uomo anche nel migliore […]. Tale tendenza dev’essere considerata […] non come una disposizione naturale, ma come qualcosa che possa essere imputata all’uomo, […] poiché tuttavia è necessario che tale tendenza sia sempre colpevole, la potremo chiamare un male radicale e innato nella natura (ma del quale nondimeno noi stessi siamo la causa) ». (I. Kant, Il male radicale)

 

Kant fa gli esempi dello stato di natura, dello stato di civiltà e dello stato internazionale, nei quali è osservabile e si rende palese la radicalizzazione nell’uomo della tendenza al male. Questi sono «esempi clamorosi che l’esperienza ci mette dinanzi agli occhi nei fatti degli uomini». (I. Kant, Il male radicale). In nessuno dei tre momenti storici è possibile trovare una totale assenza di male, anzi. Nello stato di natura, dove molti filosofi del passato ricercavano la bontà naturale dell’uomo, noi troviamo:

 

« scene di fredda ferocia che ci presentano le stragi di Tofoa della Nuova Zelanda, delle Isole dei Navigatori e i massacri incessanti (riferiti dal capitano Hearne) che avvengono nei vasti deserti del nord-ovest dell’America, e dai quali nessun uomo ricava il minimo vantaggio; si avranno così vizi di brutalità più di quel che è necessario per allontanarsi dall’opinione di quei filosofi ». (I. Kant, Il male radicale).

 

Nello stato di civiltà, nel quale la natura umana dovrebbe farsi meglio conoscere, nel quale vige il diritto e gli individui vivono in grandi e complesse società, troveremo invece:

 

« lamenti dell’umanità contro la segreta falsità che s’insinua anche nell’amicizia più intima, tanto che la moderazione della fiducia nelle confidenze reciproche è considerata, anche dai migliori amici, come una massima universale di prudenza; […] si troveranno vizi della cultura e della civiltà (i più umilianti di tutti) in quantità sufficiente per preferire di distogliere lo sguardo dalla condotta degli uomini, anziché cadere in un altro vizio, quello, cioè, della misantropia ». (I. Kant, Il male radicale).

 

Infine, lo stato internazionale è quello che dovrebbe rappresentare il gradino più alto dell’essere umano. In esso, in teoria, convivono e intrattengono rapporti di reciproca alleanza i differenti paesi del mondo, i quali hanno raggiunto il massimo grado di civiltà. All’atto pratico, invece, lo stato internazionale risulta essere un composto formato dal peggio delle precedenti due tipologie di stato, quello di natura e quello di civiltà, infatti qui:

 

« le nazioni civili stanno tra loro nel rapporto del rozzo stato di natura (stato perpetuo di guerra), dal quale, anzi, hanno preso la ferma risoluzione di non allontanarsi mai; […] il chiliasmo filosofico, che spera in uno stato di pace perpetua, fondata su una lega delle nazioni come repubblica mondiale, viene universalmente deriso come una stravaganza, allo stesso modo che il chiliasmo teologico, il quale aspetta il miglioramento morale perfetto di tutto il genere umano ». (I. Kant, Il male radicale).

 

Battaglia di Okinawa
Battaglia di Okinawa

 

Dopo aver chiarito che la radicalizzazione del male è una questione di ordine morale, legata dunque all’azione dell’uomo e al suo libero arbitrio e dopo aver constatato su più livelli di organizzazione sociale la sua osservabilità, attraverso “i fatti degli uomini”, possiamo noi, sulla base dell’esperienza e dei molteplici riscontri empirici, deliberare che l’uomo è per natura cattivo? Per Kant, ancora una volta, no. Nonostante l’esperienza ci insegni il contrario, la radicalizzazione del male è sempre da imputare all’uomo. Lui ne è il responsabile. Ricordiamo che l’unico attributo che nell’uomo è innato, è la libertà. Il dato esperienziale non è sufficiente a certificare anche l’innatismo del male. L’unico modo con cui il male può radicalizzarsi nell’uomo, al punto da diventare una forma originaria del suo essere, al punto da potersi definire innato, è mediante l’accettazione colposa di massime cattive invece che buone, le quali, con l’abitudine, si cementificano e portano l’uomo a scegliere liberamente azioni malvagie. «Dunque, quando noi diciamo: l’uomo è per natura buono o è per natura cattivo, ciò significa semplicemente che egli contiene un principio primo (per noi impenetrabile) in forza del quale egli accetta massime buone o cattive». (I. Kant, Il male radicale).

 

Insomma, l’esperienza non può mai scoprire la radice del male, perché il principio che ci fa accettare una massima, cattiva o buona che sia, è intellegibile e precede ogni esperienza. Anche se è vero che non possiamo conoscere il principio che ci porta ad accettare massime cattive, noi possiamo, però, essere certi della nostra libertà, del nostro libero arbitrio e della nostra possibilità di scelta tra un’azione buona e una cattiva. Seguendo il ragionamento Kantiano, possiamo dunque abituarci a scegliere azioni buone, così da tendere originariamente più a massime buone che cattive. Certo la storia ci insegna che un’umanità abituata al bene è poco probabile, per non dire impossibile. Basti pensare alle guerre che si sono successe dopo Kant, fino ai giorni nostri, con quelle che stiamo vivendo. Forse al giorno d’oggi, Kant tentennerebbe nel dire che l’essere umano non è innatamente malvagio, guardando ai fatti degli uomini ancora più sconcertanti di quelli che analizzava lui, che accadono e che sono accaduti. Ma se aveva ragione riguardo al fatto che una tendenza può radicalizzarsi mediante l’abitudine, anche pur non sapendo quale principio ci spinge ad accettare una massima piuttosto che un’altra, certamente possiamo lavorare sull’abituarci a fare il bene. E, magari, possiamo anche educare al bene.

 

28 dicembre 2022

 









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