Dio è madre: il baricentro della mistica femminile

 

«Le donne si prendono con Dio una libertà che gli uomini neanche si sognano». Così Luisa Muraro delinea il concetto di mistica femminile ne Il Dio delle donne (Marietti1820, 2020). In un’analisi approfondita che segue una lunga linea temporale da Medioevo a Novecento, e che rianima soprattutto l’onore per la beghina Margherita Porete, la Muraro crea un vademecum di scritti mistici di note filosofe e scrittrici per ribadire che una mistica femminile esiste ed è ben lontana dagli indottrinamenti della teologia tradizionale.

 

di Sara Ricci

 

 

Per definizione, la mistica è “la dottrina relativa alla possibilità di attingere a realtà di ordine superiore che trascendono le normali possibilità conoscitive dell’uomo”. La parola chiave è proprio questa: uomo. Quando proviamo ad approcciare tematiche di questo tipo, tradizionalmente la prima immagine di Dio che appare nella nostra testa ha sempre connotazioni tipicamente maschili. Si parla spesso di un Dio severo, di un Dio Padre, un giustiziere divino, un Dio-uomo con barba bianca e capelli lunghi seduto su un altissimo trono dorato a proferire giudizio. 

 

Tuttavia, come per ogni verità che non è certa, ne esistono parallelamente molte altre che hanno caratteristiche opposte. Nel corso della storia molte donne si sono discostate da quell’immagine arbitraria di Dio che per secoli ha servito solo gli uomini, capovolgendone l’identità maschile e rivolgendosi ad un Dio-madre con una confidenza tutta particolare non solo filosoficamente e teologicamente, ma anche – e soprattutto – nell’aspetto più concreto dell’esperienza fisica. 

 

Luisa Muraro scrive Il Dio delle donne per mettere insieme i cocci di questo lungo filone filosofico-teologico: da Margherita Porete a Simone Weil, da Angela da Foligno a Etty Hillesum, da Giuliana di Norwich a Cristina Campo, le donne da cui la Muraro estrae il pensiero teologico si sono dedicate alla rappresentazione più verosimile del rapporto femminile con Dio. In questa elaborazione nasce quella che la Muraro definisce teologia in lingua materna. Ma di che si tratta?

 

Sebbene gli alti muri della libertà delle donne siano stati storicamente innalzati in nome di ignoranza e imposizione, la particolarità della mistica femminile risiede proprio in una empirea disgiunzione dalla tradizione: la relazione di una donna con il Dio-madre è personale e soggettiva, è tramandata di donna in donna e viaggia in cunicoli invisibili per chi ha come riferimento solo la dottrina tradizionale. 

 

Questa relazione si oppone a qualsiasi tipo di limitazione servendosi di una libertà che ha una risonanza nuova e infinita. Dinamico e singolare, il rapporto tra donna e Dio-madre cresce e si sviluppa elasticamente su fondamenta solide sostenute dall’intelligenza dell’amore. La Muraro stessa la descrive come «una relazione in cui è ammesso toccare ed essere toccate, mangiare ed essere mangiate, usare ed essere usate, aggredire ed essere aggredite, senza confusione, senza preparazione».

 

È nel testo Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete che Luisa Muraro individua il punto d’inizio di questa relazione nuova tra creature e Dio. Scritto in lingua volgare, nonché la lingua della nutrice (da qui il senso del termine ‘’teologia in lingua materna’’), il testo è costruito in maniera dialogica: Amore (Dio), Anima (l’autrice) e Ragione (l’istituzione ecclesiastica) - personaggi femminili che a loro volta hanno unicamente destinatari femminili - discutono e scoprono per gradi la necessità di andare per Amore, oltre Amore, quindi per Dio e oltre Dio, affinché l’anima stessa si trasformi in Lui che non tiene conto di vergogna o onore, di povertà e ricchezza, di inferno o paradiso e vuole guardare la morte della Ragione.

 

La teologia della Porete, per la quale venne condannata al rogo nel 1310, è una teologia della passività e della negazione: l’anima rinuncia agli interessi individuali, si perde completamente nell’amore divino e solo così è in grado di raggiungere un’unione estatica con Dio. Giovanna Fozzer lo spiega in Un rogo, una luce: Lo specchio delle anime semplici di Marguerite Porete: la sua è definibile come mistica dell’essenza, secondo la quale capire e conoscere è divenire la cosa stessa, dunque specchiarsi nel simile o esserne rispecchiato.

 

Tuttavia, molte donne prima di Margherita hanno segnato profondamente la tradizione storica del misticismo femminile. Com’è argomentato da Alessandra Bartolomei nel suo intervento durante il convegno intitolato Scrivere di Dio tenutosi alla facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, già nel ‘200 il ruolo della donna in questo contesto comincia a trasformarsi, passando da oggetto d’Amore a soggetto d’Amore, diventando quindi un mezzo importante di conoscenza dell’intelligenza mistica e amorosa di Dio. 

 

M. Porete (1250/60-1310) in una stampa quattrocentesca
M. Porete (1250/60-1310) in una stampa quattrocentesca

Inoltre, in questo periodo storico comincia a materializzarsi il corpo del linguaggio di Dio, che fino ad allora non ne aveva avuto uno. L’emisfero terrestre presente tra mondo celeste e mondo terreno si riempie di donne che cominciano a circoscrivere e possedere un simbolismo incomprensibile per i razionalisti. La mistica di questo periodo, afferma la Bartolomei riprendendo Michel de Certau, non è altro che una storia di annunciazione: si tratta di una manifestazione tutta femminile di Dio che attraversa e stabilisce una comunicazione tra ordini differenti e ambisce a ricreare una connessione tra ciò che si vede e ciò che è impossibile percepire.

 

La santità perciò si femminilizza, laicizza e democratizza. Le donne più umili riescono a rivoluzionare gli assolutismi limitanti della perfezione cristiana: estasi, levitazione, stimmate, lacrime e totalizzante coinvolgimento corporeo – espressione di un’intima interiorità – costituiscono il nuovo lessico della santità. La mistica cristiana diventa, grazie alle donne, una mistica terrena, tangibile e concreta. Figura esemplare di questo cambiamento è Pia Lutgarda di Aywières, monaca cistercense che si dedica appassionatamente a Dio dopo averlo incontrato personalmente. Raccontata da Tommaso di Cantimpré (ai tempi domenicano assai noto), per i presupposti totalizzanti di questo coinvolgimento fisico al quale non può resistere, Lutgarda chiude tutti i canali sensoriali, sigillando il suo corpo: digiuna, non parla, vive in un silenzio devozionale e dedica gli ultimi anni della sua vita allo scopo che Dio le affida: è la guardiana delle frontiere e vive in una sorta di mistica onniscienza tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Come lei, anche Matilde di Magdeburgo e Gertrude di Helfta (detta La Grande) furono determinanti per il movimento mistico nordeuropeo, nonostante il rifiuto categorico dell’ordine dei cistercensi nei loro confronti. Poi ancora Beatrice di Nazaret, Hadewijch di Anversa e tantissime altre anche meno note declamano coraggiosamente la follia del loro travolgente desiderio che le spinge alla ricerca dell’Amore assoluto di Dio.

 

Diversamente dall’esperienza delle beghine nordiche, che vivevano autonomamente sia a livello economico che sanitario e si incontravano assiduamente per lavorare in opposizione con la tradizionalità delle dottrine istituzionali, in Italia non c’è un vero e proprio movimento organizzato. Le mistiche italiane sono isolate, si limitano al supporto incondizionato dei mendicanti. Qui emerge però Angela da Foligno, che produce uno dei primi testi della mistica medioevale. 

 

La stagione di Margherita e Angela è una stagione di profezie, in cui la Chiesa è debole spiritualmente. Altre figure che hanno segnato, insieme a loro, la storia della mistica femminile possono essere individuate in Caterina e Brigida di Svezia, entrambe in una relazione personale ed intima con Dio, entrambe capisaldi fondamentali del movimento mistico europeo. Anche in Spagna emergono nomi importanti, come ad esempio quello di Teresa d’Avila, prima dottoressa della chiesa.

 

Dalle documentazioni reperibili delle vite di queste donne affiorano racconti all’apparenza illogici e paradossali, che però enfatizzano il protagonismo delle figure femminili nelle riforme ecclesiastiche di questo periodo in cui il subordinamento femminile è una prassi, una regola istituzionale normativa giuridicamente. La mistica femminile si ravvede però dal seguire regole sociali: nessuna di queste donne-veicolo-divino rivendica ruoli sacerdotali, né desidera alcun tipo di riconoscimento di emancipazione. Nella libertà assoluta del loro rapporto privato con Dio – chiarifica Bartolomei –, tutte loro conservarono accuratamente il mistero dell’incarnazione, dello svuotamento nei confronti del divino e della crocifissione come punto più alto della Passione per l’Amore divino.

 

Ordinariamente legata all’oralità – tranne in casi speciali come quelli di Angela da Foligno – la verbalizzazione dell’esperienza mistica raggiunge il processo della scrittura leggermente più tardi, e spesso da parte di altri, pur non perdendo autorialità. Un esempio centrale di questa tradizione scritta è Le sette armi spirituali di Caterina de’ Vigri, grande clarissa del Corpus Domini alla fine del ‘400. Nel dibattito Scrivere di Dio, Elisabetta Selmi spiega come in questo periodo storico il Corpus Domini abbia dato vita ad importantissime e formative composizioni collaborative.

 

Tra il ‘500 e il ‘600 invece le mistiche hanno l’ordine di documentare le rivelazioni per poi esporle al padre confessore. Tra i casi più noti di questo procedimento quelli di Brigida Morello, Veronica Giuliani, Bernardina Floriani (Giovanna Maria della Croce), la quale elabora una produzione mistica che entra anche nell’ambito della trattatisca e dell’apologetica, indirizzandosi quindi verso una riforma morale e generale delle consorelle. Tra i nomi emergenti di questo periodo anche quelli di Maria Maddalena Martinengo (a cavallo tra ‘600 e ‘700) e Maria Alberghetti, mistica seicentesca che, secondo la ricerca della Selmi, produce un corpus lirico che – come molti altri testi del periodo – riprende molto della sua elaborazione dalla revisione del celebre Cantico dei Cantici.

 

Quando parliamo di mistica femminile si può dire perciò che parliamo di un non luogo. Che significa? Come spiega la Muraro, «il rapporto con Dio si sviluppa disfacendo». La relazione è fondata solo nel momento in cui in mezzo non si percepisce «il peso di cose già decise o rifiutate, di questioni già formulate, di scelte già giudicate». Il rapporto «comincia arrestando la macchina della ripetizione perché altro possa avere luogo». L’ideale sarebbe abbandonare ogni punto di vista famigliare ed approcciarsi a ciò che fondamentalmente spaventa, inquieta, che istintivamente allontana. È proprio lì, nelle umide crepe di quel non sapere, non vedere, non sentire, proprio nell’assordante e legnoso scricchiolio del non, che l’ascetica esperienza mistica comincia a compiere la sua arte da tarlo. 

 

 

12 maggio 2023

 









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