In questo articolo si riassumono brevemente i temi di un lavoro di ricerca indipendente, ancora aperto, a cui l’autore da anni si dedica con tempistiche e modalità differenti.
La filosofia del senso della condizione postkantiana
La tesi centrale della ricerca prende in considerazione la svolta mentale che ha contrassegnato il pensiero occidentale, maggiormente per via della forma più radicale dell’Illuminismo, la filosofia trascendentale di Kant. Ponendo il soggetto conoscente come condizione di possibilità dell’oggetto conosciuto, mediante un effetto domino, essa ha generato conseguenze che hanno intessuto un sottotesto culturale che ha indotto l’uomo a percepirsi sempre più artefice del senso di sé, del significato delle cose e del mondo circostante. Per il pensatore francese Alain Badiou non ci sono dubbi: «la filosofia critica di Kant […] ha spaccato in due la storia del pensiero». Dunque – spiega il filosofo americano Richard Rorty – «circa duecento anni fa cominciò a prender piede in Europa l’idea che la verità fosse una costruzione, e non una scoperta». In particolare, già nell’Ottocento, l’idealismo tedesco e Nietzsche contribuiscono al diffondersi dell’idea che, in un orizzonte di senso, esiste solo il senso che l’uomo pone e, nel mentre attribuisce senso, trae da esso ciò che egli è. Il senso prodotto restituisce identità al produttore ma questa è in continuo disfacimento e rifacimento insieme al senso, perché «ogni senso sta nell’intenzione, e una volta che l’intenzione venga a mancare del tutto, viene a mancare del tutto anche il senso». Tale “filosofia del senso” – espressa da Nietzsche nella formula del “nichilismo attivo” e maturata passo dopo passo nella “condizione postkantiana” (denominazione più completa rispetto a quella di “condizione postmoderna” offerta da Jean-François Lyotard) – sembra impadronirsi del Novecento attraverso le sue declinazioni di pensiero di maggiore successo, al punto che secondo lo studioso neo-realista Markus Gabriel ormai «ci siamo abituati a credere che il mondo (o almeno, una parte sorprendentemente ampia di esso) sia una nostra costruzione».
Questa interpretazione della condizione postkantiana rappresenta forse l'unico punto di convergenza tra i pensatori di diversa provenienza intellettuale che, all'alba del terzo millennio, hanno animato il dibattito sul nascente fenomeno culturale del Nuovo Realismo. Tra loro, certamente, spicca la posizione originale di Gianni Vattimo che con la sua teoria del “pensiero debole” offre una versione più ricca e compiuta del lungo processo storico che ha segnato il progressivo spostamento del baricentro dell’esistenza dall’Assoluto verso l’uomo, un cambiamento che per Dario Antiseri ha provocato una «metamorfosi della ragione».
È così che Vattimo colloca in una più ampia cornice storica la svolta di Kant, concependola come fondamentale passaggio del processo dell’“indebolimento dell’essere” iniziato con la venuta di Cristo in terra: «l’incarnazione, e cioè l’abbassamento di Dio al livello dell’uomo, ciò che il Nuovo Testamento chiama la kénosis di Dio – afferma Vattimo – […] una concezione della storia della modernità come indebolimento e dissoluzione dell’essere (della metafisica)». In tal maniera, il filosofo torinese identifica la storia del cristianesimo con quella del nichilismo: la morte di Dio annunciata da Nietzsche inizia con la morte di Cristo sulla croce. Mantenendoci fedeli alla ricostruzione storica di Vattimo, la conclusione che se ne può trarre è che se il processo d’indebolimento dell’Assoluto comincia con Cristo, esso affiora alla coscienza umana soltanto dopo Kant.
Dunque, il millenario processo di traslazione del baricentro esistenziale dall’essere-per-Dio all’essere-per-l’uomo, negli ultimi due secoli, genera una filosofia del senso che fa da sottotesto e che imprime una radicale svolta mentale, poiché – avverte il materialista speculativo Quentin Meillassoux – «esso suppone che dal tempo di Kant al nostro si sia prodotto un rilevante spostamento nella nostra concezione del pensiero».
La svolta mentale impressa dal pragmatismo esistenziale di Rorty e Vattimo
In una visione congiunta, Rorty e Vattimo sono i due filosofi che hanno posto al centro delle loro riflessioni il cambiamento mentale nella condizione postkantiana. Secondo lo studioso Jean Grondin, i due filosofi sono i massimi esponenti di quell’ermeneutica che egli definisce “postmoderna” e “relativistica” – ovvero la forma più radicale del postkantismo.
Come spiega Santiago Zabala, «Rorty e Vattimo partono dalla constatazione che l'umanità sia entrata “nell'età dell'interpretazione”. […] Superare la metafisica secondo Rorty e Vattimo significa smettere di interrogarsi su che cosa sia reale e che cosa non lo sia, significa riconoscere che qualcosa è meglio compreso quando se ne sa dire di più».
I due filosofi, in effetti, a partire dallo studio di autori come Nietzsche, Heidegger, Derrida, Dewey, Croce e Gadamer – per i quali «l'obiettività è una questione di “consenso linguistico intersoggettivo”» – hanno sviluppato la distinzione tra l’inveterato pensiero che riconosce le verità come indipendenti dalle costruzioni della mente umana (mentalità metafisica), e il pensiero, che, espressione del nichilismo storico, accoglie le verità come enunciati frutto di aperta e razionale negoziazione tra uomini (mentalità non metafisica). Esattamente, per il postkantismo radicale si tratta di costruzioni umane di senso la cui oggettività è riconosciuta consensualmente. Semplificando: per tutti una cosa è così perché tutti concordano di vederla come tale e non perché la vedono in sé.
Sostanzialmente – osserva Emanuele Severino, intervenendo nel dibattito sul Nuovo Realismo – si è andati oltre i traguardi prefissati dal criticismo kantiano, giacché «l'idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso». Il filosofo bresciano, allora, denuncia quelle che a suo dire sono le incongruenze logiche di tali filosofie: «Che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d'accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica?».
Tuttavia, è possibile capire il cambiamento mentale ulteriormente radicalizzato da Rorty e Vattimo solo se comprendiamo quanto la loro ermeneutica sia stata pervasa dall'incontro con l’esistenzialismo di Heidegger e il pragmatismo americano; anzi, già «in Sein und Zeit – a parere di Vattimo – Heidegger appariva come il filosofo di una sorta di pragmatismo esistenziale». Si spiega come per i due non ha senso scindere il piano logico da quello esistenziale-pragmatico. Per loro è inutile continuare a discutere di quello che è reale in sé o vero in sé: è razionalmente reale o vero ciò che è stato consensualmente riconosciuto come oggettivo perché in grado di offrirci possibilità di essere, ossia maggiori opportunità. La realtà (e la verità) si costruisce contestualmente al nostro essere.
Il punto focale dell’analisi sull’indebolimento dell’essere e sull’esito raggiunto ̶ l’estrema svolta mentale di cui è soprattutto il Novecento a farsi carico ̶ viene descritto da Meillassoux in questi termini: il postkantismo radicale ci ha indotti a credere che «non possiamo escludere a priori una realtà completamente diversa da quella che ci è data attualmente. […] Nulla può esser detto assolutamente impossibile, neppure l’impensabile. […] Non posso pensare l’impensabile, ma posso pensare che non è impossibile che l’impensabile vi sia».
Quindi, è rilevante che sulla base dell’estremo sviluppo storico del pensiero postkantiano verso cui richiama l’attenzione anche Meillassoux – e che per Grondin raggiunge la massima espressione con le filosofie di Rorty e Vattimo – si faccia strada l’assunzione di un atteggiamento in cui si accoglie che ogni proposta possa essere revocabile e sostituibile, come ribadito da Severino in più occasioni definendo tale atteggiamento come il «sottosuolo della filosofia (ossia dell’anima) del nostro tempo».
Il concetto di “mentalità metafisica” elaborato da Rorty e Vattimo evoca dunque la denuncia nietzscheana di uno squilibrio, tipico dell’età prekantiana, che porta a trasformare le umane costruzioni di senso in idee immutabili per offrire un’identità stabile e rassicurante di sé e del mondo, rendendole così resistenti all’incessante azione riformatrice dionisiaca. L’idea di “mentalità non metafisica”, invece, esprime la consapevolezza e la propensione a ridescrivere sempre sé stessi e il mondo; è l’incalzante atteggiamento dionisiaco incline a svincolarsi da schemi mentali refrattari.
Il pensiero postkantiano è pensiero disinibito. Verso un’ermeneutica delle opportunità
Dopo il crollo dell’ordine reale del mondo, che non ha retto alle critiche filosofiche, Rorty e Vattimo ritengono più razionale vivere con il sospetto che ciò che oggi è potrebbe non essere più domani e viceversa. Questo non per affermare una condizione ontologica di precarietà e quindi crogiolarsi nel nichilismo negativo, ma (attenzione!) allo scopo di non precludersi nuove prospettive di vita: mettersi nella condizione di poter avere diverse e anche imprevedibili opportunità, potenzialmente infinite. In sostanza, gli ultimi esiti dell’ermeneutica esigono di valutare le conseguenze esistenziali ma anche pragmatiche di una nuova mentalità: una postura di “pensiero disinibito” che ricostruisce continuamente la sua identità e quella del mondo nelle sue possibili infinite produzioni di senso e che si apre, di conseguenza, alle infinite opportunità di poter essere, che si traducono in infinite possibili realtà. La svolta mentale, pertanto, è una modificazione del pensiero che inevitabilmente si riflette sul piano esistenziale-pragmatico ma che a sua volta modifica incessantemente il pensiero.
La via indicata dall’ermeneutica postmoderna, dunque, è quella di un’“ermeneutica delle opportunità” poiché «il pensiero postmetafisico ̶ chiarisce Rorty ̶ è espressione della propensione a puntare sulle opportunità che ci sono offerte [corsivo nostro], anziché tentare di sfuggire alla nostra finitezza allineandoci con una potenza infinita». Richiamandosi a concetti già presenti sia in Heidegger che nel pragmatismo ̶ ma anche nelle maggiori filosofie del Novecento, per influenza reciproca ̶ per il pensiero ermeneutico l’uomo nel mondo è progettualità, quindi costruttore di opportunità.
Si potrebbe concludere che, in questo suo particolare significato, il concetto di opportunità è l’ultima manifestazione post-illuministica del già citato millenario percorso di traslazione del baricentro esistenziale per cui la “realizzazione di sé” e la “possibilità d’essere” si trasferiscono sempre più dall’essere un progetto divino all’essere un progetto umano. Opportunità, dunque, è ogni pensiero e ogni fatto che aggiungono o sostituiscono un tassello al senso di identità che l’uomo aspira a realizzare, verso sé e verso le cose (pure costruzioni di senso) e quindi, per esempio (si rifletta bene), anche Dio può essere riammesso ̶ per autonoma consapevolezza ̶ come valida opportunità per l’essere umano, come accade in Vattimo.
Il pensiero postkantiano è pensiero razionale disinibito e critico-opportunistico
Il “nuovo opportunismo” richiede un riesame della nozione stessa di “opportunismo”, che nel suo significato comune è inteso come sinistro personalismo. In un mondo il cui senso dipende dal soggetto, il personalismo è di casa; sebbene anche la realtà più personale e interessata sia espressione di progettualità. Tuttavia, è a dispetto della tradizionale interpretazione che si dà della condizione postkantiana ̶ cioè come condizione che precipita nell’irrazionale ̶ che l’ermeneutica intravede nel processo di evoluzione impresso al pensiero critico una concreta fortuna, dovuta ad una proposta che promette maggiore fecondità, ovvero più opportunità. È proprio la nuova forma “disinibita” del pensiero critico a garantire tale fertilità, è la condizione postkantiana radicale: sono le infinite possibili produzioni “personali” di senso e poi l’accordo tra i soggetti che determinano le opportunità da condividere. È il pensiero critico nella sua versione più disinibita ̶ secondo cui è opportuno “mai dire mai” perché tutto potrebbe essere possibile ̶ a ragionare sulle opportunità. Si tratta di un atteggiamento disinibito di tipo critico-opportunistico che non volendo escludere che le cose possano essere diversamente non pone limiti alle produzioni di senso ma poi misura la loro razionalità sulla base delle opportunità che offrono.
Dunque, quello debole è un pensiero critico che si muove lungo il sentiero dell'esperienza e dei discorsi controllati, «è una logica ̶ chiarisce Vattimo ̶ inscritta nella situazione, fatta di procedure di controllo che sono date di volta in volta, nello stesso modo non-puro in cui sono date le condizioni storico-culturali dell’esperienza».
La “potenza critica” tipica del pensiero postkantiano – come l’ha definita Meillassoux ̶ in breve, resta il principale punto di riferimento, il nuovo cardine attorno a cui far ruotare il mondo. Si tratta di un pensiero critico che Rorty e Vattimo orientano verso un’ermeneutica delle opportunità secondo uno spirito di pragmatismo esistenziale, nei termini di una opportuna postura esistenziale che si traduce per l’esattezza in atteggiamento mentale disinibito e critico.
Dal razionalismo critico all’opportunismo critico
In queste ultime argomentazioni, non saranno pochi i lettori che avranno avvertito la somiglianza con quel razionalismo critico che nel XX secolo si è costituito come base ideologica del pensiero scientifico, grazie soprattutto all’epistemologia di Karl Popper. Per alcuni, potrà risultare sorprendente l’affermazione per la quale la condizione postkantiana esprime un’uniformità di pensiero pari all’ermeneutica postmoderna e al razionalismo critico. Eppure, quando si afferma che l’ermeneutica vuole “misurare la razionalità delle proposte sulla base delle opportunità” mediante una logica «inscritta nella situazione, fatta di procedure di controllo» significa assumere lo stesso atteggiamento razionalistico che secondo Popper «è caratterizzato dall’importanza che esso attribuisce all’argomentazione e all’esperienza». Questo è il medesimo modello di pensiero che ispira il metodo della scienza avanzato dall’epistemologo viennese nella formula del falsificazionismo che ̶ come conferma anche Giulio Giorello ̶ non è altro che «sinonimo di atteggiamento critico».
I maggiori studi sulla teoria popperiana, oramai, sembrano condurre alle medesime conclusioni: l’“atteggiamento critico” e il “consenso della comunità scientifica” sono i suoi due capisaldi. Al riguardo, nel marzo del 2025, la Cambridge University Press ha pubblicato uno studio che passa in rassegna e confronta tra loro le posizioni accademiche internazionali più autorevoli e diversificate sull'argomento, giungendo a risultati equivalenti a quelli esposti nel nostro lavoro. Secondo Dániel Bárdos e Adam Tàmas Tuboly, autori della ricerca, contrariamente alla volontà dell'epistemologo viennese, sembra difficile poter derivare un unico criterio di demarcazione tra scienza e pseudoscienza, valido per tutte le discipline, per stabilire cosa sia scientifico. Tuttavia, grazie a Popper, è certamente possibile dire cosa non lo sia. In effetti, l'atteggiamento dello scienziato che cerca di confermare le teorie anziché criticarle metodicamente è antiscientifico e, di conseguenza, è antiscientifico evitare le critiche della comunità degli studiosi perché «non è affatto chiaro cosa sia l'evidenza empirica e come dovrebbe plasmare decisioni e azioni. Se la prova empirica parlasse da sola, nessuno avrebbe problemi a demarcare la scienza. […] Se esiste una comunità sufficientemente numerosa, saranno le sue critiche e discussioni generali a decidere in merito alle prove e alle loro connotazioni». Dunque, la configurazione che Popper offre del metodo scientifico come ipotetico-deduttivo comporta che: si possono congetturare anche le costruzioni di senso che prima erano ritenute più “impossibili e impensabili” (l’autore le chiama «ipotesi ardite») ma esse devono potersi presentare con una struttura logica tale da consentire la loro confutabilità.
Il modello popperiano di “atteggiamento critico” se liberato dalla classica ideologia che ricerca socraticamente la verità si presenta come baluardo razionale del pensiero disinibito. Difatti, la teoria del viennese resta valida pur eliminando del tutto ogni collegamento con l'idea classica di verità a cui egli stesso ha sempre voluto tenerla legata (criterio di verisimiglianza). Inquadrato in una mentalità non metafisica, cioè svincolato dal “mito della verità”, il falsificazionismo appare essere puro confutazionismo, costruttore di proposte da sottoporre a critica aperta: nient’altro che un accordo provvisorio. Emerge, dunque, che il modello di pensiero (non si parlerà di metodo) che il postkantismo ci ha consegnato è identico sia all'ermeneutica che all'epistemologia. È l’eredità del Novecento. È la svolta mentale postkantiana.
«Ebbene ̶ spiega Dario Antiseri ̶ quand'è allora che una teoria è migliore, preferibile e progressiva nei confronti di un'altra? A tale interrogativo, [l’epistemologo] Larry Laudan risponde che è razionale scegliere quella teoria che all'epoca risolve più problemi e problemi all'epoca più importanti». E cioè, aggiungiamo noi, la “razionalità” di una teoria non è data dalla sua presunta “verità” ma dalle opportunità che esprime.
D’altronde la questione non riguarda solo la mentalità scientifica ma investe tutto il comune pensare. Se la nostra esperienza, in accordo con quella degli altri uomini, ci porta a pronunciare asserzioni ben precise, che riteniamo corrispondenti alla realtà, ciò non rende meno ragionevole assumere un atteggiamento mentale che non voglia escludere ogni altra eventuale opportunità, per quanto assurda possa sembrare. In vero, la commistione tra mentalità metafisica e mentalità non metafisica rende difficile l’assunzione di un autentico atteggiamento disinibito che non escluda l’impossibile. Difatti, saremmo disposti a conservare il medesimo atteggiamento mentale in ogni caso? Saremmo disposti, ad esempio, a non escludere che la Terra potrebbe anche non essere sferica? La difficoltà ad accettare quest’ultimo enunciato o la predisposizione a giudicarlo bizzarro o folle prescindendo da un atteggiamento disinibito-critico-opportunistico smaschera una inveterata mentalità in cerca della verità intesa come corrispondenza con una realtà “là fuori”, mentre, l’assumere come habitus mentis l’atteggiamento disinibito critico-opportunistico comporterebbe il non precludersi possibilità d’essere, perché ciò che oggi non è un’opportunità potrebbe esserlo in futuro. Ne deriva che accogliere l’enunciato “per me tutto è/sarebbe possibile” non vuol dire che “tutto è realmente adesso possibile” ma significa essere consapevoli di operare una scelta delle cose sulla base delle opportunità (cioè la costruzione di un senso dentro un progetto in divenire) e non di operare una scelta perché le cose sono realmente così senza che abbiano la possibilità di essere diversamente. È evidente che la condotta di pensiero che ci tiene legati a schemi mentali refrattari ci impedisce di prendere in considerazione nuove opportunità che metterebbero in discussione tali schemi.
In definitiva, l’opportunismo critico dell’ultimo postkantismo non pare suggerire una teoria della conoscenza, né una teoria dell’ontologia, bensì sembra un invito ad indossare un habitus mentale, ad assumere un atteggiamento di pensiero, una condotta più razionale per una diversa etica della mente. Risulta evidente, dunque, che l’atteggiamento critico-opportunistico converte l’atteggiamento critico (e autocritico) sostenuto da Popper in una postura di consapevole pensiero disinibito che non ostacola ogni possibilità di essere ma opera un razionale discernimento inteso come critica alle possibili infinite opportunità di realtà. E allora, la discussione tra le parti e la confutazione alle congetture in cerca di verità si trasformano in discussione e confutazioni alle possibili opportunità di verità che si potrebbero realizzare. Si tratta di una postura sia individuale che sociale e il risultato finale sarà pur sempre un accordo razionale scaturito “dall’argomentazione e dall’esperienza” e non dalla costatazione di una realtà in sé.
Chiudendo il cerchio, si può così riassumere: la “svolta mentale” del pensiero postkantiano consiste nel rapportarsi al mondo raccontandolo sulla base dell’esperienza e del confronto critico e aperto, libero dalla “idea classica di verità” e dalla “idea classica di realtà”, retaggio del pensiero pre-kantiano. Ciò che è vero e reale trova posizione all’interno di un progetto in divenire, critico e razionale, e non è ancorato a qualcosa che gli impedisca di poter essere diversamente. È una questione di mentalità. Una diversa mentalità.
Le conclusioni sull’opportunismo critico
A differenza di quanto in molti avevano denunciato nel Novecento, lo “spostamento mentale” maturato nella condizione postkantiana rivendica una concreta svolta razionale, giacché l’atteggiamento disinibito-critico-opportunistico non conduce ad accettare qualsiasi cosa dissennatamente ma, al contrario, vuole criticare ogni cosa e valutare se possa essere una ragionevole opportunità realizzabile. Infatti, una postura mentale disposta alla realtà aperta, in continuo facimento e disfacimento, svincolabile da idee refrattarie, mira a presentarsi potenzialmente più fertile perché affacciata alle infinite possibili opportunità di realtà. Ne consegue che all’inizio del terzo millennio la disinibizione del pensiero è giunta a trascendere le intenzioni della stessa ermeneutica postmoderna poiché, ad esempio, un atteggiamento critico-opportunistico non mancherebbe, ogni volta che se ne presentasse la necessità, di valutare anche le opportunità di un pensiero fondazionale. L’oltrepassamento della metafisica sarebbe solo il trasferimento dal regno dell’assoluto a quello delle possibili opportunità; la metafisica non sarebbe un errore da eliminare definitivamente, ma come ogni altra cosa rientrerebbe nell’alveo delle opportunità da discutere e da ridiscutere nei momenti in cui vi è richiesta, al punto che prende forma la risposta alla pesante questione sollevata da Severino: «Non ci si potrebbe forse trovar d'accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica?».
In conclusione, l’opportunismo critico si ripromette di poter offrire una ragionevole etica della mente, una condotta razionale che disinibitamente non si preclude a priori un’apertura alle proposte presentate come opportunità. Tuttavia, per uscire dalla sfera personale (solipsismo) e per diventare opportunità condivise e realizzabili, esse devono continuamente prestare il fianco alle pubbliche confutazioni. In definitiva, è il pensiero critico a legittimare il senso collettivo e “reale” di un’opportunità.
26 giugno 2025
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