Cinque domande a Charan Ranganath su ‘‘Perché ricordiamo. Sbloccare il potere della memoria per conservare ciò che conta’’

 

Chi non si è mai chiesto se ha davvero chiuso l’auto o dove ha lasciato le chiavi di casa? Come ricordiamo? E perché? Abbiamo posto cinque domande sul tema a Charan Ranganath, professore del Centro di Neuroscienze, del Dipartimento di Psicologia e direttore del Dynamic Memory Lab presso l’Università della California, che per più di un trentennio ha studiato i meccanismi della memoria e ha recentemente pubblicato con Aboca edizioni Perché ricordiamo. Sbloccare il potere della memoria per conservare ciò che conta.

 

Intervista e traduzione a cura di Emma Pivato e Sara Ricci

 

Charan Ranganath
Charan Ranganath

 

E.P: Comincerei da una domanda preliminare e fondamentale per comprendere il tema a cui ci approcciamo: cos’è la memoria? Può offrire a chi legge una breve spiegazione di come funziona il meccanismo del ricordo nel nostro cervello?

 

C.R: Quando viviamo esperienze coscienti le cellule del nostro cervello, i neuroni, si attivano. Se poi, in un altro momento, riusciamo a riattivare alcuni di quei neuroni, allora possiamo richiamare alla mente quell’esperienza sotto forma di ricordo. Quando impariamo qualcosa, si modificano le connessioni che si sono create tra i neuroni coinvolti mentre vivevamo quella determinata esperienza. Questo processo è ciò che chiamiamo “plasticità sinaptica”. La plasticità sinaptica rende più facile riattivare almeno alcuni dei neuroni che erano attivi durante l’esperienza di apprendimento. Crediamo che sia questo, più o meno, il meccanismo tramite cui la nostra memoria funziona.

 

[Whenever we have a conscious experience, cells in our brain called neurons are active, and we think that if we can activate some of those same neurons later on, then we can recall that experience as a memory. When we learn, there are changes in the connections between the neurons that were actived during that experience, which we call “synaptic plasticity”. Synaptic plasticity makes it easier to reactivate at least some the neurons that were active during learning, so that is thought to be the mechanism of how memory works.]

 

E.P: Nel libro lei mette chiaramente in luce due prospettive. Da un lato, fin dalle prime pagine del libro, sostiene che la memoria è il prisma tramite cui interpretiamo noi stessi e il mondo: il nostro io che ricorda agisce costantemente influenzando ogni decisione che prendiamo. D’altro canto, lei afferma anche che siamo esseri progettati per dimenticare: dimenticare non è un fallimento della memoria ma la conseguenza di processi che ci consentono di dare priorità alle informazioni che ci aiutano a sopravvivere. Queste riflessioni mi fanno sorgere una domanda. Ciò che dimentichiamo resta dentro di noi in qualche modo? Può esserci sotto questo profilo un collegamento con il tema dell’inconscio e della psicanalisi? In altre parole, il prisma tramite cui interpretiamo noi stessi può essere costituito tanto da ciò che ricordiamo e richiamiamo consapevolmente alla mente quanto da ciò che dimentichiamo o crediamo di aver dimenticato?

 

C.R: Questa è una domanda perspicace ma anche difficile da rispondere. Da un lato, chiaramente non ricordiamo tutto. È pur vero che, anche se non possiamo ricordare coscientemente un evento, alcuni nostri circuiti neuronali potrebbero comunque essere stati modificati da quell’episodio – per esempio, potremmo non ricordare di aver già incontrato una persona al bar, ma quella persona potrebbe sembrarci familiare e potrebbe anche risultarci un po’ più gradevole, perché il nostro cervello l’ha già processata. Possiamo anche avere ricordi latenti, nel senso che il ricordo non emerge finché non abbiamo gli inizi adeguati a richiamarlo o non c’è il giusto contesto. Per esempio, potremmo ascoltare una canzone della nostra infanzia e ricordare un evento vissuto con nostra sorella, a cui non pensavamo da decenni.

 

Non ci sono prove, comunque, a sostegno dell’idea che i ricordi traumatici vengano automaticamente repressi, o prove che dimostrino se il cervello dia priorità alle esperienze più significative dal punto di vista emotivo, come eventi associati a sensazioni di vergogna, colpa, rabbia o paura. Ulteriore problema con la psicanalisi è l’idea per la quale l’introspezione si tradurrà in benessere. Non credo sia necessariamente vero  l’ondata emotiva che travolge le persone quando ricordano un evento traumatico è diversa dal reale contenuto di un ricordo. Se qualcuno si limita a pensare continuamente a un trauma, ciò non lo aiuterà a rimuovere i sentimenti ad esso associati. A livello cerebrale c’è inoltre una differenza tra la percezione che abbiamo [di un evento] e l’abilità di usare quella stessa percezione per cambiare le nostre emozioni e azioni. Ed è questo l’obiettivo che si desidera raggiungere con la terapia, pertanto l’introspezione è solo il primo passo.

 

[This question is both insightful and difficult to answer. On the one hand, we clearly do not remember everything. It is true that, even if we can’t consciously recall an event, we might still have circuits that were modified by the event—for instance, you might not remember having met a persona at the cafe, but the person might be familiar to you and seem a bit more amiable because your brain processed it. We can also have latent memories, in the sense that the memory doesn’t come up until you have the right cue or context. For instance, you might hear a song from your childhood and recall an event with your sister that you haven’t thought about in decades.

 

There is not any support, however, for the idea that traumatic memories are automatically repressed, and if anything the brain prioritizes our most emotionally significant experiences, such as the events that are associated with shame, guilt, anger, or fear. Another problem with psychoanalysis is the idea that insight will translate into wellbeing. I do not think this is necessarily true  the emotional surge that people get when recalling a traumatic event is different than the actual content of a memory. If one simply thinks about the trauma over and over, it will not remove the feelings associated with the trauma. There is also a difference in the brain between the insights that we have, and the ability to use those insights to change our actions and feelings. The latter is what we would like to get out of therapy, and so insight is only the first step.]

 

 

E.P: Un argomento molto interessante da lei affrontato nel libro è quello del multitasking. Nella nostra vita quotidiana, infatti, sembra rendersi sempre più necessario svolgere più attività contemporaneamente per far fronte alla frenesia causata dagli impegni scolastici, lavorativi, familiari. Quanto l’essere continuamente stimolati da tantissime nuove informazioni influisce sulla nostra capacità di ricordare? Potremmo dire che concentrare la nostra attenzione su molte cose contemporaneamente ci danneggia?

 

C.R: Non direi che provare a svolgere più compiti contemporaneamente ci danneggi. Molte cose che abbiamo imparato, come guidare o fare snowboard, richiedono di essere multitasking. Alla fine, allenandosi abbastanza, queste molteplici operazioni possono diventare una sola attività. In ogni caso, credo che molta della nostra efficienza vada persa e lo stress aumenti notevolmente se ci mettiamo in situazioni o sviluppiamo abitudini tali per cui si crea un conflitto tra diversi obiettivi.

 

Per esempio: se abbiamo un orologio che vibra ogni volta che riceviamo una mail, o se ci abituiamo a controllare i nostri social ogni volta che abbiamo un momento libero, allora avremo delle fonti di distrazione che cattureranno la nostra attenzione anche quando la nostra intenzione è quella di svolgere attività più urgenti, come badare ai nostri bambini o finire un’importante presentazione al lavoro. Non possiamo controllare la miriade di compiti dai quali siamo bombardati, ma possiamo almeno progettare le nostre vite e gli ambienti in cui viviamo per ridurre le distrazioni che non riteniamo importanti. Personalmente ho eliminato i social e le app di notizie dal telefono, in modo che non sia così facile perdere tempo in queste attività. Di conseguenza, sono più portato a svolgere un compito alla volta mentre lavoro e, successivamente, dedicarmi ai social quando voglio farlo.

 

[I would not say that trying to do multiple tasks at the same time harms us. Many things that we learn, like driving or snowboarding require you to multitask. Eventually, with enough learning, those multiple tasks can become a single task. However, I think we lose a lot of efficiency and add a lot of stress to our lives if we put ourselves in environments or develop habits that create conflicts between different goals.

 

For instance, if you have a watch that vibrates every time you get an email, or if you develop a habit of checking social media any time you have a free moment, then we have sources of distraction that can capture our attention even when our intention is to do other more pressing tasks like paying attention to your child or completing an important presentation for your work. We can’t control all the bombardment of tasks that are thrown at us, but we can at least engineer our lives and environments to remove the distractors that we don’t feel are important. In my own life, I removed the social media and news apps from my phone, so that it’s not as easy to spend time on those activities. As a result, I am more likely to mono-task on my work and then mono task on social media when I want to do so.] 

 

E.P: Nel libro lei narra un aneddoto relativo alla sua vita. Ci racconta che mentre rivedeva dopo anni i video girati in occasione dei compleanni di sua figlia non ricordava di aver vissuto i momenti ripresi. Questo mi dà l’occasione di porle un’ulteriore domanda. In che misura mezzi come i cellulari, i social media e i computer, che ci permettono di immagazzinare informazioni senza doverle fissare nella mente, possono essere responsabili della diminuzione della nostra capacità di ricordare?

 

C.R: Non credo che la tecnologia possa causare difficoltà alla nostra memoria in modo diretto, il problema è come ci approcciamo ai devices e ai social media. Se usiamo una telecamera per documentare distrattamente le nostre esperienze, ad esempio filmando un intero concerto o fotografando il nostro cibo durante una cena, allora ci stiamo impedendo di essere immersi nell’esperienza e ci priviamo dei suoni, degli odori, dei sapori, delle impressioni visive e delle emozioni che danno vita alla nostra memoria. Possiamo utilizzare una fotocamera o anche un social media per migliorare la nostra memoria, se li usiamo però per focalizzarci sulla nostra esperienza e registrare momenti che, in futuro, ci serviranno come indizi per aiutarci a ricordare quell’evento.

 

[I believe that technology does not directly cause problems for our memory, but the problem is the way we interact with devices and digital media. If you use a camera to mindlessly document your experiences like filming an entire concert or taking pictures of your food during a dinner, then you are diverting yourself from being immersed in the experience, depriving yourself of the sights, sounds, smells, and emotions that give life to your memory. You can use a camera or even a social media post to enhance your memory if you use it to help you focus on your experience, and record moments that will later serve as cues to help you recall the experience later on.]

 

Benjamin Arthur per NPR
Benjamin Arthur per NPR

 

E.P: Un’ultima domanda. Nelle prime pagine del libro lei sottolinea, come accennavamo nelle precedenti domande, che la memoria determina ciò che siamo e possiamo essere, tanto come individui quanto come società. Secondo lei che rapporto può essere tracciato tra la memoria individuale e quella collettiva? In che misura le due sfere si influenzano vicendevolmente?

 

C.R: Credo che quasi tutti i nostri ricordi più importanti siano ricordi collettivi. Una volta che condividiamo un ricordo con qualcuno e osserviamo la sua reazione al nostro racconto, il nostro ricordo viene trasformato da quell’iterazione sociale. Allo stesso modo, il nostro interlocutore ora ha un ricordo della storia che gli abbiamo narrato. Anche questa è memoria collettiva. Le esperienze che viviamo negli anni della nostra formazione determinano il modo in cui noi vediamo e ricordiamo il mondo che ci circonda, e nella misura in cui molti di noi hanno condiviso esperienze – di povertà o privilegio, vittoria o sconfitta e così via – i nostri ricordi diventano memoria collettiva che può avere vita propria e dare forma a narrazioni culturali o storiche. Le nostre convinzioni culturali, a loro volta, determinano come ricostruiamo il passato e come percepiamo il ruolo che abbiamo ricoperto nelle nostre esperienze. In altre parole, è difficile per me non giungere alla conclusione che la memoria collettiva e quella individuale sono inestricabilmente legate.

 

[I believe that almost all of our important memories are collective memories. Once we share a memory with someone else and see their reaction to our story, then our memory becomes transformed through the social interaction. Likewise, your conversation partner now has a memory for the story that you told them. That too is a collective memory. The experiences that we have during our most formative years shape the way we see and remember the world around us, and to the extent that many of us have shared experiences  of poverty or privilege, victory or defeat, and so on  our individual memories become a collective memory that can take on a life of its own, shaping cultural and historical narratives. Our cultural beliefs, in turn, shape how we reconstruct the past and how we see the part that we played in our experiences. In other words, it is hard for me to escape the conclusion that individual and collective memory are inextricably linked.]

 

 gennaio 2025

 









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