130 anni fa con l'opera Psychologie des foules, Le Bon ci spiegava come le masse potessero essere guidate non dalla ragione, ma dall’emozione. Da Goebbels ai social, la lezione è rimasta intatta: semplificare, ripetere, controllare. Questo articolo ricostruisce la genealogia della propaganda, dai totalitarismi alle nostre democrazie distratte. Oggi più che mai la vera battaglia politica si gioca sulla non-partecipazione e sul controllo ideologico delle masse.
di Vincenzo Fiore
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’emergere tumultuoso delle masse sulla scena politica, i vecchi sovrani europei furono colti da una profonda inquietudine: le folle, un tempo relegate ai margini della storia, reclamavano ora visibilità e potere. Fu in questo contesto che Gustave Le Bon, medico, sociologo e positivista, pubblicò nel 1895 la sua celebre Psicologia delle folle. Le Bon fu tra i primi a comprendere che l’opinione delle masse non poteva più essere contenuta o ignorata. Esse non ragionano come individui isolati, ma si fondono in un organismo collettivo capace di slanci entusiastici e di atti feroci, mosso non dalla logica bensì dal contagio emotivo. La massa, nella sua concezione, non pensa, ma reagisce; non valuta, ma assorbe; non discute, ma crede. L’ingresso delle classi popolari nella vita politica rappresentava, a suo dire, una transizione epocale, paragonabile alla sostituzione del diritto divino dei re con quello, ancor più tirannico, delle folle.
Questa diagnosi, pur elaborata in ambito liberal-conservatore, si trasformò nel Novecento nella cassetta degli attrezzi dei totalitarismi. Non a caso, Hitler era stato un lettore entusiasta dello studioso francese e Mussolini nel ’26 scriveva: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. È un’opera capitale alla quale spesso ritorno». Chi senz’altro non poteva non conoscere questo testo fu Joseph Goebbels, Ministro del Reich per la Propaganda dal 1933 al 1945, comprese con lucidità disarmante che il potere, per essere duraturo, non doveva solo esercitarsi, ma penetrare, educare, modellare le masse dall’interno. Egli fu il tecnico del consenso, il demiurgo del pensiero imposto come fede, colui che ingannò gli altri nazisti sulle sue malformazioni congenite presentandosi come l’ariano puro e come reduce di guerra. Tradusse le intuizioni di Le Bon in un apparato metodico, sistematico, definito nei celebri undici principi della propaganda individuati e isolati da Leonard W. Doob, psicologo e studioso della manipolazione, nel 1950, all’interno di una sua analisi pubblicata in Public Opinion and Propaganda: A Book of Readings. Tra i vari punti di Goebbels vale la pena citare il principio della semplificazione, secondo cui è necessario adottare una sola idea, un solo nemico, in grado di catalizzare tutto il disprezzo e la paura del popolo; quello della volgarizzazione, che impone un linguaggio semplice, diretto, infantile, adatto a «quelle masse che sono come una folla di bambini incerti, incapaci di giudicare, pronte a credere a ciò che più le colpisce emotivamente», ovvero bisogna saper parlare adattando il linguaggio al meno intelligente degli ascoltatori; quello dell’orchestrazione, secondo cui pochi concetti devono essere ripetuti ossessivamente, sotto forme diverse ma convergenti, fino a diventare verità interiorizzate; infine, il principio dell’unanimità, che mira a generare l’impressione che tutti pensino allo stesso modo, rendendo impensabile, oltre che pericoloso, il dissenso.
La propaganda goebbelsiana, come emerge chiaramente dalle sue strategie, non era un’arte della persuasione nel senso classico del termine: essa non voleva convincere il cittadino, ma sostituirsi al suo pensiero, cancellarlo nella radice stessa. Non si trattava di imporre una dottrina, ma di costruire una realtà simbolica in cui la menzogna, se ripetuta all’infinito, potesse diventare verità. Lo stesso Hitler, nel Mein Kampf, dichiarava esplicitamente che «la propaganda non deve indagare la verità oggettiva, perché la massa non la comprende e non ne ha bisogno», ma deve semplicemente comunicare ciò che serve al potere per consolidarsi. Il punto d’arrivo di questa logica è racchiuso in un’affermazione lapidaria di Hitler quando già si stava prendendo il suo «spazio vitale» ad est, quando temeva che la conoscenza storica potesse significare il rischio di coscienza critica: «Tutto quanto i russi, gli ucraini, i kirghisi potessero imparare a scuola (non fosse altro che a leggere e scrivere) finirebbe per volgersi contro di noi. Un cervello illuminato da alcune nozioni di storia giungerebbe a concepire idee politiche, e questo non andrebbe mai a nostro vantaggio».
È in questa prospettiva che l’opera di Hannah Arendt si pone come una risposta filosofica e politica alla degenerazione della modernità. In Le origini del totalitarismo, la filosofa tedesca analizza con profondità il legame perverso tra isolamento individuale e dominio collettivo. Le masse, private di riferimenti morali, affettivi e razionali, diventano disponibili a credere all’inverosimile, accettano come realtà ogni costruzione fittizia, purché venga presentata con coerenza e potenza. Il totalitarismo, per Arendt, non è solo terrore: è soprattutto illusione sistemica, menzogna istituzionalizzata, fantasia imposta come normalità. È l’abolizione dello spazio politico come luogo di confronto, in favore di un universo simbolico chiuso, dove ogni voce fuori dal coro viene percepita come minaccia all’ordine.
In questo senso, la parabola che da Le Bon conduce a Goebbels e si specchia nella riflessione di Arendt non è semplicemente un percorso intellettuale: è il disvelamento di un meccanismo che, una volta compreso, rivela la fragilità democratica di ogni società. Il principio della propaganda efficace non è solo proprio delle dittature: esso agisce silenziosamente anche nei sistemi democratici corrotti, là dove l’informazione si piega alla spettacolarizzazione, dove la semplificazione diventa regola del discorso pubblico, dove la reiterazione di messaggi banali e di slogan costruisce verità paralizzanti. In ciò la metafora della “rana bollita”, cara a Sedgwick e ripresa da Chomsky, diventa epilogo didattico: la propaganda non colpisce con violenza, ma a gradi; non schiaccia, ma addormenta; non costringe, ma persuade lentamente a non reagire. Nelle nostre democrazie distratte e disaffezionate alla partecipazione, il pensiero critico muore non per censura diretta, ma per saturazione, per stanchezza, per abitudine al falso.
In ultima analisi, è proprio nella banalità del consenso che si annida il germe del totalitarismo e della demagogia, ma questo lo sapeva già bene Platone che nella sua metafora della democrazia, come nave che naviga in mare in tempesta, descriveva la derisione a cui erano costretti i veri tecnici del pilotaggio, spesso liquidati come noiosi osservatori del cielo a favore di coloro che erano abili nella retorica. Non nelle grandi dichiarazioni ideologiche muore la prassi democratica, ma nella quotidiana accettazione di ciò che è inverosimile, nella rinuncia al dubbio, nell’adesione acritica «al si dice». Ed è per questo che la storia, come disciplina e come coscienza, deve essere insegnata: perché educa alla complessità, abitua alla contraddizione, forma allo sguardo critico. Dove la storia è bandita o snobbata, la propaganda diventa legge. Dove la memoria è viva, il potere ha un limite. Dove il passato viene interrogato, il futuro non è consegnato in ostaggio. Arendt lo sapeva e forse, in questo estratto aveva già spiegato tutto: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più».
5 luglio 2025