Le ultime dichiarazioni del Ministro Giuseppe Valditara sull’insegnamento del latino nella scuola secondaria di primo grado hanno riacceso la ben nota “querelle” sapere utile-sapere inutile. Perché rispolverare il latino? È l’“eredità” della nostra cultura che dobbiamo riscoprire? Bisogna attingere ai valori “eterni” e “immutabili” della classicità? In una breve conferenza del 1895, Il buon senso e gli studi classici, il filosofo francese Henri Bergson si pone domande molto simili alle nostre, ma colloca il suo discorso su un altro registro. Il consiglio che ne trarremo sarà: il latino sì, ma con “buon senso”!
Le ultime dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione e del Merito sull’introduzione del latino nelle scuole medie hanno suscitato non poche polemiche. O, meglio, hanno riacceso una ormai nota querelle che da almeno un decennio si è incancrenita: lo scontro tra sapere inutile e sapere utile.Ripercorrerne la storia è quasi impossibile: tanti, troppi coloro che si sono pronunciati. Uno dei primi a scendere in campo fu il compianto Nuccio Ordine che nel 2013 pubblicò un saggio di largo successo: L’utilità dell’inutile. Da allora riprese e rilanci, di docenti (ad esempio, A. Marcolongo, Perché studiare latino e greco (non) è inutile) e di professori universitari (si pensi a M. Bettini, A cosa servono i Greci e i Romani) fino agli influencer divulgatori e ai professori influencer. Molti insomma sono scesi nell’arena: da una parte i fautori della classicità in tutte le sue variegate dimensioni, dall’altra i promotori di una conoscenza produttiva, capace di far crescere le competenze.
I vari ministri e politici che si sono avvicendati hanno in genere sostenuto il secondo partito, puntando sull’innovazione. Liberare la scuola dallo sterile nozionismo, aprirsi al mondo dell’impresa, avvalersi nella didattica di strumenti digitali all’avanguardia, questi sono solo alcuni degli imperativi che hanno declamato con ardore dai vari palinsesti mediatici. Le parole del Ministro sorprendono allora non tanto per il contenuto espresso, ma per il fatto di provenire da quelli che spingono l’acceleratore sul potere taumaturgico del “nuovo che avanza”. La scuola italiana è un po’ come l’Asino di Buridano: guarda al futuro e al passato, fa coesistere classi pollaio e classi 4.0, promuove le competenze e difende l’apprendimento mnemonico.
Eppure, tra i due atteggiamenti in apparenza così distanti vi è un elemento in comune: un certo pensiero magico. L’innovazione è fonte di progresso; il passato è salvifico. Siamo come Eracle al bivio: una delle strade conduce alla virtù, l’altra al vizio, ma non si sa quale delle due sia la buona. E se non si trattasse di una questione di scelta? Se fosse prima lo sguardo a dover cambiare direzione? Lancio una provocazione: quello che manca nei nostri discorsi sulla scuola è il “buon senso”! Si dirà: nulla di più qualunquista del buon senso! È vero, ma dipende dal “buon senso” cui ci riferiamo.
In una breve conferenza, Il buon senso e gli studi classici, tenuta nel 1895 a degli studenti riuniti nell’anfiteatro della Sorbona, il filosofo francese Henri Bergson (1859-1941) affronta i temi che ci stanno a cuore: l’urgenza di riformare l’educazione e la necessità di difendere le lingue antiche. La prospettiva però è completamente diversa dalla nostra. Vale la pena allora di uscire dalla fitta nebbia delle polarizzazioni e prendere una boccata d’aria.
Il buon senso
Entriamo nel dettaglio dei passaggi principali della conferenza. Bergson esordisce con una constatazione di grande attualità:
« Il problema dell’educazione, sul quale non vorremmo ritornare continuamente, sta assumendo un aspetto sempre più serio e si pone in termini sempre più pressanti. » (H. Bergson, Il buon senso e gli studi classici, in M. T. Russo, Bergson educatore)
Mai come oggi il problema dell’educazione è urgente e pressante. Anzi, potremmo dire che l’urgenza è cresciuta esponenzialmente di fronte alle grandi sfide del nostro tempo: il cambiamento climatico, le disuguaglianze, le tensioni internazionali. Sembra quasi di rivivere l’atmosfera cupa della fine dell’Ottocento, quando anche Bergson avvertiva forse l’imminenza di una catastrofe, come quella che poi si sarebbe verificata con le guerre mondiali. Il filosofo si interroga sul ruolo degli studi classici nella formazione di cittadini consapevoli:
« Tutti sono d’accordo sul fatto che gli studi classici hanno ben altro scopo che adornare lo spirito […]; ciò che la società offre in istruzione vorrebbe vederselo restituire in saggezza. Ma ci si chiede con crescente inquietudine se gli studi disinteressati possiedano questa efficacia pratica e particolare, se il buon senso, che è una virtù civica dei paesi liberi, dipenda o meno dal grado di cultura intellettuale. » (Ivi)
Ecco la seconda questione anche per noi rilevante: gli studi classici aiutano a costruire cittadini più “saggi”? Ma cosa intende Bergson per saggezza e perché associare gli “studi disinteressati” (il sapere per il sapere) al buon senso? Il ragionamento bergsoniano poggia interamente sull’ambigua nozione di “buon senso”. Solo una volta definita sarà possibile dare allo studio dei classici e con esso del latino e del greco il giusto valore. Come è tipico del suo modo di filosofare, Bergson si avvicina al concetto per approssimazione. Propone una prima definizione per poi correggerla e ampliarla con le successive considerazioni.
« Vorrei mostrare che il buon senso consiste in parte in una disposizione attiva dell’intelligenza nei confronti di se stessa; che l’istruzione gli fornisce un sostegno, ma che esso spinge le radici a delle profondità dove l’istruzione non penetra affatto; e che gli studi classici gli giovano molto, ma grazie ad esercizi comuni ad ogni indirizzo di studi; che anche il compito dell’educatore consiste soprattutto, in simile materia, nel condurre tramite un artificio gli uni laddove gli altri sono collocati immediatamente dalla natura. » (Ivi)
Il buon senso è una «disposizione attiva dell’intelligenza». Si tratta di una capacità in potenza presente in ogni individuo, ma non allo stesso modo. Lo studio dei classici e l’istruzione possono favorirne lo sviluppo e condurre «gli uni laddove gli altri sono collocati immediatamente dalla natura». Tracciato il contorno del concetto, Bergson gli dà colore:
« La funzione dei nostri sensi, in generale, non è tanto di farci conoscere gli oggetti materiali quanto piuttosto di indicarcene l’utilità. […] I nostri sensi, dunque, ci servono innanzitutto per orientarci nello spazio; non sono volti verso la scienza, ma verso la vita. Orbene, noi non viviamo soltanto in un ambiente materiale, ma anche in un ambiente sociale. […] La maggior parte delle nostre azioni ha delle conseguenze immediate o lontane, buone o cattive prima per noi, poi per la società, che ci circonda. Prevedere queste conseguenze, o piuttosto prevenirle; distinguere in materia di condotta l’essenziale dall’accessorio, o dall’indifferente; scegliere tra le diverse opzioni possibili quella che comporterà un bene maggiore, non immaginabile ma realizzabile: ecco, a quanto sembra, la funzione del buon senso. Si tratta, dunque, di un senso sui generis, ma mentre gli altri sensi ci mettono in rapporto con le cose, il buon senso presiede alle nostre relazioni con le persone. »
La funzione dei nostri sensi è prima di tutto pratica. Essi aiutano a distinguere l’utile dal dannoso; permettono di orientarci nello spazio. Tuttavia, non viviamo solo in un mondo di cose. Abbiamo bisogno di relazionarci agli altri e di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Il buon senso riveste proprio questo importante ruolo sociale. Può essere definito come il senso che «presiede alle nostre relazioni con le persone». Nel buon senso è dunque presente anche una forte componente assiologica e non si è quindi molto lontani dall’intelligenza sociale di cui parlerà Daniel Goleman, cioè «la qualità propria di un individuo intelligente non solo riguardo alle relazioni, ma anche all’interno di esse» (D. Goleman, Intelligenza sociale).
Il buon senso, come l’intelligenza sociale, esercita la comprensione delle relazioni dall’interno. Chi lo pratica vi riflette nei termini del bene maggiore non solo per sé ma anche per gli altri. Bergson passa a sfumare i colori del concetto:
« La vita di tutti i giorni richiede a ciascuno di noi soluzioni molto nette e decisioni molto rapide. Ogni azione importante viene a chiudere una lunga serie di ragioni e di condizioni, per dispiegarsi immediatamente in conseguenze tali per cui, se essa dipendeva da noi, a nostra volta noi dipendiamo da essa. Pertanto, essa non ammette generalmente né esitazioni né ritardi; occorre prendere una decisione e, senza prevedere tutti i dettagli, comprendere l’insieme. L’autorità che invochiamo allora, quella che elimina le nostre esitazioni e risolve la difficoltà, è il buon senso. » (H. Bergson, Il buon senso e gli studi classici)
Se in Cartesio il buon senso coincide con la capacità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, in Bergson è assimilato a un’intuizione che consente di prendere decisioni rapide ed efficaci nelle situazioni della vita. Più che al buon senso cartesiano, il buon senso bergsoniano richiama, sotto questo aspetto, lo spirito di finezza di Pascal. Come l’esprit de finesse abbraccia «la cosa con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno fino a un certo livello» (B. Pascal, Pensieri), così il buon senso «comprende l’insieme» di un determinato contesto in vista dell’azione appropriata. Per Bergson il buon senso non è però «un atteggiamento passivo dello spirito che attende, in mezzo alla notte, che il lampo brilli e si faccia luce». (H. Bergson, Il buon senso e gli studi classici). Al contrario,
« esige un’attività incessantemente in veglia, un adattamento sempre rinnovato a situazioni sempre nuove. Nulla teme di più dell’idea bella e fatta, senz’altro frutto maturo dello spirito, ma frutto staccato dall’albero, ben presto disseccato, che non presenta più, nella sua rigidità, che il residuo inerte del lavoro intellettuale. Il buon senso è questo stesso lavoro. Vuole che consideriamo ogni problema come nuovo e gli rendiamo l’onore di un nuovo sforzo. Esige da noi il sacrificio, talvolta penoso, delle opinioni che ci eravamo fatte e delle soluzioni che tenevamo pronte. Insomma, sembra che non sia tanto in rapporto a una scienza superficialmente enciclopedica quanto con un’ignoranza cosciente di se stessa, accompagnata dal coraggio di apprendere. » (Ivi)
Il buon senso è la capacità di adattarsi «a situazioni sempre nuove»; odia le idee prefabbricate, il nozionismo sterile; è un lavoro intellettuale che implica uno sforzo continuo, la rinuncia alle soluzioni già pronte. Il buon senso si nutre di un’«ignoranza cosciente» e del «coraggio di apprendere». Per praticare il buon senso occorre saper mettere da parte le proprie opinioni; è necessario esercitare un’epochè, sospendere il noto al fine di afferrare il nuovo. Siamo dunque molto lontani da un sapere enciclopedico, ma anche da un saper fare riproduttivo. Nel buon senso la dimensione dello sforzo è essenziale. Chi vuole esercitare il buon senso deve porsi in ascolto della realtà e di sé; deve essere capace di cogliere i dettagli e l’inaspettato e a un tempo riconoscere i pregiudizi che impediscono di afferrare a fondo l’originalità di situazioni inedite.
Il buon senso si oppone alle «abitudini che si erigono in leggi», che distraggono «il proprio sguardo dal movimento che è la condizione della vita» (Ivi). L’introspezione ha un ruolo fondamentale: se non si guarda dentro di sé, se non si riconoscono e si contrastano le proprie abitudini, le cose non riveleranno il loro dinamismo interno. La comprensione delle relazioni interne delle cose, la valutazione fine delle conseguenze delle proprie azioni sul piano interpersonale, l’introspezione, l’adattamento della conoscenza all’imprevisto, la sospensione delle opinioni pregresse, il coraggio di voler pensare diversamente contrastando abitudini radicate, questi sono per ora i caratteri principali che definiscono il buon senso.
Per semplificare il ragionamento di Bergson si potrebbe pensare che in ultima istanza il buon senso consista nella capacità di adattare l’universale al particolare. Si esercita il buon senso quando si riconduce l’ignoto al noto. Ma non è questa la direzione dell’analisi bergsoniana.
« Qual è il principio del buon senso? Come toccarne il fondo? Dove scoprirne l’anima? […] Consiste forse in una maggiore sicurezza di ragionamento, esercitata, da un lavoro logico a dedurre da un principio generale delle conseguenze sempre più lontane? […] Il buon senso ragiona, ne convengo, e talvolta su principi generali; ma comincia col piegarli nella direzione della realtà presente; […] il buon senso non risiede in un’esperienza più vasta, né in ricordi meglio classificati, né in una deduzione più esatta, neanche, più in generale, in una logica più rigorosa. Strumento innanzitutto di progresso sociale, esso non può ricavare la sua forza se non dal principio stesso della vita sociale, dallo spirito di giustizia. Oh! Non voglio parlare di quella giustizia teorica ed astratta che, incurante del reale, traccia nello spazio vuoto un piano geometrico e pone la forma senza darci la materia. […] Parlo della giustizia incarnata nell’uomo giusto, della giustizia vivente e attiva, attenta a inserirsi negli avvenimenti, ma che pesa sulla sua bilancia l’atto e la conseguenza, e che non teme che una cosa sola: acquistare il bene a prezzo di un male più grande. La giustizia, quando si realizza così in un uomo dabbene, diventa un senso delicato, una visione o piuttosto un tatto della verità pratica. » (Ivi)
Bergson riprende il suo metodo per approssimazioni: il buon senso “non” è una «logica più rigorosa», “non” è «una deduzione più esatta»; “non” è un semplice adattamento di principi più universali all’esperienza. Segue un carattere positivo: il buon senso è uno «strumento di progresso sociale» che si nutre dello «spirito di giustizia». Bergson torna a insistere sull’aspetto sociale. Il buon senso è un «tatto della verità pratica»: gli elementi cognitivi e affettivi (sospensione delle opinioni pregresse, consapevolezza di non sapere, coraggio di apprendere, ecc.) ricevono la loro unità dalla vocazione pratica. Esercitare il buon senso è fondamentale per diventare un «uomo dabbene».
Lo studio dei classici
Abbiamo ora tutti gli elementi per comprendere la relazione tra il buon senso e lo studio dei classici.
« Riconosco proprio nell’educazione classica, innanzitutto, uno sforzo per rompere il ghiaccio delle parole e ritrovare al di sotto di esse la libera corrente del pensiero. Esercitandovi, giovani allievi, a tradurre le idee da una lingua ad un’altra, essa vi abitua a farle cristallizzare, per così dire, in più sistemi differenti; in tal modo, le libera da ogni forma verbale definitivamente chiusa e vi invita a pensare le idee stesse, indipendentemente dalle parole.
Nella preferenza accordata all’antichità non c’era soltanto una grandissima ammirazione per i modelli puri; si riteneva senza dubbio che le lingue antiche, ritagliando secondo linee ben differenti dalle nostre la continuità delle cose, conducessero, con un esercizio più violento e più radicalmente efficace alla liberazione dell’idea. E poi, fu mai tentato uno sforzo paragonabile a quello degli antichi Greci, per dare alle parole la fluidità del pensiero? […] In questo senso, l’educazione classica […] ci insegna soprattutto a non essere ingannati. Essa potrà mutare di oggetto particolare; ma conserverà sempre il medesimo fine generale, che è quello di sottrarre il nostro pensiero all’automatismo, di liberarlo dalle forme e dalle formule, in definitiva, di ristabilirvi la libera circolazio
Lo studio nozionistico dei classici non favorisce lo sviluppo del buon senso. Ma se questi sono letti allo scopo di soffermarsi sul complesso rapporto tra pensiero e linguaggio, tra idee e parole, allora la prospettiva cambia radicalmente. Nel classico le parole sono in stretto contatto con le idee, tra il linguaggio e il pensiero sussiste una libera circolazione della vita. Il rapporto abitudinario con le parole è rotto: queste non sono più semplici etichette apposte sulle cose e sugli stati mentali, ma specchi che riflettono il complesso legame tra pensiero e realtà. Il classico instaura un rapporto mimetico e creativo con la vita, che si nutre del dinamismo del senso, delle molteplici oscillazioni dei significati.
Far leggere i classici sotto questa luce significa esercitare il buon senso dei giovani: essi saranno indotti a mettere in discussione gli automatismi linguistici, le pericolose abitudini che portano a non pesare le parole, a esprimere con superficialità le proprie emozioni, a interagire senza seguire un’etica della comunicazione. La lettura del classico si configura come un esercizio spirituale in cui l’alunno si mette in gioco sui piani affettivo, cognitivo ed etico; infatti si richiede uno «sforzo continuo di un’attenzione perseverante» (Ivi).
Nell’immaginario scolastico il termine “esercizio” e il verbo “esercitarsi” sono associati ai quesiti posti alla fine dei capitoli dei manuali. L’esercizio si risolve in una serie di domande che hanno l’obiettivo di verificare le conoscenze, la abilità inferenziali e, in ambito scientifico, di calcolo e di applicazione di formule. L’esercizio di cui parla Bergson ha un ben altro tenore. Basta soffermarsi sulla maniera in cui il filosofo interpreta la traduzione. Non si traduce per tediare gli studenti con inutili rompicapi, ma per liberare l’idea da un’adesione troppo stretta alla parola, per renderla fluida. Nel condurre il pensiero oltre la parola “data” verso una parola “altra”, si sprigiona il senso.
Le idee si possono «cristallizzare» in sistemi differenti: ogni lingua ne mette in luce aspetti diversi senza che nessuna riesca a esprimerle in maniera adeguata. La traduzione è dunque un atto di gentilezza e di umiltà, in cui si riconoscono i limiti intrinseci del linguaggio. Chi traduce apprezza l’enorme difficoltà a esprimere se stesso, a descrivere il mondo e a cogliere il sentire altrui. Nell’uso comune delle parole, la libera circolazione della vita è interrotta; con l’esercizio spirituale della traduzione si contribuisce invece a riattivarla. La traduzione è così quasi un’azione terapeutica, perché ridà profondità e pathos alla lingua. Per Bergson il classico non è allora un blocco monolitico portatore di valore eterni e immutabili: il filosofo ne propone piuttosto una definizione operativa. Il classico è un luogo su cui esercitare il buon senso e l’intelligenza. Rispetto alle odierne apologie della cultura classica, la posizione del filosofo francese risulta di gran lunga più interessante.
Attualità di Bergson
La questione non è tanto di studiare o meno il latino o il greco, quanto il “come” e il “fine”. La riflessione di Bergson ruota fin dall’inizio intorno al telos degli studi classici. Leggere i classici e tradurli non può essere un mero “esercizio” tecnico, che dovrebbe insegnare genericamente “a ragionare” o ad apprezzare i valori “eterni” della cultura classica. Anche perché cosa significa “ragionare” o quale sarebbe l’“eredità” intemporale che dovrebbe costituire la nostra cultura? Salvatore Settis sottolinea a giusto titolo il pericolo di un uso strumentale della cultura greco-romana:
« È più facile […] usare e perpetuare impunemente lo stereotipo della “classicità” come culla e sanzione dell’Occidente, dato che decresce drasticamente il numero dei cittadini che potrebbero essere in grado di dubitarne con cognizione di causa. Come ogni altra immagine del “classico”, anche questa appare nelle vesti di postulato, ma in realtà rispecchia un progetto: il progetto di costruire un’identità salda e indubitabile per l’Occidente […] nell’età “classica” greco-romana, in quanto sostrato comune che nessuna delle nazioni dell’Occidente ha titolo a rivendicare come esclusivamente o prevalentemente proprio. Quest’immagine del “classico” s’intreccia dunque con la concezione (anch’essa di tradizione hegeliana) di un Occidente dalle frontiere ben chiare e ben chiuse, caratterizzato da forte dinamismo e contrapposto a un Oriente perpetuamente statico. Essa non è solo strettamente eurocentrica, ma anche coestensiva alla concezione della civiltà occidentale come superiore a ogni altra, e pertanto legittimata alle politiche annessionistiche o egemoniche del colonialismo e della soggezione economica e culturale. » (S. Settis, Futuro del classico)
Rispetto alle nostre querelle, la riflessione di Bergson si colloca su un altro registro, a mio avviso, più profondo e più utile sul versante della prassi didattica. Lo studio del latino deve essere funzionale a quella che potremmo definire una “conversione dello sguardo”. Il latino sì, ma con “buon senso”, purché si apprenda per cambiare il nostro rapporto con le parole, per comunicare con gli altri in modo meno superficiale, per comprendere le conseguenze delle nostre azioni, per alimentare «lo spirito di giustizia». Il contatto con le lingue antiche può aiutare a far vacillare i nostri pregiudizi e quelle dannose abitudini linguistiche che impediscono di andare oltre la foschia delle polarizzazioni e delle sterili polemiche. In un’epoca in cui le parole sono gusci vuoti, monete di scambio di qualità scadente, il latino e il greco costituiscono una grande risorsa. Tuttavia, se la riproposizione prende come modello la comune prassi didattica delle lingue antiche, non credo che si vada nella direzione descritta da Bergson. La disaffezione di molti studenti nei confronti della cultura classica non è forse dettata anche da un approccio che, per dirla con Nietzsche, sembra “antiquario”?
D’altronde affinché le lingue morte ritornino ad essere vive, non basta anticiparne lo studio o introdurre metodi per parlarle come se fossero ancora usate. Devono diventare un luogo in cui mettiamo alla prova noi stessi. Allora sì, avrà “senso” tornarle a studiare, perché è con “buon senso” e in vista del “buon senso” che le insegneremo e le apprenderemo.
22 gennaio 2025
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