Una speranza filosofica per l’Europa dell’Est

 

Il nazionalismo negli ultimi anni in Europa ha acquisito un rilievo particolare, diventando una fonte di conflitto difficile da ignorare. Per comprendere meglio questi fenomeni, sembra necessaria una precisazione concettuale su come si possano definire le idee di nazionalismo da un lato e le idee di nazione dall’altro, ed il rapporto tra nazionalismo e cosmopolitismo.

 

di Gersa Rrudha

 

 

In generale, l’800 è stato definito il “secolo del nazionalismo”, mentre il ’900, principalmente nella sua prima metà, sembra essere stato dominato da una filosofia del tutto opposta. Socialismo e liberalismo, sul piano ideologico, divennero realtà storico-sociali che riuscirono ad essere dettate più a livello internazionale che a livello nazionale e locale.

 

Tuttavia, il nazionalismo negli ultimi anni in Europa ha acquisito un rilievo particolare, diventando una fonte di conflitto difficile da ignorare. Per comprendere meglio questi fenomeni, sembra necessaria una precisazione concettuale su come si possano definire le idee di nazionalismo da un lato e le idee di nazione dall’altro. Quanto al concetto di nazionalismo, si possono distinguere quattro elementi che spesso sono facilmente confondibili.

 

Il primo, costituito dall’identità nazionale, è un prodotto culturale e sociale, somigliante a qualcosa di fluido. È un processo in continua evoluzione che deve essere curato ogni volta.

Il secondo elemento riguarda la formazione dello Stato e rappresenta un problema di tutt’altra natura. È il processo attraverso il quale lo Stato crea strutture che riempiono in modo capillare il suo territorio. 

Il terzo punto sono proprio i movimenti nazionali o comunque movimenti politici che mirano all'attività di indipendenza nazionale.

E infine, l’elemento del nazionalismo stesso, che come viene trattato nella seconda metà del secolo scorso, è un fenomeno più particolare, riferito a un programma politico specifico.

 

Da questo punto di vista, la storia dell’Albania sembra aver conosciuto senza dubbio movimenti nazionalisti, come quello che ha condotto i nostri “Rilindas” (il termine in albanese che comprende i più grandi ideologhi e leader della nostra indipendenza), fino alla dichiarazione di essa, ma non un vero programma di nazionalismo, nel senso più profondo della parola. Ciò diventa ancora più chiaro se si esaminano le interpretazioni date dalla filosofia politica su questo argomento. Si possono riconoscere tre tipi d’interpretazione.

 

La prima riconosce l’esistenza permanente di una nazione, anche al di fuori della storia.

La seconda interpretazione consiste nel fatto che, quando una nazione raggiunge la sua vera indipendenza e la formazione dello Stato-nazione, il suo patriottismo nazionale, che ne consegue, appare in un certo modo come un sentimento istintivo, condiviso da tutti i cittadini, e di conseguenza, è più forte dei legami e di altre forme di fedeltà alla patria, tanto che in tempo di guerra i cittadini sembrano disposti a sacrificare la vita per essa.

Il terzo elemento, che collega i primi due, è presentato dalla congettura o ipotesi (espressa più chiaramente da Hegel) che il destino delle nazioni sia inevitabilmente lo stato-nazione. Quest'ultima interpretazione sembra essere già stata superata nel progetto dell’Unione Europea, a cui tendono ad aderire i paesi balcanici (tra cui l'Albania). Ma, se guardiamo al modo in cui si è formato lo stato albanese e all’esistenza di una lingua che esisteva anche prima della nazione, comprendiamo chiaramente che il patriottismo sembra essere stato un elemento molto più dominante del nazionalismo nella storia albanese.

 

La differenza tra queste due nozioni è stata uno dei nodi più importanti della storia contemporanea, che negli anni ’30 del XX secolo è stata trattata in modo profondo e quasi esauriente da uno dei più grandi filosofi dell'epoca, Henri Bergson, nella sua ultima grande opera Le due fonti della morale e della religione, dove fa emergere il contrasto cruciale che c’è tra patriottismo e nazionalismo.

 

È emersa come tragicamente nel periodo delle guerre mondiali, l’eclissi della politica e della cultura europea, andando a porre tra loro una separazione. Una differenza che è stata a lungo ignorata dalla sinistra, che come organismo ideologico avrebbe dovuto dare la priorità al contrario, come conferma il famoso storico di orientamento marxista Eric Hobsbaum nel suo libro Nazioni e nazionalismo dal 1780. Tale differenza sembra però aumentare nell’ultimo secolo, mentre negli ultimi due o tre decenni, a seguito dell’intensificarsi dei progetti di integrazione tra le nazioni, è emersa come problematica un’altra relazione, quella tra nazionalismo e cosmopolitismo. In ogni epoca marcata della Civiltà, il sentimento del cosmopolitismo sembra essere sorto come risultato della sforzo nazionale o politico. Gli stessi romani, al culmine della loro civiltà, dicevano “Ubi bene, ibi patria”.

 

Tali teorie hanno cominciato a ripetersi secoli dopo secoli, quindi l’idea che il cosmopolitismo non sia altro che una delle tante manifestazioni della Civiltà è oggi abbastanza diffusa. Filosoficamente, colui che ha affrontato con una base teorica e metodologica importante il problema del rapporto tra cosmopolitismo e nazionalismo è stato Kant, dando vita a quel grande dibattito del suo tempo tra i fautori di un concetto unitario di umanità (cosmopolitismo di Voltaire) e i difensori dell’originalità e dell’individualità dei caratteri etnici e nazionali (nazionalismo di Rousseau).

 

« Quando consideriamo l’umanità nel suo insieme, spiega il grande filosofo, o solo nelle sue parti particolari che possiamo considerare come individualità storiche (ad esempio nazioni, razze o popoli), dobbiamo stare molto attenti. Perché tutte queste sono idee di ragione e non concetti dell'intelletto, vanno trattate come massime di “uso empirico”, senza pretendere di avere un valore oggettivo, come se fossero due cose completamente diverse, in quanto non si contraddicono tra loro. » (I. Kant, Per la pace perpetua)

 

 

In questo senso, non esiste una vera e propria antinomia tra cosmopolitismo e nazionalismo, perché il genere umano o i popoli nella loro particolarità non sono entità in sé, eterne e immutabili, ma modi diversi di intendere e interpretare la realtà umana, così come appare e si manifesta nella storia.

 

Tuttavia, il più importante e strategico rimane il rapporto degli albanesi di oggi con il futuro dell’integrazione europea. Come interpretare questo nesso e in quale direzione sarebbe più opportuno rafforzarsi è sempre stata una priorità politica, ma molto poco è stato affrontato da un punto di vista filosofico-sociologico.

 

Un grande aiuto in questa direzione è dato da un famoso libro di Zygmunt Bauman intitolato Il disagio della postmodernità. Parafrasando un noto saggio freudiano intitolato Il disagio della civiltà, l'autore scrive che il principio di realtà nell’età moderna aveva prevalso sul principio di piacere. L’uomo moderno, secondo Freud, aveva così scambiato una parte della sua felicità per un po’ di sicurezza in più. Oggi, scrive Bauman, è ancora una volta il principio del piacere ad essere tornato dominante. L’estrema libertà personale e il principio della supremazia del piacere motivano le persone postmoderne a provare sensazioni sempre nuove e diverse. Questa ricerca spasmodica riesce a distruggere ogni muro e ogni tipo di ordine sociale, compresa la protezione sociale garantita dal sistema o la minima dignità degli strati più poveri.

 

In questo senso, per Bauman, la libertà deve essere sempre una libertà sociale, così come i diritti umani sono un progetto di tutta la società. Per questo, un progetto politico postmoderno dovrà ispirarsi al triplice principio di libertà, differenza e solidarietà. Strettamente connessa a questo concetto di libertà è la riflessione dell'autore sul processo di integrazione europea.

 

Per la prima volta, spiega, citando Galbraith, all’inizio del nuovo secolo nei paesi occidentali gli elettori preferivano una politica che favorisse la crescente disuguaglianza sociale. Di conseguenza, i cittadini dei paesi post-comunisti hanno iniziato a conoscere meglio questo volto dell’Europa. Un’Europa egoista, non ospitale verso i fratelli dell’Est e dei Balcani, disposta a rinunciare alla politica della solidarietà con la convinzione delle benevole conseguenze di un mercato senza regole.

 

Analizzando il percorso dei paesi post-comunisti, li definisce “economia politica della pazienza”, perché in sostanza, durante questi decenni, la libertà conquistata non è stata accompagnata dalla felicità e dal benessere degli individui di queste società. È proprio la pazienza la virtù attraverso la quale si deve superare la precarietà del lavoro e la povertà distruttiva, in cambio del benessere del futuro. Tuttavia, Bauman esorta gli europei dell’Est e i Balcani a seguire il principio dell’“economia politica della speranza” come principio guida; questa economia implica il fatto che «la coscienza considera fondamentale non solo la velocità del cambiamento, ma anche la loro direzione».

 

Per questo Bauman consiglia di tornare alla politica e di costruire la società secondo una direzione stabilita collettivamente e verificata nello sviluppo. Avere pazienza, secondo lui, significa accettare senza dubbio che la libertà e la disuguaglianza si rivelino un risultato migliore di quello che i regimi comunisti hanno prodotto negli anni. Mentre avere speranza significa chiedersi fino a che punto la disuguaglianza sempre crescente riesca a produrre gli stessi frutti.

 

Per Baumann, l’economia politica della speranza che ha tutte le potenzialità per svilupparsi nei paesi dell’Est, dovrà rappresentare un esempio di speranza per tutte le democrazie europee. Se coloro che si accontentano della disuguaglianza sono ancora la maggioranza in Occidente, convinti che riesca a portare prosperità e ricchezza, allora sarà sempre in gioco la vitalità della democrazia, poiché essa tende così a diventare una routine e non qualcosa di effettivamente esercitato.

 

In un Paese come l’Albania dove non è in gioco solo la democrazia, ma anche “l’economia della pazienza”, dove la disuguaglianza è la più grande battaglia che l’Albania può avere nel suo futuro di integrazione, diventa sempre più urgente portare avanti l’intero programma della nostra società politica e sociale verso “l'economia della speranza”, perché solo così daremo un rinnovamento fondamentale non solo alla nostra democrazia, ma anche a tutto il nostro sistema Paese.

 

21 luglio 2022

 




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