Una confessione civile su Wilde e noi

 

Quando Oscar Wilde scrive De Profundis, è alla fine di tutto. È il 1897, e sta scontando due anni di prigione per “atti osceni”, dopo il processo che lo ha distrutto pubblicamente. È solo, malato, rovinato. Eppure scrive. Non per difendersi, non per accusare. Ma per restare vivo. 

 

di Ahmed Marouani 

 

 

De Profundis è una lunga lettera rivolta all’uomo che ha amato, Alfred Douglas, ma è anche una meditazione sul dolore, sull’umiliazione, sull’amore e sull’identità. È una confessione senza sconti, che mescola l’autobiografia spirituale alla condanna della società. Non è un’opera letteraria in senso stretto: è il grido di un uomo che, non potendo più salvarsi, cerca almeno un senso nella propria caduta. Ed è proprio per questo che ci riguarda. Perché Wilde ci parla da un abisso che, oggi, non è più eccezione — ma regola invisibile.

 

“L’anima è morta, ma mangiamo bene”.

 

Ci sono libri che non si leggono: ti denudano. Ti fanno a pezzi, senza nemmeno toccarti. De Profundis non è un libro: è un uomo in ginocchio, con il viso nella polvere, che prega – non Dio, ma il nulla. Non c’è finzione. Non c’è arte. Nemmeno bellezza, se non quella tragica che sgorga come sangue dalle costole rotte di chi non sa più a chi chiedere pietà.

Oscar Wilde non scrive per essere salvato: scrive per non scomparire, per non essere sepolto vivo sotto l’indifferenza del tempo. Scrive per restare carne, piaga, presenza. Non ha più nulla, se non la sua disfatta: e proprio quella ci offre, come pane nero. Ma noi, oggi, pieni di psicologia, di benessere, di tecniche per non sentire, non reggiamo nemmeno una pagina senza voltare lo sguardo, come bambini viziati davanti al dolore.

 

Perché De Profundis è più nostro oggi di quanto non lo fosse allora. Noi siamo Wilde, ma senza la sua coscienza. Cacciati fuori dalla festa, ma con un sorriso stampato in faccia. Fingiamo felicità, salute, libertà. E invece viviamo ancora, come lui dice – con una crudeltà che è anche misericordia – per l’amore degli altri, per la loro ammirazione, come cani ammaestrati. Ma non l’amore vero, quello che ti strappa e ti lacera. No: quello che si conquista, che si esibisce, che si usa per riempire il vuoto. L’amore come rendita. Come ruolo. Come status. Ed è qui che inizia la nostra catastrofe. Wilde lo sapeva: l’amore che domanda è già venduto. L’ammirazione che si attende è già puttana. Il sentimento che serve a qualcosa non è sentimento: è merce. Il vero sentimento – quello puro – non salva, non migliora: consuma. Eppure è l’unica cosa che può ancora risvegliare, dentro di noi, il morto.

 

Wilde non chiede perdono. Si offre. Si espone. Racconta il dolore non come un contenuto da condividere, ma come un calvario. Scrive: « C’erano giorni in cui mi rallegravo all’idea che il mio dolore non avrebbe mai avuto fine, ma non potevo sopportare che non avesse un significato. »

 

Parole che oggi non si potrebbero nemmeno pronunciare. Perché il dolore è diventato un errore. Un bug. Un’infrazione al codice della felicità permanente. La società contemporanea non ci chiede più di soffrire in silenzio, come quella vittoriana: ci chiede di non soffrire affatto. Ci vuole efficienti, risoluti, performanti.

Ma che cos’è l’uomo, se non una crepa nel disegno divino? Se non un’interruzione del senso? Wilde, nel suo inferno privato, intuisce che la salvezza non sta nella guarigione, ma nella forma data alla ferita. Nell’architettura spirituale del dolore. E noi, che cadiamo e subito invochiamo un rimedio – un terapeuta, un algoritmo, una pillola – siamo il contrario della profondità. Perché la profondità oggi è troppo costosa. Troppo lenta. Troppo inutile.

 

La nostra tristezza ha un inizio e una fine, come una serie da binge-watching. Wilde invece la guarda in faccia e le dice: « dimmi chi sono, ora che non ho più nulla.»

 

 

Tra le pagine più tremende di De Profundis, Wilde scrive una frase che oggi suona come un giudizio universale:

 

« Una natura priva di immaginazione, se non si fa qualcosa per risvegliarla, si pietrifica nella più assoluta mancanza di sensibilità, cosicché, mentre il corpo si nutre, si disseta e gode dei suoi piaceri, l’anima che lo abita può, come l’anima di Branca d’Oria, essere completamente morta. »

 

Chi è Branca d’Oria? Un personaggio reale, vissuto nel XIII secolo, ma condannato all’eternità dalla Divina Commedia di Dante. Compare nel Canto XXXIII dell’Inferno, nel gelo del nono cerchio, dove sono puniti i traditori. Branca ha compiuto un tradimento così mostruoso — l’assassinio di un ospite fidato, durante un banchetto — che Dante lo colloca all’inferno prima ancora che muoia. Il suo corpo continua a vivere sulla terra, ma la sua anima è già dannata, ibernata nel ghiaccio dell’inferno. È, letteralmente, un morto vivente.

Ecco perché oggi Wilde ci paragona a lui. Perché anche noi — apparentemente vivi, socialmente attivi, biologicamente sani — siamo interiormente spenti. Il nostro corpo gode, si mostra, performa. Ma la nostra anima, quella parte che immagina, che sogna, che prova pietà e stupore… è congelata. È come se il tradimento più grande che abbiamo compiuto fosse proprio questo: aver ucciso l’umano in noi per vivere meglio fuori di noi.

 

E quali sono i segni di questo gelo spirituale? L’immaginazione è spenta perché non sogniamo più un mondo diverso: lo scrolliamo. Non inventiamo: replichiamo. Non cerchiamo bellezza: la consumiamo. Viviamo in un tempo in cui l’immaginazione non è più una necessità dell’anima, ma un’abilità del marketing. Dove ogni forma di sensibilità è vista come un impaccio, un rallentamento, un difetto da correggere con un farmaco, una strategia, una ristrutturazione del sé.

 

Siamo pietrificati perché non tolleriamo il fallimento, il silenzio, l’inutile. Abbiamo disimparato la fatica del sentire. Vogliamo tutto, ma senza pagarne il prezzo umano. E così la nostra immaginazione si ritira, la nostra anima si chiude, si fa piccola, si fa muta. Non siamo più capaci di amare senza un ritorno. Di soffrire senza una spiegazione. Di restare senza una soluzione. La nostra è un’anima prosciugata, gestita più che vissuta.

 

Ecco perché siamo come Branca d’Oria: dannati vivi. Perché abbiamo tradito ciò che ci rendeva umani — la capacità di sentire l’altro, di soffrire con lui, di perdersi per qualcosa che non si controlla. In cambio, abbiamo ottenuto sicurezza, controllo, identità, efficienza. Ma a quale prezzo?

 

Wilde, dal fondo della sua prigione, ci guarda. E ci accusa senza rabbia. Senza predica. Solo con la sua rovina, offerta come uno specchio. Ci chiede: «Dove siete andati? cosa avete perso? cosa avete fatto della vostra anima?» E noi, davanti a lui, non possiamo rispondere. Non perché non abbiamo parole, ma perché non abbiamo più profondità da cui farle nascere.

 

 

11 agosto 2025

 








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