Nella prima parte di questo contributo si è visto come nel mondo antico la riflessione morale ha sempre evitato di ricorrere a tesi normative che nella loro giustificata astrattezza promettessero di discernere in modo netto l’esperienza pratica vissuta dai soggetti agenti. In questa seconda parte si cercherà, invece, di valutare il peso esercitato dall’influenza del pensiero cristiano nella trasformazione dell’etica virtù, a prima vista destinata a restare al di fuori dell’intera discussione morale a causa di una incompatibilità all’apparenza strutturale e perciò incolmabile. Ma il profondo radicamento della filosofia pratica nell’esperienza di vita degli uomini ha come compito principale quello di evitare in ogni modo le insidiose e aride strettoie dell’intellettualismo etico.
di Tommaso Di Caprio
Con l’avvento del cristianesimo l’idea dell’essere ‘servi’ della virtù assume il carattere di un atteggiamento fortemente fideistico; in questo modo il soggetto morale concretizza nella realizzazione del bene supremo le proprie intenzioni in modo automatico lasciando che la riflessività trovi una sua giustificazione al di fuori dei limiti della ragion pratica. Eppure, fino a questo momento della storia del pensiero occidentale, la coscienza critica si era mossa seguendo sempre la medesima direzione che dalla riflessività risale all’effettività, ovviamente tenendo conto delle differenze intercorrenti tra il mondo greco-romano e la tradizione giudaico-cristiana, ma senza mai mettere in dubbio il fondamento di questa legge di natura. Per i greci, e per Aristotele in particolare, la virtù era una condizione sottostante l’esistenza stessa, che interagiva in modo vivo con le dinamiche particolari del soggetto morale. Per i cristiani, invece, la virtù aveva la sua fonte direttamente in Dio padre e in Cristo suo figlio, tanto che la suddivisione tra virtù cardinali e teologali ne era la prova schiacciante. Infatti, il cristianesimo considerava la passione civile scaturente dalle virtù cardinali troppo pericolosa e imprevedibile per poter essere lasciata libera di manifestarsi nel mondo e perciò, al fine di tenere sotto controllo questo fervore civile, decise di introdurre un fondamento morale eteronomo non derivante dalla volontà umana che subordinasse il pensiero laico alla dottrina cristiana. Il cristianesimo istituzionale aveva còlto in largo anticipo il pericolo nascosto nelle virtù cardinali, dal momento che in esse i fondamenti della riflessività morale erano sistematicamente messi in dubbio dalla sfera dell’effettività pratica. Questo aspetto è determinante, poiché consente di definire la portata reale del pensiero filosofico cristiano nella costruzione del concetto di virtù; la teologia cristiana era, infatti, riuscita a concentrare nell’intimità dello spirito la discriminante dell’agire morale, rendendo maggiormente asimmetrica la dipendenza del soggetto agente senza peraltro stravolgere in alcun modo la dinamica tra riflessività ed effettività. Per iniziare ad intravedere un cambiamento davvero radicale nella relazione tra effettività e riflessività nel campo della determinazione dell’atto virtuoso, si deve andare avanti di diversi secoli, superare la compattezza speculativa dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, e arrivare al pensiero politico e morale di Niccolò Machiavelli. Al centro degli interessi speculativi del segretario fiorentino vi era l’idea secondo cui la virtù e l’azione politica sono due fattori determinanti per l’uomo, a tal punto da determinarne le coordinate del suo agire morale. In Machiavelli, la relazione tra la virtù del singolo e la condotta virtuosa che si esplica nella sfera della politica sono aspetti complementari; viceversa, la mancata coincidenza fra i due lati dell’equivalenza genererà un deficit di formazione nella realizzazione della virtus tanto al livello individuale quanto collettivo (politico-civile).
La novitas rispetto al passato è evidentissima, poiché d’ora in avanti la realizzazione della condotta virtuosa è un atto che interessa il singolo nella misura in cui esso compie un qualcosa che giovando alla comunità politica di appartenenza gli consente di conservarsi al potere (realizzandosi nel proprio sé). Ben si spiega, dunque, perché in Machiavelli la comprensione dell’effettività è destinata ad assumere un valore nuovo. Per il pensatore fiorentino, cercare di capire quali sono i movimenti sotterranei che rendono apparentemente imprevedibile il formalizzarsi dell’effettività politica, civile, militare, significa attribuire per la prima volta nella storia del pensiero occidentale una centralità ontologica alla dimensione dell’effettività pratica e al campo dell’esperienza nella sua globalità. Difatti, se è vero che anche per Machiavelli la virtù è sinonimo dell’autorealizzazione e dell’eccellenza prestazionale del soggetto agente, da ciò non segue affatto che l’individuo che agisce debba muoversi necessariamente in un orizzonte già predeterminato da una causa che gli è esterna (la fede, la natura umana in termini di atto e potenza). Con Machiavelli, la virtù diviene la capacità di costruire uno stato ma è anche l’attitudine a saperlo mantenere senza cadere preda dei vizi, degli eccessi e della crudeltà. Infatti, al di là dell’effettività umana, quale fonte primaria di ispirazione in grado di determinare la realizzazione della virtù, sopravvive solamente la fortuna che può comunque essere arginata nei limiti e nelle capacità dimostrate dagli uomini. Nel merito del presente lavoro, se si prova a leggere la frase di Paolo da Certaldo alla luce del pensiero di Machiavelli, è possibile vedere come l’idea dell’essere servo della virtù, pur nella sua immediatezza e pragmaticità, assume un significato totalmente diverso rispetto a quello attribuitogli nel mondo greco-romano prima e in quello cristiano poi. Machiavelli era un precursore del modo di pensare proprio della modernità e per questa ragione concepì il dispiegarsi dell’azione virtuosa nella vita degli uomini come il perseguimento di un agire ispirato dal raggiungimento di un risultato politicamente valido, pragmaticamente efficace e possibilmente duraturo nel tempo. Per il segretario fiorentino il non dover eccedere nel vizio era il risultato derivante da una serie di operazioni intellettuali che avevano a che fare con la conoscenza e la scaltrezza politica e non con il semplice fervore devozionale, così come la virtù nel suo dispiegarsi non era semplice condizione sottostante alla vita degli uomini ma manifestazione in atto dell’effettiva maturità intellettuale e morale dell’individuo. Per tutte queste ragioni è possibile sostenere che è con Machiavelli che si compie effettivamente il rovesciamento tra effettività e riflessività nella concezione dell’agire morale. Nella sua opera più celebre, Il Principe, nel momento in cui la dimensione ontologica della vulnerabilità umana acquista valore divenendo una fonte di conoscenza a tutti gli effetti che consente al sovrano di affinare le armi dell’astuzia e della ragione in vista della realizzazione di uno spazio politico ben definito e stabile, l’ἀρετή si trasforma ma non muore. Molto più prosaicamente la capacità prestazionale dell’individuo di realizzarsi resta e l’idea dell’esser servi della virtù amplia il suo orizzonte di applicabilità. D’ora in avanti, essere virtuosi vuol dire essere anche astuti e sapersi districare tra le innumerevoli nefandezze dell’esistenza umana. D’altronde, soltanto nella modernità diviene possibile essere egoisticamente portatori di un interesse, che può assumere anche rilevanza collettiva, senza essere schiavi del vizio. Prova di tutto ciò è la rivalutazione che la coscienza moderna ha fatto del lavoro riconoscendo in esso un valore sociale pressoché universale che consente all’individuo di poter accumulare ricchezza e dedicarsi agli affari privati senza il timore di subire alcuno stigma sociale. Ora, alla luce di questo breve excursus storico che ha chiarito alcune delle tappe principali del processo di formazione del concetto di virtù nel pensiero filosofico occidentale, si procederà con l’affrontare la seconda questione oggetto del presente saggio, ossia cercare di capire in che modo oggi l’idea di un’etica della virtù possa essere ancora profondamente legata alla definizione della sfera della riflessività morale.
Nel corso del XX° secolo, la centralità ontologica dell’effettività nel dibattito filosofico ha prodotto diverse dottrine etiche che hanno reinterpretato il concetto di virtù in relazione al valore della cura e della realizzazione di una esistenza all’insegna della compartecipazione nel mondo, a partire da una fenomenologia della condivisione incentrata sul costruzionismo e sull’idea che il modo di pensare degli individui sia profondamente influenzato dal linguaggio che essi adoperano, quale espressione primaria della comunità di appartenenza. In quest’ottica, è già possibile osservare come il termine virtù non appaia affatto svuotato di senso, bensì venga declinato in termini universalistici e non più individualistici. Per chiarire meglio il concetto, si potrebbe dire che nella riflessione etica contemporanea la virtù è diventata uno strumento della ragione piuttosto che uno stato dell’anima. Nello specifico, ogni volta che la coscienza pratica ha necessità di definire la portata di un’azione o di un comportamento, può ricorrere al concetto di virtù per richiamare a sé la dimensione processuale dell’agire sociale. Tutto ciò consente alla riflessione etica contemporanea di riconoscere la matrice generativa del gesto virtuoso anche in presenza di molteplici ostacoli che ne sfumano eccessivamente i contorni. Ed è proprio sotto questo aspetto che la direzionalità della virtù può avere ancora un suo significato nell’orientamento dell’azione morale; se, infatti, l’effettività è il centro da cui si sviluppano le questioni riguardanti l’agire morale, la riflessività diviene ora la riproposizione di questa effettività che ha imparato a riconoscere il mutevole e l’accidentale presente nell’effettività come un rimandare a sé attraverso l’altro da sé (il diverso, lo straniero, il nemico sono in questo modo normalizzati e umanizzati nuovamente). Nel tempo attuale la virtù ha assunto sempre più le sembianze di un bisogno in grado di aiutare la coscienza pratica a preservare l’esserci dall’oblio morale, costituendosi come un’esperienza resistenziale della ragion pratica. I greci usavano la parola merimna per definire l’atto attraverso il quale ci si prende cura di qualcosa, assumendosene la responsabilità, e noi oggi possiamo adoperare la stessa parola per riferirci alla virtù come a quel modo di riflettere sul nostro essere nel mondo che è in grado di rivitalizzare l’analisi fenomenologica della responsabilità dell’agire individuale e collettivo. Affermare, infatti, che le pratiche di cura sono ispirate da posture virtuose significa sostanzialmente essere in grado rilevarne l’essenziale eticità, poiché, come suggerisce la filosofia antica, laddove si agisce secondo virtù si agisce in vista del bene. In conclusione, si può osservare come anche oggi nel tempo attuale sia impossibile estromettere in maniera definitiva la virtù dal discorso morale. Persino l’utilitarismo edonistico non riesce a risolvere dall’interno le questioni relative all’incongruenza del calcolo edonistico in termini di perfetta perequazione di benessere atteso rispetto al male scongiurato. Se private di un concetto funzionale com’è quello della virtù, anche le dottrine etiche che poggiano su basi utilitaristiche devono ricorrere alla suddivisione dei criteri di giustizia e di merito nella misura in cui le diverse azioni morali interessano ambiti dell’esistenza umana piò o meno vasti. Quindi, per quanto l’idea della virtù come unità di misura morale sia oggi totalmente inefficace a risolvere i problemi dell’umanità, le sue potenzialità euristiche restano indubbie dal momento che il concetto di azione virtuosa si presenta come un prodotto ibrido della ragion pratica in grado di unire il piano dell’astratta formulazione della giustizia (corrispondente al livello più semplice e circostanziato della riflessività) con il piano dell’effettività dell’azione. Nella contemporaneità, è l’agire del soggetto morale che porta con sé il peso della decisione, a richiamare l’idea della sottomissione volontaria alla virtù, attualizzandone tuttavia la portata ai valori della civiltà liberale e democratica. In altri termini, nel mondo contemporaneo è nella realizzazione dell’uguaglianza civile, sociale e politica che la necessità pratica della virtù, nella sua funzione euristica, si manifesta e può agire, concretizzandosi come virtù eroica che resiste agli assalti dell’edonismo utilitaristico e della de regolarizzazione selvaggia dei diritti umani. Per questa ragione, difficilmente la riflessione morale può permettersi di rinunciare a cuor leggero alla ricchezza di indicazioni e di percorsi offerti ancora oggi dal ‘sentire’ virtuoso. Paradossalmente, è possibile affermare che nel nostro tempo essere virtuosi significa essere consapevoli del fatto che la peggiore forma di vizio che assale le società liberal-democratiche è proprio l’incapacità di saper riconoscere nella virtù quell’insieme di comportamenti attraverso i quali è possibile portare a compimento la stabilizzazione meritocratica dello spazio civile impedendo all’ingiustizia di prosperare indisturbata.
29 dicembre 2023