Una perdita di tempo

 

Oramai, nella nostra quotidianità, la riflessione filosofica appare ridondante oltreché futile, poiché la domanda che subito ci sovviene è "Perché mai l'uomo dovrebbe ancora perder tempo a pensare, in un mondo in cui tutto ci è già dato?". Ma siamo davvero sicuri che l'individuo senza la sua attività di pensiero abbia ancora la capacità di vivere autenticamente il proprio tempo, nella nostra condizione di gettatezza?

Oppure l'unica cosa che si sta perdendo non è il tempo per pensare ma l'uomo stesso?

 

 

Quante volte abbiamo pensato o sentito dire che la riflessione filosofica è una perdita di tempo e che magari potremmo sfruttare i momenti a nostra disposizione per qualcosa di “più utile”.

Al giorno d’oggi l'atto di pensare è stato declassato, se non anche eliminato, da quelle che definiamo attività utili per la nostra vita di tutti i giorni.

 

In media durante il giorno un individuo dedica un infimo, se non del tutto assente, attimo di tempo per riflettere profondamente su ciò che accade nella propria quotidianità, spesso sfruttando i cosiddetti momenti morti, dove non avendo la possibilità di adoperarsi in occupazioni più produttive, si ritrova a riflettere su ciò che lo circonda ma soprattutto al perché di alcuni accadimenti della propria vita.

Da queste brevi finestre esistenziali, si aprono scenari a noi sconosciuti, che puntualmente chiudiamo drasticamente reimmergendoci nel vortice delle nostre occupazioni giornaliere. 

 

Fermarsi a pensare o addirittura, dedicare pomeriggi alla riflessione filosofica appare quasi un’eresia, ed è guardata dai più come un qualcosa di estremamente bizzarro nonché scandaloso. Ma come mai siamo potuti arrivare a questo punto? Già Blaise Pascal, nella seconda metà del Settecento, parlava del cosiddetto divertissement, ovvero tutto quell’insieme di occupazioni in cui l’individuo si cimenta nel tentativo di nascondere a sé stesso quel senso di angoscia esistenziale, che è ingenerato da una profonda riflessione filosofica.

 

«Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali» (B. Pascal, Pensieri, 1670)

 

Questo comportamento simile al falso mito della testa di struzzo sotto la sabbia è purtroppo estremamente comune nella società contemporanea, dove forse il porsi domande disvelerebbe ai nostri occhi qualcosa di ben più terrificante di ciò che c’era nella società settecentesca di Pascal.

 

La figura dell’uomo che si siede a riflettere sulla propria esistenza o sui perché della propria vita, si mostra ormai tanto bizzarra quanto anacronistica, poiché, quello di filosofare sulla vita, ci appare come un atto pretenzioso in un universo di dati statistici e di performatività, dove bastano pochi tocchi su uno schermo per trovare pace ad ogni nostra domanda, facendoci risparmiare “tempo prezioso”.

 

Illustrazione di S. Cutts
Illustrazione di S. Cutts

 

Ma forse non ci siamo mai davvero chiesti dove scorra questo nostro tempo, mentre noi siamo talmente oberati da non poter neppure pensare cosa siamo davvero. Siamo ormai radicalmente abituati ad intendere il tempo in una chiave quantitativa, pensando per esempio a quanto tempo abbiamo a disposizione, senza mai chiederci come sia il tempo che viviamo ogni secondo.

Se ci soffermiamo a riflettere su cosa effettivamente conferisca un senso al tempo, ci appare chiaro come non sia la quantità di azioni che compiamo a dare un determinato significato, ma sia in verità la nostra modalità dell’essere nel tempo. Martin Heidegger definiva il tempo come “modalità dell'esserci dell'essere”, e rappresenta il modo in cui l’individuo conosce e sceglie di esistere nel mondo.

 

« L'esserci è sempre in una modalità del suo possibile essere temporale. L'esserci è il tempo, il tempo è temporale. L'esserci non è il tempo, ma la temporalità ». (M. Heidegger, Essere e Tempo, 1927)

 

La capacità con la quale l’uomo determina sé stesso nella propria temporalità è dunque, per forza di cose, la sua capacità di interpretare e vivere la cosiddetta condizione esistenziale scaturita da un pensare filosofico imprescindibile dalla natura umana. In tale chiave di lettura il recupero di un’etica esistenzialista, basata su un’autentica comprensione del concetto di “tempo della quotidianità”, in relazione alla più grande certezza della nostra vita, ovvero la morte, avrebbe probabilmente una tale prorompenza da ridestarci da questo perenne sonnambulismo. L'atto di pensare in questo caso assume una valenza totalmente differente da quella che gli viene conferita nella nostra epoca, e ciò mettere in discussione le fondamenta stesse del nostro modo di concepire il tempo.

 

A questo punto forse dovremmo pensarci due volte prima di etichettare il tempo dedicato alla riflessione come tempo perso, poiché molto probabilmente stiamo invece smarrendo noi stessi a discapito di un’etica della performatività, che ci spinge a quantificare anche l’intrinseco significato della nostra esistenza. Infatti, a causa di una retorica di ottimizzazione del tempo, ci siamo abituati ad utilizzare il tempo dimenticandoci di viverlo e quindi a dargli un peso ed un significato all’interno della nostra vita.

Forse riscoprire la bellezza di “perdere tempo” naufragando in un filosofare interiore, può rappresentare davvero una salvezza da un futuro distopico, in cui saremo sovrastati dal dogma della produttività ed immersi nel Taylorismo della nostra catena di montaggio, chiamata vita.

 

25 settembre 2023

 









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