Narciso attraverso i secoli: da Ovidio alla crisi delle democrazie contemporanee

 

La figura di Narciso ha ispirato innumerevoli artisti e pensatori, in una moltitudine di campi differenti, per oltre due millenni. Ancora oggi, nel ventunesimo secolo, il mito ci porta a riflettere su noi stessi e sulla società di cui siamo parte.

 

di Tommaso Contò

 

 

« Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,

mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde. »

(Ovidio, Metamorfosi, libro III)

 

Il mito di Narciso ha attraversato i secoli, ha conosciuto una moltitudine di versioni e reinterpretazioni, ed è giunto sino a noi, ancora pregno di significati e insegnamenti, per l’uomo antico così come per quello contemporaneo. Si tratta di un mito archetipico, radicato profondamente nella nostra cultura. Toccando questioni fondamentali della vita interiore dell’uomo trascende la specificità delle epoche storiche, facendosi carico di un fascino atemporale e universale.

 

La versione più celebre del mito è stata narrata da Ovidio, nel terzo libro de Le Metamorfosi. Il poeta romano racconta di un giovane di inenarrabile bellezza, figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope, sulla cui esistenza grava il criptico vaticinio dell’indovino Tiresia: il giovane vivrà a lungo «se non conoscerà se stesso». Narciso, oltre che bello, è superbo e orgoglioso, al punto di respingere ognuno degli innumerevoli giovani e delle molte fanciulle che s’invaghiscono di lui. Tra queste c’è la ninfa Eco, che «non sa tacere se parli, ma nemmeno sa parlare per prima»[1]. Eco rimane rapita dalla bellezza di Narciso, lo segue e lo avvicina. Tenta di gettargli le braccia al collo per stringerlo a sé, ma lui la respinge e fugge. Sola e umiliata, la ninfa si ritira nei boschi e si lascia morire di stenti: di lei non rimane che la voce.

Gli dèi, adirati per l’insensibilità del giovane, decidono di punirlo. Ad infliggere a Narciso la sua pena è Nemesi, personificazione della vendetta; per mano della dea si compirà la predizione di Tiresia. Il ragazzo, assetato e stanco dalla caccia, viene attratto da una fonte, le cui acque limpide e argentee gli restituiscono il suo riflesso. Egli non si riconosce, ma sente nascere in lui un’attrazione ardente per il giovane che gli sta innanzi. Soltanto un velo d’acqua lo separa dall’oggetto del suo desiderio, eppure è irraggiungibile. La bramosia lo dilania, lo ammorba, lo spinge al delirio. Seguita nel suo disperare fino a che, consumato dall’amore, Narciso muore. Ovidio narra che, anche arrivato agli Inferi, il giovane non smetterà mai di contemplarsi nelle acque dello Stige. Accanto alla fonte nessuno troverà il suo corpo: al suo posto sboccia un fiore, giallo nel mezzo e circondato di petali bianchi, reclinato su se stesso, quasi a volersi rimirare.

 

La figura di Narciso ha ispirato e influenzato artisti come Caravaggio, Turner, Waterhouse e Dalì; ne scorgiamo i tratti essenziali nel Dorian Grey di Wilde, o in Jakov Petrovic Goljadkin ne “Il Sosia” di Dostoevskij. Edgar Allan Poe, Giovanni Pascoli, Herman Hesse sono altri tra i molti che hanno omaggiato e fatto rivivere il mito nelle loro opere. In uno dei suoi più celebri sonetti, Shakespeare affronta il tema della mortalità umana, contrapposta all’arte, potenzialmente eterna e immortale[2]. Adottato dagli artisti di ogni epoca, Narciso assurge all’immortalità. La sua bellezza, così come la sua superbia e il suo dolore, si fanno eterni. La sua tragedia diviene un monito senza tempo, per le generazioni passate e per quelle che verranno.

 

Anche la psicologia ha fatto proprio il mito, descrivendo come vanità e auto-ammirazione possano diventare un tratto patologico. Quando l’amor proprio eccede e si trasforma in un irragionevole egocentrismo, si ha una distorsione del senso di sé, che incide sulle relazioni stabilite con il mondo esterno: come Narciso non riconosce se stesso nell’immagine riflessa nell’acqua, così il narcisista ha una percezione irreale di sé che non risponde a realtà. Freud parla del narcisismo come di uno stadio dello sviluppo in cui la libido è concentrata sul proprio Io, e se questo stadio non viene superato si manifesta un disturbo della personalità.

Oltre che come tratto individuale della personalità, il narcisismo ha assunto interesse come tratto collettivo: emerge una nuova categoria antropologica che, secondo alcuni sociologi, ha ridefinito la sfera pubblica degli ultimi decenni. Il primo ad approcciare questo tema è Cristopher Lasch, che, nel 1979, pubblica La cultura del narcisismo. Inteso come categoria interpretativa delle società contemporanee, il narcisismo può essere descritto come un individualismo stanco e senile, tipico delle società in decadenza. L’amore che il narcisista prova per sé è privo di qualsiasi slancio attivo volto all’esterno: l’individuo si ripiega su se stesso e percepisce il mondo solo in funzione di quello che questo può dargli, e non di cosa egli può offrire al mondo. Ciò che preoccupa maggiormente di fronte all’avvento di un siffatto uomo sono le ripercussioni sulla vita pubblica e politica, e sulla tenuta della democrazia stessa.

 

Già Tocqueville, quasi duecento anni fa, ci avvertiva che la promessa di massima felicità e autonomia insita nel concetto di democrazia, e la pretesa che questa promessa venga mantenuta, sottopone il sistema democratico a tensioni insostenibili, finendo per delegittimarlo quando la disillusione si palesa. Nel momento in cui l’attore principale della sfera pubblica diviene il narcisista, incapace per definizione di limitare le proprie pretese e costantemente impegnato nella ricerca di un benessere esclusivamente autoriferito, capiamo come la problematicità individuata da Tocqueville risulti particolarmente allarmante.

 

Giovanni Orsina, ne La democrazia del narcisismo (2018), riporta questa problematica alla specificità del caso italiano, analizzando attraverso la categoria del narcisista le crisi politiche e culturali che hanno attraversato il paese nel Sessantotto e nel biennio 1992-1993 (in seguito allo scandalo di Tangentopoli). L’uomo moderno – il narcisista – perde i punti di riferimento, crede fermamente nelle sue infondate opinioni, non conosce limiti alla propria autodeterminazione e vede il potere a cui è assoggettato come una costrizione priva di senso. Un uomo cosiffatto disintegra l’essenza della politica: la classe dirigente perde potere concedendo sempre più libertà alla massa, «è vietato vietare»; si dissolvono le identità forti per lasciare spazio agli individualismi; si dissolve il tempo, si vive solo nel momento e qualsiasi prospettiva storica perde di senso; e infine anche il conflitto viene meno, in una babele di identità indefinite che non sono in grado di confrontarsi. Tutti questi elementi costringono la politica a trasformarsi nel suo contrario: un’antipolitica che mira da un lato ad assecondare e dall’altro ad arginare le richieste irragionevoli degli elettori, senza mai veramente riuscirci. Alla classe dirigente non resta altro che promettere, e poi, nel momento in cui le promesse vengono disattese, ricoprire l’unico ruolo che ancora le è permesso: il capro espiatorio.

Orsina conclude il suo libro interrogandosi sulle modalità per impedire che l’emancipazione individuale generi il narcisismo, rendendo l’attività politica impraticabile, ma rimane dubbioso sull’attuabilità di tale proposito. L’autore auspica una «reazione di senso comune» ad opera di coloro che ancora conservano un «patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza, moralità». Se così non sarà, arriverà il giorno in cui saremo talmente presi da noi stessi da perire consumati nel nostro egoistico amore, e l’ultimo uomo vedrà di fronte a sé soltanto una distesa di fiori bianchi, elegantemente ripiegati su loro stessi, che sembrano rimirarsi con compiacenza.

La figura di Narciso ha vissuto secoli, millenni, ed è arrivata a noi consegnandoci una verità attuale. Il bel giovane del mito ancora oggi ci parla chiaramente, enunciando al tempo stesso un monito e un’esortazione: un amore smisurato, indirizzato esclusivamente verso il sé e mai verso l’altro, è nocivo; l’individualismo, che portato alle sue estreme conseguenze diviene bieco egoismo, è un male; vivere la propria vita in modo esclusivamente autoreferenziale è infruttuoso, dannoso. Non è soltanto la vanità riferita all’aspetto esteriore quella da cui il mito ci mette in guardia: in tutte le sfere della vita, nel nostro essere singoli come nella collettività, è necessaria una tensione verso l’esterno, che si stacchi dall’Io per abbracciare il Tutto circostante.

 

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[1] Eco era stata vittima della collera di Giunone, che l’aveva condannata a poter soltanto ripetere le parole udite da altri.

[2] «When in eternal lines to time thou grow'st, // So long as men can breathe, or eyes can see, // So long lives this, and this gives life to thee. » [Quando in eterni versi nel tempo tu crescerai, // Finché uomini respireranno o occhi potran vedere, // Queste parole vivranno, e daranno vita a te.] (W. Shakespeare, sonetto XVIII

 

15 giugno 2023

 




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