"La rivincita del paganesimo": Atene contro Gerusalemme, di nuovo

 

D-Editore ha recentemente ridato alle stampe La rivincita del paganesimo, un saggio di Riccardo Campa originariamente pubblicato per gli stessi tipi nel 2015, e adesso ritornato in libreria con una nuova veste grafica e un ultimo capitolo aggiuntivo “sulla biopolitica dei filosofi greci”, con il quale Campa risponde ad alcune delle critiche rivolte, anni addietro, al suo volume. 

 

di Ludovico Cantisani

 

D. A. Vaccaro, "Salomone offre l'incenso agli dei pagani" (1678-1745)
D. A. Vaccaro, "Salomone offre l'incenso agli dei pagani" (1678-1745)

 

La tesi al centro de La rivincita del paganesimo è facile da individuare: il saggio di Campa intende dimostrare polemicamente che, per trovare le radici storiche della modernità, fare affidamento alla cultura cristiana o cristiano-giudaica rischia di essere un mero ornamento retorico. A detta di Campa, i germi della democrazia, del metodo scientifico, della tolleranza religiosa, delle belle arti, della libertà sessuale e della bioetica stessa sono rintracciabili molto più nel mondo pagano, che non nel Medioevo cristiano. Non per nulla si parla di Rinascimento, per i due secoli successivi alla fine del Medioevo: e con questo termine si designa non certo la rinascita della cultura cristiana, che allora era a dir poco dominante, bensì il recupero per quanto possibile integrale, anche grazie alla fuga dei dotti da Bisanzio, della cultura antica, greco-romana, che durante i secoli del Medioevo era stata ridotta a pochissimi scrittori e filosofi per giunta cristianizzati.

 

Il punto di partenza, se vogliamo il pretesto del libro di Campa era stata la controversa affermazione di Joseph Ratzinger, da poco salito al soglio pontificio, sulle “radici cristiane dell’Europa” che l’Unione Europea avrebbe fatto bene a continuare a riconoscere, una polemica che ormai sa di stantio. Non per nulla tutto il terzo capitolo de La rivincita del paganesimo è dedicata a criticare su tutta la linea Spe Salvi, un’enciclica di Benedetto XVI del 2007. Nel quarto capitolo, aggiunto in questa nuova edizione, troviamo affermato anche che La rivincita del paganesimo nasceva in risposta a Rodney Stark, sociologo cristiano che sosteneva che il successo dell’Occidente, inclusa la nascita della scienza, poggiasse interamente sui fondamenti religiosi del Cristianesimo; ma l’obiettivo di fondo del libro di Campa non è la controversia contro il pontefice o il sociologo di turno; il suo obiettivo polemico di fondo sta, se mai, nell’ambiziosa tentazione di confutare Weber, uno dei padri fondatori, anzi ri-fondatori, della sociologia cristiana.

 

In questa confutazione di Weber Riccardo Campa non è solo, e soprattutto non è il primo: il capitolo iniziale è un lungo omaggio alle tesi di Luciano Pellicani, sociologo e politologo pugliese morto nel 2020, a lungo a fianco di Bettino Craxi, che non a caso firma la prefazione a questa opera. Citando a più riprese Pellicani, Riccardo Campa cassa essenzialmente Lo spirito del capitalismo dall’etica protestante nella sua interezza, affermando anche che «l’elevazione di Max Weber a mostra sacro della sociologia ha portato molti sociologi a riprodurre i suoi memi acriticamente, fidandosi della sua autorità».

 

Contro le tesi di Max Weber, che volevano lo sviluppo del capitalismo figlio diretto di quell’etica protestante e nello specifico calvinista sorta con la Riforma del Cinquecento, Riccardo Campa sostiene con forza la “teoria endogena” sostenuta da Pellicani: se pensare che la modernità sia figlia direttamente e unicamente del pensiero cristiano implica, de facto, un legame con Gerusalemme e con l’Oriente tutto, la teoria endogena della secolarizzazione propagandata da Pellicani e Campa implica invece l’idea che l’Occidente sia giunto gradualmente alla secolarizzazione sotto l’azione di anticorpi autoctoni, già presenti, anticamente, nelle culture greco-romane. 

 

È in questo senso che far continuare il dibattito tra cristianesimo e paganesimo, tra Gerusalemme e Atene se vogliamo, si inserisce anche in un determinato filone politico, oltre che sociologico. La rivincita del paganesimo - invocata? preconizzata? – diagnosticata da Campa si nutre così di suggestioni intrinsecamente moderne, in nome di un’atopia che è tipica del contemporaneo, di una certa fluidità che ha permesso, per spostarci in un altro campo rispetto alla sociologia e al dibattito sulla bioetica, ai movimenti LGBT di riscoprire l’antico dio Pan, dato per morto già da Plutarco; affermare la rivincita del paganesimo su un cristianesimo stantio è, per Campa, anche una rivincita del divenire sull’essere, della sete di progresso al tradizionalismo duro e puro, del desiderio di trascendere e migliorare la realtà presente e le sue gerarchie di potere, anziché obbedire all’acquiescenza spesso propagandata dal cristianesimo storico, in cambio di un Paradiso futuro, in un altro mondo e un’altra dimensione. «Una differenza fondamentale tra i miti greci (europei) e giudaici (asiatici) c’è», fa notare Campa, «nel mito greco la realtà appare più fluida. L’universo sembra essere in eterno divenire. La lotta tra le diverse comunità di esseri che popolano il cosmo si presenta come una situazione naturale, e non come un peccato, un abominio. Le creature», addirittura, «possono ribellarsi ai creatori». L’intuizione è certo corretta, e senza dubbio la mitologia greco-romana non condanna l’uomo alla mortalità per aver assaggiato un albero della conoscenza; ma resta pur sempre il mito di Prometeo a problematizzare un po’ di più un’affermazione di questo tipo, un mito le cui implicazioni Campa sembra prendere un po’ sottogamba, nel prosieguo della sua trattazione.

 

G. Romano, "Sala dei giganti" (1536)
G. Romano, "Sala dei giganti" (1536)

 

Se questo e altri passaggi de La rivincita del paganesimo, benché sostanzialmente corretti, risuonino un po’ semplicistici e di parte, non c’è ombra di dubbio che Campa ha ragione ad indicare unicamente nella cultura classica le origini della bioetica moderna – basti pensare all’ormai pluridecennale polemica, da parte della Chiesa Cattolica, sull’aborto e sugli stessi metodi contraccettivi. Ma è proprio parlando di bioetica che Campa, per così dire, getta la maschera, e dichiara apertis verbis la sua adesione al recente e controverso movimento noto come transumanesimo. 

 

« Sta emergendo qualcosa a cui non siamo ancora riusciti a dare un nome. Lo abbiamo chiamato ‘post-umanesimo’, ‘transumanesimo’, ‘nuovo umanesimo’. La storiografia ci rivela che potremmo anche chiamarlo ‘neopaganesimo’ – un paganesimo secolarizzato che ha trasformato in valori gli dèi della mitologia greco-romana ».

 

Se il transumanesimo è al tempo stesso un movimento, una disciplina e un’attitudine del pensiero che raccoglie a cappello tanto studiosi seri quanto i più miseri ciarlatani, Campa ha dalla sua un innegabile senso storico; e se tra giornali, libri e televisioni in altre occasioni Campa ha difeso a spada tratta, in nome dell’impeto prometeico tipico del pensiero e della tecnica occidentale, la possibilità di fare sperimentazioni a livello genetico o nanotecnologiche sul corpo umano stesso, La rivincita del paganesimo può anche essere intesa come il fondamento storiografico di un simile atteggiamento bioetico. Anche se non tutte le tesi sono condivisibili, almeno non fino in fondo, La rivincita del paganesimo si caratterizza per un’invidiabile scorrevolezza di stile, che rende il saggio una lettura scorrevole ma non per questo poco densa. Resta il fatto che il libro di Campa, nel ripercorrere la genealogia dello scontro ideologico tra Gerusalemme e Atene, si propone a sua volta come un tassello, pro-ateniese e filopagano, di quest’interminabile lotta teoretica. Un concetto tanto pagano quanto giudaico-cristiano qual è quello di metriotes ci suggerisce che, verosimilmente, la verità sta nel mezzo – e non è mancato chi, nella sociologia cristiana, lo ha sostenuto con buoni argomenti, questo mezzo.

 

Se Campi “afferra” Luciano Pellegrini per andare assieme a lui contro Max Weber, un altro “pezzo da novanta” della sociologia italiana del Novecento può essere rievocato per muoversi ermeneuticamente nella direzione opposta: non solo difendere Weber, ma anche spiegare perché, al di là delle critiche certamente ben argomentate di Pellegrini e Campi, la sua intuizione di un nesso causale tra il protestantesimo e il capitalismo resta comunque un risultato irrinunciabile raggiunto dalla sociologia del secolo scorso. Nato nel 1928 e scomparso nel 2020, Giorgio Galli è stato uno dei maggiori studiosi italiani dell’opera di Max Weber, e oltre ad aver prefato un’importante edizione de Lo spirito del capitalismo dall’etica protestante, ha dato alle stampe diversi volumi su cui rifletteva sul retaggio weberiano. Tra questi spicca, per originalità l’Occidente misterioso del 1987, un saggio con il quale Galli mirava a meditare sui “vinti della storia e la loro eredità”.

 

Giorgio Galli, senza assolutizzare le intuizioni di Weber, non ha mai negato la derivazione del mondo moderno, e nello specifico del modus capitalista di produzione, dalla sensibilità cristiana e nello specifico protestante; ma nell’Occidente misterioso, andando a indagare sull’influsso che figure e gruppi marginali, eterodossi, come le baccanti, gli gnostici e le streghe, hanno indirizzato sullo sviluppo del pensiero occidentale, Galli insegna anche che il pensiero procede a sbalzi, non per germinazioni dirette. Si può pensare che il Rinascimento sia dovuto a una rinascita di germi pagani nascosti sottotraccia nella cultura cristiana, che l’arrivo dei dotti in fuga da Bisanzio ha contribuito a rifar germogliare; ma altrettanto “pagana” è, come ben evidenziato anche da Carlo Ginzburg, tutta quella genealogia di stregoni, maciare e benandanti che tanto inquietavano i sogni degli inquisitori del Basso Medioevo. Che il “disincanto del mondo” sia il fondamento della secolarizzazione è un presupposto dichiarato dell’opera di Campa, che magismo e pensiero scientifico non vadano d’accordo è un suo innegabile corollario. Più che estremizzare il conflitto tra Gerusalemme e Atene, si potrebbe anche pensare di confrontare le due città, per scoprire come, da un capo all’altro della civiltà occidentale, almeno dal Medioevo in poi, si ritrovi una commistione tra la componente greco-romana e la componente giudaico-cristiana della nostra cultura. Tanto nella “magia”, per come era intesa e praticata nel Medioevo, quanto nel pensiero scientifico vi figurano, in percentuali diverse se vogliamo, elementi cristiani ed elementi pagani: senza questa sovrapposizione, non ci sarebbe l’Occidente, non quello che conosciamo noi perlomeno.

 

Una parte significativa della filosofia europea del Novecento potrebbe essere fin troppo facilmente riletta secondo uno schema di opposizioni binarie - Adorno contra Heidegger, Freud contra Jung, Benjamin contra Spengler, Taubes contra Schmitt, forse persino il dibattito tra Sarte e Camus - sul cui sfondo si staglia, ancora una volta, la grande contrapposizione tra Gerusalemme e Atene. Ma, come si è lasciato sfuggire più volte un Derrida, la sfida per la filosofia del XXI secolo potrebbe consistere proprio nello scavalcare, questi binarismi, nello sfuggirgli, allo scopo di conseguire una visione più ampia e più armonica del pensiero europeo - quale era quella già proposta da Foucault nei vari volumi della Storia della sessualità, tanto per fare un esempio vicino ai temi di cui Campa parla. Un'ulteriore sfida - ma questa già da relegare al XXII secolo, ammesso che ci sarà ancora "un" pensiero - consisterebbe nell'abbandonare completamente queste categorizzazioni, per cercare di cogliere quel novum che inevitabilmente, in un’era di atopia digitale, avanza; ma si tratta di un ideale che la filosofia scritta, e in generale ogni forma di prosa, non raggiungeranno mai.

 

21 novembre 2022

 








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