Dov’è Dio? A questa domanda ancestrale Niccolò Cusano risponde, in uno dei suoi ultimi sermoni brissinesi, con una riflessione profonda e paradossale: Dio è ovunque, ma in nessun luogo determinato. Sulle orme di San Paolo, Dionigi l’Areopagita e Meister Eckhart, Cusano ci guida a comprendere come l’Assoluto possa essere presente in tutte le cose e, al tempo stesso, trascenderle.
di Maria Beatrice Liaci
Nel cuore dell’esperienza pastorale di Niccolò Cusano, i cosiddetti sermoni brissinesi rappresentano una testimonianza preziosa della sua capacità di coniugare l’esigenza speculativa con la cura dell’anima. Non si tratta, come si potrebbe pensare, di esercizi omiletici minori, ma di veri e propri laboratori teologici in cui Cusano trova forme nuove, spesso sorprendenti, per rivolgersi ai fedeli.
Composti per lo più tra il 1455 e il 1463, questi sermoni riflettono un’intensa attività predicatoria che Cusano condusse durante gli anni difficili del vescovado a Bressanone, segnati da tensioni con la nobiltà locale e da un profondo desiderio di riforma spirituale. Hans-Jochen Schiewer, nel suo saggio German Sermons in the Middle Ages, tracciando delle linee generali sulla predicazione del XV secolo, parla di due fenomeni che influenzarono profondamente i predicatori in Germania: i movimenti di riforma religiosa (gli ordini mendicanti, in particolare i Domenicani e l’ordine dei Benedettini) e la Devotio Moderna, che ebbe un effetto stimolante per la produzione e la riproduzione della letteratura sacra.
Queste caratteristiche sono rintracciabili nella predicazione di Niccolò Cusano, il quale si batté a lungo per la restaurazione disciplinare del clero, con l’intento di fare di Bressanone una diocesi modello, auspicando un’interiorizzazione dell’esperienza religiosa. La predicazione, per lui, non era solo un compito liturgico, ma una via per parlare direttamente al cuore dell’uomo, per metterlo in contatto con la verità di Dio e con quella dimensione nascosta che ogni creatura porta in sé.
I sermoni brissinesi sono scanditi dal Temporale, ossia il calendario liturgico diviso in Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua e Tempo Ordinario, come voleva il Missale Brixinense, e concordano grosso modo con la struttura tipica dei sermoni, i quali iniziano sempre con il commento di un versetto della Scrittura, il cosiddetto exordium.
Il sermone CCXVI fu pronunciato nel tempo liturgico dell’Epifania e prende le mosse da una domanda evangelica tanto semplice quanto abissale: Ubi est qui natus est rex Iudaeorum? Dove si trova il re che è nato? (Mt 2,2). L’interrogativo dei Magi si trasforma qui in un’indagine ontologica, in una meditazione che spinge il predicatore a riflettere non tanto su un luogo fisico, quanto su cosa significhi dire che Dio “è” da qualche parte. Dove abita Dio? E dove, soprattutto, l’uomo può sperare di trovarlo?
L’espressione paolina «Dio è tutto in tutte le cose» (I Cor 12,6 – 15,28) è centrale nella riflessione di Cusano, che la interpreta attraverso la mediazione dello Pseudo-Dionigi. Nel De divinis nominibus, Dionigi afferma che Dio, causa universale e vivificante di ogni cosa, contiene in sé tutte le cose «in maniera semplice e senza limiti», essendo «causa che possiede tutti i principi ed esiste soprasostanzialmente prima di tutte le cose». Dio non è quindi una cosa sì e un’altra no, non è in un luogo e non in un altro: Egli è tutte le cose in quanto causa prima.
Alla luce di questa riflessione, il vescovo di Bressanone introduce un’intuizione che mutua esplicitamente da Meister Eckhart, il quale,
nell’Expositio Sancti Evangelii Secundum Iohannem, interpreta il versetto 1,38
– Ubi habitas? – non come una domanda, ma come affermazione: «Tu abiti il
dove»:
«Notandum quod ista propositio potest legi etiam depressive, ut sit sensus: rabbi, tu habitas ubi, quasi diceret: tu es ubi et locus
omnium.»
Dio è, dunque, il locus di tutte le cose, il loro vero
“qui”.
Cusano accoglie questa idea per fondare una visione della relazione tra il creato e il Creatore in cui non esiste uno spazio “fuori” da Dio, perché ogni cosa è in Dio come nel proprio principio.
E di questo ci dà prova partendo da Qoèlet 1,7, dove si legge: «Tutti i fiumi corrono al mare…», proprio per mostrare come ogni creatura desideri tornare al proprio
principio:
«In loco enim omnia sunt in quiete et extra locum suum omnia sunt in inquiete, quia non sunt, quo tendunt.»
In quanto locus, Dio è la quiete verso cui tutto tende e il fine implicito di ogni movimento.
Ma la tensione tra immanenza e trascendenza non si dissolve in questa visione. Dio, pur essendo il luogo di tutte le cose, non è afferrabile da nessuna di esse. Proprio perché tutte le contiene, nessuna lo può contenere. È in questo contesto che si inserisce il cuore della filosofia cusaniana: la coincidentia oppositorum.
In Dio si superano e coincidono tutti i contrari: non valgono più le distinzioni e le opposizioni. Egli è in tutte le cose, in quanto ne è l’essenza, ma non è nessuna di esse in particolare. In Dio, l’essere e il non essere coincidono, così come il massimo e il minimo, l’uno e il molteplice, il tempo e l’eternità. È forma formarum, essenza assoluta che dà forma senza mai contrarsi in nulla.
Da questa idea, potente e destabilizzante, scaturisce una metafora che Cusano elabora con delicatezza e profondità: l’immagine di una mano e le sue dita.
Così come le dita ricevono forma e funzione dalla mano, ci dice Cusano, senza essere la mano intera, così ogni creatura riceve l’essere da Dio senza esaurirlo. Ogni dito forma la mano, ne è
espressione concreta, ma nessuna delle dita è identica all’essenza che la sostiene. Come la mano non si riduce a nessuna delle sue dita, così Dio è presente in ogni cosa senza mai confondersi con
alcuna. È questo uno dei paradossi più fertili del pensiero cusaniano: Dio è ovunque e da nessuna parte; è il fondamento di tutto, ma eccede ogni fondamento che possiamo
concepire. È nell’intimo più intimo e, insieme, oltre ogni cosa visibile.
Proseguendo con il sermone, Cusano rilancia con la domanda: Ubi non est Deus?
Dio, ci dice, non è in ciò che comporta privazione, male o mancanza. Ogni creatura è limitata e definita da ciò che non è, ma Dio è l’essere pieno: in lui nulla manca. Non è parte del
mondo, ma suo principio. È presente in tutte le cose come essenza, ma non identificabile con nessuna. È ovunque, ma non localmente. È totalità, non somma di parti.
L’universo, secondo Cusano, è un’unità organica. Le parti vivono solo nella relazione con il tutto. Un dito, isolato, cessa di essere tale. Ogni parte è definita, ma non autosufficiente. Il mondo, dunque, è un’immagine contratta dell’Assoluto: un maximum contractum che riflette simbolicamente, e mai esaustivamente, il maximum absolutum che è Dio. La creazione non è una semplice produzione, ma manifestazione visibile – e insieme velata – dell’Infinito. Il mondo intero è come una distensione delle dita della mano divina: ogni cosa ha un posto, una relazione, una forma; e tuttavia tutte rimandano a una centralità che le supera, che le unifica e le tiene. L’uomo stesso, in questo scenario, è un viator, un pellegrino che cammina “tra le dita” di Dio, cioè all’interno dello spazio che è Dio stesso, mosso da una tensione originaria verso la sorgente dell’essere.
Il sermone CCXVI si sviluppa dunque come una meditazione sull’essere in Dio, sul riconoscere il proprio “dove” nel cuore stesso dell’essere. Le parole dei Magi diventano il punto di partenza per una via mistica e speculativa che riconduce l’uomo all’interno di un orizzonte più ampio: quello di una creatura che cammina già in Dio, che respira Dio, e che tuttavia deve ancora imparare a riconoscerlo.
Non c’è nulla, nel sermone, che separi la teologia dalla filosofia, la preghiera dal pensiero. Cusano parla come pastore e come sapiente, come uomo di Chiesa e come uomo dell’anima. La verità che vuole comunicare non è una formula da ripetere, ma un’esperienza da vivere. Il Dio che è luogo di ogni cosa non si lascia trovare nelle mappe, ma nell’umiltà del cuore che sa riconoscere la propria origine. Solo la dotta ignoranza, riconoscendo i limiti del razionale, può in una certa misura oltrepassare la finitezza del reale per comprendere che Dio non è semplicemente in un luogo, ma è il luogo stesso.
18 giugno 2025
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