La lettura che si pensa

 

Probabilmente ciò che sto per dire è ridicolo, eppure confesso di sognare un mondo nel quale la lettura si fa respiro, un movimento naturale della nostra mente ed un incontentabile desiderio dell’anima, stanca della ripetizione quotidiana del gesto che, mosso da uno sguardo assente, si sottrae dal significato. Perché  vorrei chiedere all’uomo in camicia e cravatta  ogni mattino ti svegli per dirigerti in ufficio, se il tuo lavoro s’è fatto grigio e scrostato dal senso come le pareti del magazzino destinato a raccogliere cataste di raccoglitori di carta inutilizzabile? Ed è giusto che, una volta tornato a casa, annoiato dalla TV ti rivolgerai alla letteratura al solo fine di "distrarre" la mente dal pensiero fisso di calcoli e banconote impenetrabili? La lettura è soltanto un’oasi in cui rifugiarsi per qualche ora, oppure c’è dell’altro?

 

 

Laura Pugno in un suo scritto che, come un saggio, si propone di illuminare per mezzo della riflessione, ma pur conservando la forma interstiziale di una poesia, pone un’importante questione riguardante la direzione a cui si sta indirizzando la letteratura. In territorio selvaggio (2018) ha caro il destino della narrativa, domandandosi se essa va concepita come un mero antidoto contro la noia o se «è ancora forma di conoscenza», quella conoscenza «che avviene attraverso il perdersi, e poi ritrovare, trasformati, la strada». La letteratura è un quieto spazio verde, sottoposto costantemente alla sorveglianza umana o, al contrario, è un bosco, un tratto di terra dai confini sfrangiati, ancora inesplorato e dunque non ancora domato? 

 

La stessa domanda, che non si preoccupa affatto di riflettere un misto d’angoscia e di speranza, pulsa nelle pagine interrotte del celebre romanzo di Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, nel quale la lettura di una donna, il cui unico proposito è quello di «spogliarsi d’ogni intenzione e d’ogni partito preso, per essere pronta a cogliere la voce che di sentire quando meno ci s’aspetta», si contrappone al perverso desiderio di mistificazione di un traduttore disilluso secondo cui «dietro la pagina scritta c’è il nulla». La Lettura che è la vera protagonista di questo capolavoro è costantemente interrogata dai personaggi e dalla voce sempre presente del narratore che non si traveste, ma si fa nuda proprio come accade nei romanzi sperimentali promossi dai collaboratori della rivista francese Tel Quel. Guardando la Lettrice dal suo chalet, Silas Flannery, un romanziere in crisi, sente la necessità di «scrivere dal vero» ossia «scrivere non lei ma la sua lettura». Ma che cosa c’è da scrivere della lettura? Ed essa può essere "scritta"? Scrivere la lettura significa immortalare il suo immenso valore, preservandolo dai pericoli di un tempo in cui non si legge più con quell’arte della lentezza da Nietzsche inneggiata nel finale di Aurora. Infatti, nel cuore di un’epoca del "Lavoro", «voglio dire: della fretta, dell’indecente sudaticcia precipitazione, che vuoi "sbrigartela" subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro» la filologia, discepola della lentezza, insegna a leggere bene cioè «lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati». E allora l’inquietudine di Laura Pugno ritorna concretizzandosi nella metafora che, se messa in opera, si fa una domanda: «Esiste un’esperienza del giardino che abbia in sé il bosco? Che comprenda il bosco, che ci riporti al bosco?». Ovvero la lettura, oltre ad una grande oasi di quiete, può essere concepita come un pericoloso intreccio di sentieri nei quali "perdersi" significa andare oltre i confini sicuri di ciò che già si sa o si sa poco? Per quanto il Lettore calviniano abbia all’inizio deciso di seguire il consiglio del narratore, distendendo le gambe sul suo comodo tavolino isolandosi dal resto per non interrompere la sua lettura, per necessità e vicissitudini estrinseche ha dovuto abbandonare la sua dimora per inseguire l’oggetto del suo amore (φιλο-): il Libro ideale (σοφία).

 

 

Ridursi a concepire la lettura come un qualunquistico momento di pace rassicurante, uno dei molteplici Eden inventati dall’uomo per evitare di essere inghiottito dai rulli rumorosi di una macchina da lavoro, vuol dire edificare un muro che si estende tra la vita e la lettura, tra il lavoro e il tempo libero o ancora tra l’attività e la passività. Al contrario, evitando questo approccio borghese alla vita e al tempo, bisogna ricominciare a considerare la lettura come una delle modalità del vivere, un circolo dove vivere diventa leggere e leggere diventa vivere. È vero che, come vuole Eco, in un celebre pensiero diventato una massima nota e diffusa, non ci rendiamo conto del fatto che «la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime». Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che siamo debitori alla letteratura anche per un’altra ragione più intrinseca, più "identitaria" come ci ricorda Marcel Proust nel Tempo ritrovato«Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso». Ed è proprio qui che si colloca la riflessione ricœuriana sulla Funzione dell’ermeneutica della distanziazione, inserita nel saggio pubblicato per la prima volta nel 1986, Dal testo all’azione. Ad interessarci particolarmente, seguendo questo filo conduttore, è il V tema introdotto per risolvere l’aporia concernente l’ermeneutica così come l’avevano intesa Schleiermacher, Dilthey e poi Heidegger e Gadamer, identificato da Paul Ricœur sotto il titolo di: Comprendersi davanti all’opera. Tale tema segna l’entrata in scena della soggettività del lettore nella dialettica che pone da una parte la distanziazione alienante (Verfremdung) e dall’altra l’appartenenza (Zugehörigkeit), ovvero i due movimenti inevitabili dell’interpretare – nel nostro caso specifico della lettura – di un testo. Per quanto la scrittura rappresenti la distanziazione, vale a dire l’oggettività, dell’opera strutturata è inevitabile quel contrassalto dato dall’appropriazione che diviene «comprensione in virtù della distanza, comprensione a distanza». Non avendo più nessuno dei caratteri di "affinità affettiva" con l’intenzione di un autore, difatti il racconto, una volta strutturato in un’opera, diviene autonomo, cioè capace di decontestualizzarsi per poi ricontestualizzarsi in un’altra situazione dettata, appunto, dall’atto di lettura. Non appartenendo più al mondo limitato della psiche del suo autore, l’opera permette al lettore di conoscersi leggendo. Contrariamente alla tradizione del Cogito e alla "pretesa del soggetto" di conoscere sé stesso attraverso un’"intuizione immediata", è necessario dire che noi ci comprendiamo per mezzo dei segni d’umanità lasciati nelle opere di cultura. «Cosa conosceremmo dell’amore e dell’odio, dei sentimenti etici e, in generale, di tutto ciò che chiamiamo l’io, se tutto ciò non fosse stato portato a parole e articolato attraverso la letteratura?». Ebbene ciò di cui il lettore si appropria è, scrive Ricœur, «di una proposizione del mondo» che l’opera dispiega, scopre, rivela. Comprendere è comprendersi davanti all’opera, ma potremmo anche dire che comprendersi significa comprendere, ossia leggere sé stessi per leggere i segni che stanno sul confine tra il sé e gli usi e i costumi, la memoria di una cultura. Comprendere un testo, inoltre, non va più inteso come la caccia e poi il ritrovamento di un senso inerte disposto da qualche parte nel suo corpo, ma come il dispiegamento della possibilità d’essere suggerita dal testo. Attraverso l’opera ci confrontiamo con una nuova possibilità d’essere che non avremmo modo di conoscere altrove.

 

C. Monet, "Donna che legge"
C. Monet, "Donna che legge"

 

L’opera culturale rivela e trasforma i suoi lettori, facendo luce su quella che il filosofo francese chiama «identità narrativa». La lettura diviene dunque "vitale", un mezzo grazie a cui possiamo dispiegare le nostre identità che dalla pura potenzialità passano all’attualità: c’è sempre una risposta al "chi?". Io sono una Lettrice, direbbe Ludmilla, la protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore, rivendicando questo suo ruolo sociale in cui un intellettuale come Calvino credeva. La speranza di una lettura incontaminata dalla fretta e delle mode sempre più stagnanti che tentano vanamente di versare l’intreccio del testo in una teglia dalla forma preimpostata, culmina nella saggezza del direttore generale degli archivi di Stato che dice: «Finché so che c’è una donna che ama la lettura per la lettura, posso convincermi che il mondo continua». La letteratura è molto più che un giardino, essa è una chiamata alla quale ci si sente costantemente sollecitati, come Pablo Neruda suggerisce nella prima strofa della sua poesia La poesia, una poesia sulla poesia proprio come il romanzo di Calvino, un romanzo sul romanzo:

 

« E fu a quell’età… Venne la poesia

a cercarmi. Non so, non so da dove

uscì, da quale inverno o da fiume.

Non so come né quando,

no non erano voci, non erano

parole, né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

d’improvviso tra gli altri,

tra fuochi violenti

o ritornando solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

[…] »

 

Questa chiamata che è pura tensione non va ignorata, andrebbe al contrario accolta nel migliore dei modi: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino» dunque «Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero…» 

 

22 marzo 2023

 









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