Lo scandalo dell'attualismo

 

La teoresi di Gentile è dimenticata. Ugo Spirito la problematizzò; poi Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino se ne servirono per rilanciare spazi metafisici ormai obsoleti nella filosofia contemporanea. Tutti gli altri la gettarono nell'arena politica, travisandola o banalizzandola. Dopo i filosofi lombardi, possiamo trovare un'altra via per portare "Gentile oltre Gentile"?

P. Mondrian, "Mill with extended blue, yellow and purple sky"
P. Mondrian, "Mill with extended blue, yellow and purple sky"

 

Nel leggere di uno ‘scandalo’ che coinvolge il filosofo Giovanni Gentile si immagina subito un viaggio nelle sue vicende biografiche. La biografia e la filosofia si intrecciano, certo, ma vogliamo prendere in considerazione un’idea che appartiene a Gentile sin dal suo ingresso nell’universo filosofico del primo Novecento italiano, almeno una decina d’anni prima della Marcia su Roma. Perciò siamo sicuri che quel successivo intreccio politico-sociale, che purtroppo è stato messo in primo piano, o, peggio, che è stato immaginato come l’unico piano di incontro con l’attualismo, abbia poco a che vedere con il problema che affrontiamo. Già Bontadini e Severino, stufi dell’accostamento al fascismo, si sono premurati di considerare la speculazione gentiliana in tutta la sua portata; per rendere fertile un dialogo filosofico che ha sicuramente di meglio da offrire rispetto al classico intrattenimento politico, che si rivela, da ultimo, la solita occasione polemica sull’attualità. 

 

Vorremmo dunque seguirlo per altri lidi, decidendo di portare in luce quello che, secondo noi, è il vero scandalo della filosofia di Giovanni Gentile. E forse si tratta di un polverone che lui stesso, in cuor suo, avrebbe desiderato sollevare. Il suo tallone d’Achille sono forse state le tante accuse di misticismo. Credo che chiunque, incontrandolo, almeno per un momento abbia storto il naso: insomma, ci vuole parlare di qualcosa di cui dice non potersi parlare. Possiamo allora immaginare quali difficoltà ne derivino. E tuttavia rimane il punto su cui insiste più a lungo, e su cui non transige. Forse alcune tormentate pagine nelle quali cerca di divincolarsi dalla ‘vecchia logica’ testimoniano una ricerca che alle volte si fa confusa. Sembra che non sempre sappia che direzione dare a quell’intuizione giovanile che è l’atto puro. Forti di questa suggestione, avanziamo la nostra interpretazione dell’attualismo.

 

1. L'ATTO PURO

 

Cardine della filosofia di Gentile è il concetto di atto puro. L’atto puro è indicato anche come ‘pensiero in atto’ o ‘pensante’, ‘trascendentale’, ‘logo concreto’: perciò sappiamo valere questi termini come sinonimi, e non avremo difficoltà nell’incontrarli più avanti.

Ora, desiderio primario dell’attualismo è porre in rilievo l’importanza di questo atto, che individua nel modo che segue. Immaginiamo: quando un individuo pensa a se stesso, si dice che si ‘oggettiva’, cioè fa di se stesso un oggetto da esaminare – si guarda, per certi versi, ‘da fuori’. Egli si vede, per esempio, determinato nelle forme del proprio corpo; guarda, ed elenca mentalmente, le proprie qualità e i propri difetti; oppure il proprio passato e le proprie possibilità future. Eppure, intuisce Gentile, è soltanto uno dei modi d’essere del soggetto. Il soggetto, preso per intero, è piuttosto «soggetto e oggetto insieme» (Gentile, La filosofia dell’arte). È l’osservato (oggetto) e contemporaneamente l’osservatore (soggetto). Perciò nessun elenco, per sterminato che sia, racchiuderà mai la pienezza di una persona. 

Possiamo usare anche la metafora della fotografia: qualcosa sfugge sempre alla fotografia che ciascuno scatta a se stesso; perché il soggetto immortalato è, allo stesso tempo, anche colui che scatta la fotografia. Non si può fotografare il fotografo. 

Gentile usa lo specchio: « Così l’uomo si vede nello specchio, che vede in sé; e pure vede nella propria immagine quegli occhi con cui guarda la propria immagine. » (ivi)

Allora, in prima battuta, Gentile comincia a distinguere questi due lati: se l’uomo, ricordiamo, è «soggetto e oggetto insieme», chiama la ‘capacità’ di essere soggetto atto puro, o Io trascendentale e la capacità di essere oggetto contenuto del pensiero, o Io empirico. Perciò il lato trascendentale del soggetto non può mai diventare un empirico, non può mai essere un ‘pensato’ perché altrimenti verrebbe meno colui che ‘pensa’. 

 

2. FUORI CATEGORIA

 

L’atto è la condizione affinché si possa esprimere un fatto. Il trascendentale è condizione dell’empirico. Perché? Allarghiamo l’esempio del paragrafo precedente. Abbiamo considerato la persona che si osserva ‘da fuori’, e capito che la capacità di farlo presuppone un ‘dentro’. Allora anche gli esseri del mondo, che il soggetto incontra, possono essere esaminati ‘da fuori’, e così appaiono in prima battuta. Tutte le volte che ci rappresentiamo qualcosa lo rendiamo oggetto d’esame, un contenuto di pensiero, e siamo perciò nel dominio dell’empirico. Ma affinché qualcosa – qualsiasi cosa – possa essere rappresentata, pensata, si suppone colui che rappresenta, un atto di pensiero che informa e osserva il contenuto. Il trascendentale è così la condizione di possibilità dell’empirico: ogni empirico, in quanto oggetto osservato, evoca un trascendentale, un osservatore. Il soggetto esiste perché esiste la differenza tra trascendentale ed empirico. Se il trascendentale fosse in perfetta equazione con l’empirico, sarebbe anch’esso empirico: non ci sarebbe soggetto.

 

L’atto non può essere ‘oggettivato’: non soggiace ad alcuna categoria, perché le categorie sono gli insiemi e i sottoinsiemi costanti all’interno dei quali classifichiamo, per forza di cose, gli oggetti delle nostre rappresentazioni, l'empirico

 

3. ATTO E PENSIERO

 

Le categorie, abbiamo detto, sono gli insiemi e i sottoinsiemi sotto i quali classifichiamo le esperienze. Contrariamente ad altri tipi di ‘insiemi’ più liberi, le categorie logiche costituiscono un percorso obbligato. Come se fossero i punti cardinali del pensiero che non possiamo aggirare a piacimento: se anche trascurassimo di riflettere sulla categoria di causa, ce ne serviremmo comunque per orientarci nel mondo. 

Esse sono analitiche e sintetiche allo stesso tempo. Sintetiche perché scorgono relazioni fra diverse rappresentazioni, fra diversi oggetti, e analitiche perché distinguono dei tipi di relazioni da altri tipi di relazioni. Il pensiero, che muove attraverso le sue categorie, individua relazioni fra i diversi; è capace di accogliere le relazioni che il molteplice manifesta. Ed è anche capace di escludere ciò che per uno specifico verso non può stare insieme.

La capacità di vedere insieme più parti è, in generale, la logica.

La logica è articolazione di parti. Il pensiero è logico.

 

La logica del pensiero, sintetica e analitica, è in ultima istanza comunque analitica: non si congeda dalle parti [1]. L'intero però non si costruisce dalle parti, come un essere umano non si realizza componendolo di organi e arti, ma suppone un’unità interna che si irradia sino alle estremità rendendole vive. 

 

L’unità deve precedere le parti: per poter essere tale, dice Gentile, è «immoltiplicabile» (cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro), cioè scevra di parti, pura [2]. Non si vuole negare l’idea organica dell’unità differente in se stessa (l'organismo), soltanto evidenziare che l’unità non può essere identica alle sue differenze o non sarebbe più la loro unità. Vale a dire che, affinché l’unità contenga il molteplice, è indispensabile che fra l’unità e il suo molteplice interno sussista almeno una differenza: la differenza, appunto, fra le parti e l’intero. Una differenza che qualifichi l’unità come tale e la parte in cui l’unità si manifesta in modo incompleto o astratto. 

 

Ora, dalle parti non si risale all'intero e il pensiero non è l'intero: dunque non siamo estranei all’unità ma non ci arriviamo per mezzo del concetto. L'Intero di cui abbiamo notizia, e che esprimiamo con categorie insufficienti, non lo abbiamo trovato noi: proprio a causa dell'insufficienza di categorie inadeguate a toccarlo. Siamo innestati nell’unità del tutto, nel suo cuore, ma questo tutto non è contenuto di pensiero [3]: il pensiero ‘lavora’ con le parti e il tutto non coincide con esse. Per questo l’unità è trascendentale, a monte: è la condizione delle parti, che le parti non possono ricostruire (l’atto non si oggettiva). La presenza reale dell'unità abita il soggetto, ma il soggetto non la fonda logicamente. 

Con Gentile possiamo anche dire così: dal logo astratto non si ricava il concreto. La logica del concreto tiene insieme soggetto e oggetto, e cioè l'osservazione che la logica ha il suo limite nel trascendentale: non conosce la propria origine, sa solo di averla. La filosofia e il mito, aggiungiamo noi, sono mezzi con cui l'uomo desiderante fa la ronda attorno alla propria Origine.

 

L’atto è un ‘eccesso’ semantico che impedisce di scivolare nel riduzionismo di un mondo interpretato come mero organismo concettuale. Si tratta dell’uno puro. Per questo Gentile affronta tutte le filosofie che lo precedono, inadeguate al suo sentire, come filosofie della logica astratta, filosofie dell'oggetto. Allora sceglie di individuare, con non poche difficoltà e implicazioni, un Io empirico e un Io trascendentale: che si sappia che il soggetto ha, per così dire, un piede di qua e uno di là. È empirico perché vediamo la forma reale di ogni persona e il mondo che le sta attorno al modo di un oggetto; è trascendentale perché le sue radici, l’atto puro – quella pura energia da cui scaturisce la soggettività –, è innestata una dimensione differente, che non può essere davvero mappata. Il peccato dell’idealismo classico sarebbe allora, per Gentile, la presunzione di aver fatto dell’assoluto un oggetto, dimenticando l’esistenza di quella regione destinata a rimanere estranea ai tentativi di ‘esame’, e che pur ci attraversa con la sua misteriosa vitalità. 

 

E.Guerin, "Village sur la Lande"
E.Guerin, "Village sur la Lande"

 

4. IL "PRESUPPOSTO" TRA HEGEL E GENTILE

 

 

Cos’hanno in comune Hegel e Gentile? Entrambi condividono il percorso filosofico dell’idealismo che riallaccia i rapporti fra pensiero e realtà. Il soggetto non è d’intralcio alla conoscenza, cioè all’incontro fra categoria e mondo, dal momento che il mondo ‘risponde’ alle categorie con cui il soggetto lo interroga. Il realismo precedente credeva essenziale l’oggetto e inessenziale il soggetto. Per esempio, riteniamo vera e oggettiva la legge fisica di cui si occupa lo scienziato, mentre appare assolutamente contingente la personalità del ricercatore che la scopre. L’idealismo classico mostra che la codifica concettuale di cui si mostra capace il ricercatore riposa già, latente, dentro il fenomeno che analizza. Perciò il soggetto non è ‘nemico’ del mondo: è, in qualche modo, il medio attraverso cui il mondo riesce a illuminare se stesso, a osservarsi: è il miracolo dello spirito.

Se Gentile condivide i termini di questa ‘amicizia’, insiste su un fatto che a Hegel interessa poco. Per Hegel è importante risollevare il pensiero all’oggettività del mondo. E per fare questo mostra che il mondo è innervato di categorie, di logica. Il pensiero è già dentro il mondo. E allora la logica universale, che riposa all’interno dei fenomeni, è la guida che il soggetto cerca e che sta a fondamento di tutto.

Gentile su questo non è d’accordo e ribalta la prospettiva: il fondamento di tutto, vale a dire la condizione sulla quale posano tutte le esperienze (compresa la logica), non è la logica ma il trascendentale. Hegel, per Gentile, fa l'errore più comune: astrae indebitamente l’empirico dal trascendentale e lo proietta ‘all’indietro’, all’origine. Cioè identifica l'Origine con il 'Pensato', ne fa un'articolazione di categorie. O ancora, crede che la realtà intera si riduca all'empirico.

Ma Gentile, abbiamo visto, insiste sul trascendentale come condizione dell'empirico. Non c’è fondamento empirico, tutto riposa nell’atto [4].

 

5. MA "PENSATO" COME?

 

Hegel usava discernere all'interno dell'empirico tipi diversi d'oggetto, di cui si può individuare una gerarchia: un contenuto dato nella forma della rappresentazione va portato sino al suo grado ultimo, cioè alla forma del concetto. La sua premessa, ricordiamo, assicurava a fondamento delle cose un piano logico, una sorta di ‘catalogo’ delle categorie ben dispiegato dialetticamente. Perciò, inizio e fine, questa logica è anche la forma più alta di conoscenza umana. Quando la soggettività incontra il concetto ha compiuto il suo percorso.

Gentile, per contro, non ha mai avuto tanta attenzione nelle distinzioni interne al pensato, sebbene condividesse con Hegel il valore del concetto come la ‘forma più alta’. Forse la gerarchia hegeliana avrebbe avuto bisogno di una revisione, nella misura in cui l'attualismo non fa che insistere su ciò che non si può pensare. Ora, questo problema va disabimbiguato, oppure riesce difficile raccapezzarsi. Perché dicendo che qualcosa non è pensabile ci si domanda: non lo posso pensare io, qui, oppure nessuno mai? Il ‘mio’ [5] atto, il riflesso nello specchio che rimbalza al mio sguardo, lo può pensare qualcun altro o è ‘materiale’ impenetrabile? Una semplice obiezione a Gentile sottolinea il fatto che quell'uno, quell'atto, quel trascendentale di fatto venga pensato. Cioè: lo rendiamo oggetto d'esame, perché ne parliamo, e allora dalla rappresentazione lo portiamo sino al concetto, no? 

 

Per Hegel il concetto è la forma adeguata ad ogni contenuto – la miglior forma per ogni contenuto, mentre qui il tentativo è di ribaltare questo giudizio affermando che il contenuto dell'origine, dell'intero oltrepassa di gran lunga il desiderio ‘assolutizzante’ della forma concettuale. In altri termini, si tratta sì di una rappresentazione, perché di fatto rendiamo l'origine oggetto di attenzione, ma non è un contenuto fondato logicamente: la sua ‘forma più alta’ non sarà la forma concettuale. L'Intero è un immediato per ogni cultura indigena o antica, che ne esprime un ventaglio di aspetti. Indicarlo con categorie logiche (uno, tutto, ecc.) è, in questo caso, persino impoverente. Anche ‘atto’ per sé non vuol dire granché: Gentile si spende per pagine e pagine nel rendere con sufficiente efficacia l'immagine e il calore di questa attività vitale che "infiamma gli animi e li affratella". 

 

Perciò, formalizzando, diremmo che ciò che non si può pensare significa sicuramente qualcosa che si può rappresentare; ma che persino la categoria logica funge qui da sola rappresentazione. Non si può pensare concettualmente.

 

Allora se Hegel nella religione scorge un'espressione inadeguata, cioè quella di un contenuto solo rappresentato da elevare alla forma del sapere, per noi non lo è: è il modo specifico con cui si manifesta l'Intero con il suo linguaggio specifico: il simbolo. Più che di religione parliamo di miti, perché il primo termine è sicuramente parziale (oltreché compromesso dalla deriva rigida e precettistica dell'ultimo mito occidentale).

 

6. L'ATTO E L'ANIMA

 

Praticamente, la formulazione dell’atto implica un ‘centro’ vitale che eccede il mondo del pensiero. Ricorda un poco la vecchia idea di anima. L’anima era data per vera, mentre lo scettico chiedeva: “Allora dove si troverebbe quest’anima? Qualcuno forse la vede?”. E posto che nessuno la vide la dimenticammo, tra gli aspetti superstiziosi di un lontano passato. Gentile inaspettatamente finisce per testimoniare in favore dell’anima, o di una sorta di Sé, sostenendo che se non si può vedere non è un difetto: non è la prova della sua assenza; è piuttosto quella ‘qualità’ specifica che ci consente percepirla come parte di noi “più grande” di quello che siamo consapevolmente, senza farne una vera e propria rappresentazione del pensiero. Se fosse tale non sarebbe più anima. Come se l’unità pulsante dell’Origine battesse ancora nei nostri polsi, con le mille implicazioni possibili, allontanando la prospettiva di un mondo di soli cocci da rimettere insieme col pensiero.

 

Di passaggio, c’è un legame anche con certa psicologia e psichiatria, che afferma possibile la guarigione soltanto fortificando la capacità soggettiva di tornare al proprio ‘centro’. La malattia per Robert Laing, ad esempio, scaturisce dalla perdita del ‘centro’ in favore di uno sbilanciamento eccessivo verso l’esterno. L’uomo che perde contatto con sé, con la sua capacità di percepirsi soggetto, per guardarsi quasi esclusivamente come oggetto (d’altri), va a creare uno squilibrio psicotico. Tant’è che uno dei motivi principali della psicopatologia suona così: “il soggetto non è responsabile di ciò che accade, ma è responsabile della reazione che ha di fronte a ciò che accade”. Il soggetto non si annulla mai: ciò che può fare, e fa, è trattare se stesso alla stregua di un oggetto. La salute passa attraverso questo problema. E troviamo eco di quest'idea anche in Gentile:

 

« La felicità non è, come la verità, in fondo al pozzo, ma [...] interna a noi quanto noi siamo interni a noi medesimi. [...] E questo vuol essere un altro capitale memento della logica del concreto, che qui rinnova con maggiore energia un monito che suona già attraverso i secoli richiamando l'uomo a se stesso, rincuorandolo a tornare dall'esterno in cui egli è ordinariamente smarrito, immemore di sé e distratto, all'interno dove abita la verità. »(Sistema di logica, vol. 2)

 

7. LA SFIDA

 

Per come lo intendiamo e lo abbiamo inteso qui, lo scandalo di Gentile è proprio questo ribaltamento involontario del panlogismo idealistico [5]: contrariamente alla grande tradizione, egli afferma che la logica delle cose non si regge da sé, né per sé sola articola il mondo; essa costituisce un volto del mondo, il quale, piuttosto, si abbevera da una fonte che non è al modo delle cose conosciute. Gentile insegna che ogni dato d’esperienza in fondo promana da una energia creatrice indeterminata. Il molteplice origina dall’uno: quest’uno, però, nel suo centro non ammette intrusioni concettuali. L’originario diviene una specie di anima mundi tutta da ascoltare. La prospettiva che ne deriva fa scivolare l'attualismo, suo inaspettato difensore, oltre l'idealismo. Perciò più che una variante dell’idealismo classico – e lo è senz’altro nella misura in cui non corrobora il dualismo fra concetto e realtà – la filosofia dell’attualismo sembra un idealismo orientato, forse senza saperlo, verso un nuovo pensiero della Creazione. Una Creazione che non discende dall’alto sui soggetti e sul mondo coi suoi precetti, ma attraverso di essi, che possono scegliere di accordarsi o meno alla melodia di Dio. 

 

« Il Dio che potete trovare è quello che voi dovete far essere; e perciò la fede è virtù, e suppone l’amore. » (Teoria generale dello spirito come atto puro)   

 

« Né dicendo che l’atto è il Primo vogliam dire che esso tolleri un secondo: ma soltanto che nulla lo preceda. Nulla, in verità, né lo precede, né lo segue. » (Sistema di Logica, vol. 2)

 


[1] Le categorie sono molteplici 'unità del molteplice'. 

[2] Quest'idea è espressa in Gentile anche quando afferma che l'atto non è né tempo, né spazio ma loro condizione: «l'unità è prima; e la spazialità consiste nella spazializzazione dell'uno» (Teoria generale dello spirito come atto puro). Se l'uno fosse spaziale e temporale sarebbe elemento tra gli elementi del molteplice; sicché mancherebbe ancora all'appello l'unità che raccoglie tutto in organismo, e che non può pertanto essere parte di esso.  

[3] L'Intero non si può pensare. Quando lo si annuncia ci si contraddice: si identifica la parte al tutto. Oppure, la categoria di 'intero' è una categoria, perciò non è l'intero: sapere di questa astrazione impedisce di credere che l'Intero possa essere pensato. Questa 'idea' è immediata, non è costruita logicamente. I popoli antichi l'avevano e popoli differenti dal nostro l'hanno, ma non usano le categorie logiche per esprimerla. Ci inganniamo perché rivolgendoci ad essa usando categorie logiche sembra che le aderiscano senza scarto: sembra che siano sufficienti. 

[4] «Eppure in Hegel, come s’è avvertito, rimane un residuo intellettualistico; e la praticità della sua logica non si giustifica perché il suo logo è un antecedente ideale del pensiero umano o attuale […]. Anche in Hegel il logo, la verità, col nesso dialettico delle sue categorie, è alle nostre spalle […].» (Sistema di logica, vol. 2)

[5] Certamente non può essere proprio mio, o l'atto sarebbe molteplice. Di nuovo l'impotenza delle categorie, che Gentile stesso ha sperimentato senza portare la questione sino in fondo. Eppure attorno a questo problema ha dibattuto a lungo con chi lo accusava, appunto, di misticismo. 

[6] L'idea è, come detto, che egli abbia per mano questa novità e che non sappia bene che farne. Sicuramente chiamare l'atto anche pensiero in atto, o pensante, non lo aiuta a uscire dallo schema di partenza fornito dall'idealismo classico. Resta indubbio, e lo si incontra lungo i suoi scritti, che egli volesse esprimere qualcosa di più, qualcosa che percepiva essenziale per la vita, e al contempo mancante e morto nelle teorie filosofiche passate. Come se invece di uomini andassero a ritrarre, piuttosto, dei cadaveri. Delle ottime descrizioni, precisissime, ma sicuramente parziali. Allora Gentile porta avanti con tutte le sue forze il bisogno di raccontare quell'interno, imperscrutabile, da cui solo sgorga la vita e la creatività dell'uomo – luogo da cui scaturiscono la gioia e il senso. 

 

9 gennaio 2023 









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