In un tempo segnato da automatismi, algoritmi e logiche produttive sempre più pervasive, il gesto creativo si staglia come un’anomalia: libero, imprevedibile, resistente all’omologazione. Ma è ancora possibile, oggi, pensare l’arte come accesso privilegiato a una forma più autentica di esperienza del mondo? Attraverso un confronto con alcuni tra i maggiori pensatori del Novecento, si intende gettare uno sguardo sulla frattura – e la possibile intesa – tra creazione artistica e orizzonte tecnico della contemporaneità. L’arte, forse più di ogni altro linguaggio, può ancora aprire uno spazio di resistenza, un varco attraverso cui riscoprire la densità del reale.
di Giulia Minenna
Iniziamo con una domanda schietta, scomoda: come può il dono della creazione artistica conciliarsi con le logiche strumentali della società odierna, ipermeccanicizzata, in preda ad algoritmi sempre più irraggiungibili ed alienanti? Può mai esistere conciliazione? Non è facile rispondere, né tantomeno avvicinarsi a questo argomento. Alcune conversazioni quotidiane e le considerazioni di una serie di filosofi hanno ispirato però questa riflessione, ed è doveroso avvicinarsi in principio a questi ultimi per cercare di vederci chiaro. Maurice Merleau-Ponty, con la riscoperta di una dimensione originaria della pittura, Theodor Adorno, con la teorizzazione del concetto di industria culturale, Martin Heidegger, con la critica alla questione della tecnica, sono solo alcuni dei nomi che hanno riportato al centro delle proprie osservazioni il rapporto spesso tormentato dell’arte con la società contemporanea, troppo occupata nelle proprie faccende logistiche e dunque incapace di valorizzarla per davvero. Anche se questi autori appartengono al secolo scorso, nelle loro pagine si percepisce una particolare indignazione rivolta verso il nuovo modo di organizzare il nostro mondo che comincia ad affacciarsi nel Novecento, verso la sua tecnicizzazione sempre più opprimente. Tra le loro righe leggiamo la volontà di lanciare un appello, la richiesta di non abbandonare quel suolo originario che permette di ancorarsi alla vera essenza delle cose e che ne rappresenta il modo di attingervi più immediato. Si tratta quasi di emulare quel “ritorno alle cose stesse” che ci ha insegnato la tradizione fenomenologica, un ritorno ad una dimensione precedente la costruzione di un qualsiasi giudizio attorno ad esse, di ogni sovrastruttura scientifica o naturale, il puro percepirle nel modo in cui si danno.
È a questo suolo originario che si attinge sempre e comunque quando si crea, e lo sanno bene gli artisti, lo sanno meglio di chiunque altro cerchi di scrivervi qualcosa o comprendere questo processo. Quando la terra perde il contatto con esso, che in lessico specialistico Husserl e Merleau-Ponty hanno chiamato Boden (suolo, pavimento delle cose), questa comincia a snaturarsi sempre più, ad allontanarsi da quel territorio primigenio che costituisce la radice del tutto. Ma come si è verificato questo allontanamento, come ha raggiunto gradi di sviluppo in realtà allora ancora impensabili? Già Husserl aveva denunciato ciò nella Crisi delle scienze europee (1954), in particolare mostrando come la scienza moderna, pur tenendo fede al proposito di spiegare esaustivamente il funzionamento della natura, finisca per offrirci una visione opaca della realtà, che non riesce a rendere la verità intrinseca dei fenomeni, della realtà circostante. Ammesso che questa verità si possa raggiungere, e Husserl è molto critico su questo punto, la scienza, prima in modo meno evidente, ora sempre più, non fa altro che costruire, coi propri strumenti, un apparato matematicamente fittizio che ricade come una camicia di forza sulle cose, privandole della loro vitalità, del loro fluire spontaneo. Essa si illude che l’esattezza dei ragionamenti e delle formule possa restituire l’anima del mondo, o perlomeno possa cercare di conoscerla. Lungi dall’affermare che la scienza sia perciò dannosa o colpevole, e lodandone anzi le grandi potenzialità, Husserl denuncia in questa sede il suo impiego meccanico e ripetitivo, la progressiva perdita di senso delle operazioni che compie, lo smarrimento della cornice di fondo in cui queste dovrebbero invece collocarsi, il mondo-della-vita, che precede ogni teorizzazione filosofico-scientifica.
Se l’artista, come ci insegna Merleau-Ponty nella sua vasta e interessante produzione (che non si stanca mai di cercare un punto di contatto fra le più disparate discipline), non può prescindere dalla natura naturans in cui abita, se egli prende le mosse proprio dal contatto estremo e dalla congiunzione del proprio sé con la sua opera (che naturalmente poggia anch’essa sul suolo originario che abbiamo evocato) fino a sfumarne all’interno, come può egli fuggire, dunque, da una realtà sempre più percepita attraverso schemi, composizioni, meccanismi, che si impongono su di noi? Come può, anche riuscendovi, continuare la propria impresa a lungo, non rischiando di appassire o soccombere sotto la morsa incessante dell’omologazione?
A questo punto si mette piede su di un terreno abbastanza impervio, quello che opera il discrimine tra creazione autentica e ciò che aspira ad esser tale. La vera creazione può andare oltre queste delimitazioni, può continuare a rigenerarsi da sé per appartenere al futuro, o è destinata ad essere seconda alle logiche stringenti della società? Credo sia giusto riporre nella prima opzione la giusta fiducia, credo che le opere d’arte, musicali, pittoriche, letterarie, finanche saggistiche, debbano essere concepite come uno strumento importante per non smarrire la possibilità di creare nuove configurazioni di senso, parentesi più ampie dove il tutto possa ritrovare il suo proprio colore, dove l’uomo possa riconnettersi con quell’esperienza delle cose che abbiamo ormai perso. A questo proposito, è necessario che il primo passo sia mosso da chi, dotato di maggiore sensibilità, sia in grado di individuare per primo i punti di rottura che occorre riparare con pazienza, anche spingendosi oltre i territori conosciuti.
È di importanza vitale che la creazione si renda tangibile e contemplabile all’occhio comune, per risvegliare quella sensibilità perduta pur di far posto a ciò che ci si impone con la forza, che finisce per plasmare il nostro gusto e per imporre una visione statica del mondo. Ci si può sintonizzare sulla giusta frequenza solo se si è disposti a riconoscerne il perenne cambiamento. Proprio qui l’estrema importanza dell’opera d’arte, proprio qui la risposta al dilemma iniziale: la creazione artistica può intravedere conciliazione con la società odierna solo se quest’ultima si dispone ad accoglierla, se si allontana dalla pretesa di rendere tutti schiavi del comune, dell’univoco, dell’ordine e dell’ordinario, se si mostra propensa a tener conto dei prolifici risultati a cui può condurre il processo. Ciò dovrebbe consistere nella maggiore valorizzazione delle realtà musicali, letterarie, poetiche, nella consapevolezza della necessità estrema di avvicinarsi oggi a queste modalità di simbolizzare il mondo, di coglierne la cifra essenziale, di costituire nuovi e molteplici sensi. A questo proposito può essere interessante leggere le parole di Merleau-Ponty rispetto a Cézanne, un pittore che lo affascinava molto e con cui si trovò spesso a intrattenere un serrato dialogo, assumendolo qui come paradigma dell’autentica esperienza artistica nel suo attingere a quel suolo originario e primigenio a cui abbiamo fatto riferimento:
« Cézanne non vuole separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera di apparire, vuole dipingere la materia che si sta dando una forma, l’ordine nascente attraverso un’organizzazione spontanea. (…) egli introduce la frattura tra l’ordine spontaneo delle cose percepite e l’ordine umano delle idee e delle scienze. Noi percepiamo le cose, ci intendiamo su di esse, siamo ancorati ad esse, e solo su queste fondamenta di «natura» costruiamo delle scienze. Cézanne ha voluto dipingere questo mondo primordiale, ed ecco perché i suoi quadri danno l’impressione della natura alla sua origine. (…) Cézanne ha voluto rimettere l’intelligenza, le idee, le scienze, la prospettiva e la tradizione a contatto con il mondo naturale che esse sono destinate a comprendere, e confrontare con la natura, come afferma, le scienze ''che ne sono scaturite''. » (Il dubbio di Cézanne, 1945)
Solo recuperando il rapporto con la natura – sia interiore, percezioni individuali, emozioni, sentimenti, che esteriore –, ciò che appare immediatamente ai nostri occhi, senza nessun altra mediazione scientifica o tecnologica, possiamo essere più consapevoli della nostra provenienza in quanto umani, e soprattutto possiamo essere disposti ad ascoltare voci diverse senza che nessuna si imponga come la più forte. All’interno di questo rinato panorama troviamo anche una risposta più compiuta al quesito iniziale: i veri artisti restano fedeli alla propria anima, anche quando sembrano essere rimasti solo dubbio e incertezza, nella consapevolezza del loro tesoro, il poter guardare attraverso un caleidoscopio dalle molteplici sfumature. E, con loro, anche noi.
11 giugno 2025
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