Nel grande affresco metafisico del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena la creazione dell’universo si configura come il processo di auto-creazione della natura divina e al tempo stesso come theophania o manifestazione di Dio (dove il genitivo è sia soggettivo che oggettivo). Una concezione da sempre vista con sospetto (per le ricorrenti accuse di “panteismo”), ma che merita di essere rivalutata alla luce di una più attenta lettura delle sue premesse filosofiche.
di Giovanni Zuanazzi
Fra le grandi narrazioni che hanno accompagnato la storia dell’uomo, quella delle origini dell’universo è senza dubbio una delle più cariche di significato. Il tema dell’inizio assoluto attraversa le culture, i miti, la riflessione filosofica, le molteplici forme di espressione artistica di tutti i popoli. Per restare all’interno dell’orizzonte biblico (ebraico e cristiano), la stessa nozione di creazione, intesa come la produzione totale degli esistenti da parte del primo Principio, è stata variamente interpretata attraverso i secoli. Dio chiama all’esistenza per mezzo della sua parola, ma anche plasma o dà ordine a una materia preesistente, oppure separa e distingue gli elementi, o ancora crea dal nulla, ovvero si ritira per fare posto al mondo, e così via.
Nell’elaborazione dell’idea di creazione ha una particolare rilevanza Giovanni Scoto, detto ''Eriugena'', ossia nato in Irlanda (c.800-c.877), la figura più rappresentativa della cosiddetta rinascita carolingia. Con i suoi commenti a Dionigi l’Areopagita e al Vangelo di Giovanni e soprattutto con l’«immensa epopea metafisica» del Periphyseon, egli si situa all’interno di una tradizione, quella del neoplatonismo cristiano, che rifiuta il vocabolario tecnomorfo, caratterizzato dall’analogia con il creare proprio dell’artista o dell’artigiano umano, e pensa la creazione come un processo di auto-esplicazione o di auto-manifestazione di Dio (processio o explicatio Dei). Questa concezione, spesso accusata di immanentismo, non sembra in realtà escludere (almeno non necessariamente) la trascendenza del Principio divino, come dimostra proprio il pensiero di Eriugena. Pur divenendo tutti gli esistenti che procedono da lui, Dio infatti rimane allo stesso tempo totalmente al di là di essi in modo super-essenziale, perché è assolutamente libero rispetto ad essi.
Il problema della causalità divina è posto espressamente da Giovanni Scoto all’inizio del primo libro del Periphyseon, dove il discepolo solleva un’obiezione che sembrerebbe invalidare la definizione di Dio come natura che crea e non è creata. Come si può conciliare una tale definizione con le affermazioni di quei teologi (in primis lo Pseudo-Dionigi, massima autorità in materia) secondo cui la natura divina non soltanto crea tutto ciò che esiste, ma crea sé stessa in tutto ciò che esiste: «fa ed è fatta, crea ed è creata [facit et fit, et creat et creatur]» (Sulle nature dell’universo, I, 452A; a cura di P. Dronke, trad. it. di M. Pereira, Milano, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, vol. I, 2012, p. 33)?
Per risolvere questa difficoltà il maestro propone di partire dalla duplice etimologia del nome più spesso utilizzato nella Scrittura per indicare la natura divina, il nome ''Dio''. In effetti la parola greca θεός, ricondotta alle sue radici etimologiche, cioè θεωρῶ, «vedere», e θέω, «correre», designa la visione e la corsa di Dio, che simboleggiano il suo atto creatore. Dio vede tutte le cose in sé stesso (in se ipso videt), e non contempla nulla al di fuori di sé stesso, poiché nulla è al di fuori di lui (nihil extra ipsum est). In modo analogo, Dio opera la sua corsa attraverso tutti gli esistenti (in omnia currit), ma non corre al di fuori di sé stesso (non extra se currit), come se avesse bisogno di uscire da sé stesso per creare qualcosa (I, 452C; 453B). È correndo, per così dire, in tutti gli esistenti, per farli passare dalla non esistenza all'esistenza (omnia currere facit ex non-existentibus in existentia), che Dio crea tutto ciò che esiste e al tempo stesso crea sé stesso in tutto ciò che esiste (I, 453B). La corsa di Dio è quindi una corsa cosmogonica e teogonica. E se le due accezioni della parola ''Dio'' si sovrappongono, è proprio perché il vedere e il correre sono in Dio identici e corrispondono alla sua azione creatrice, senza tuttavia che la visione di Dio e la sua corsa implichino una qualsiasi estraneità.
La soluzione dell'aporia che presiede alla causalità creatrice, per la quale Dio crea tutti esistenti e crea sé stesso in tutti gli esistenti, consiste dunque nel mostrare che l’atto creatore coincide con la volontà divina, e questa con la natura di Dio stesso. Tutto in Dio è Dio, e tutto in lui è Uno.
« Si dice allora che in tutte le cose è fatta la natura divina [fieri ergo dicitur in omnibus divina natura], che non è cosa diversa dalla volontà divina. Infatti in essa non sono cose diverse l’essere e il volere, anzi volere ed essere sono un’unica e identica cosa [sed unum idemque est velle et esse], all’origine di tutte le cose che per sua volontà dovevano essere fatte » (I, 453CD; trad. cit., I, p. 37).
Ma, in modo ancora più radicale, la soluzione consiste nel mostrare che le cose non sono qualcosa di “altro” da Dio, perché Dio non è che l’essenza di tutte le cose, pur rimanendo al di sopra di tutte le cose.
« Crea [creat] dunque tutte le cose che trae dal nulla, dal non essere all’essere, affinché esistano [omnia quae de nihilo adducit ut sint ex non esse in esse]; ma è creata [creatur], perché niente esiste essenzialmente al di fuori di essa, in quanto essa è l’essenza di tutte le cose [nihil essentialiter est praeter ipsam, est enim omnium essentia] » (I, 453D-454A; trad. cit., I, p. 37).
Dio crea dunque sé stesso in tutto ciò che crea; attraverso il suo atto creatore, il Dio sovraessenziale, che sussiste al di là di ogni essenza, diviene l'essenza stessa di tutto ciò che crea. Ma questo duplice processo cosmogonico e teogonico è soprattutto un processo teofanico. Prima di apparire, e di manifestarsi attraverso il suo atto creatore, Dio rimane invisibile e inconoscibile in sé; Dio accede all’essere soltanto nella sua manifestazione, dove si rende allora visibile e conoscibile. Non è dunque irragionevole dire che la natura divina è stata fatta poiché, essendo di per sé invisibile, appare in tutte le cose che sono (in omnibus quae sunt apparet quae per se ipsam invisibilis est, non incongrue dicitur facta) (I, 454A). L’analogia con l’intelletto, proposta qui dal maestro, è particolarmente emblematica non solo perché spiega che ciò che rimane invisibile (come appunto il nostro intelletto prima di presentarsi nel pensiero e nella memoria) si produce quando si manifesta nelle sue rappresentazioni; ma anche perché ci fa capire che il modello di creazione che Eriugena ha in mente è di tipo essenzialmente noetico: Dio crea tutte le cose nel senso che le vede o le concepisce in sé stesso, ovvero nel Principio, cioè nel Figlio, che è il Verbo coeterno a lui e nel quale sono le cause prime di tutta la realtà.
« Con questa analogia, per quanto sia molto lontana dalla natura divina, penso si possa mostrare in maniera convincente come essa, mentre crea tutto e non può essere creata da nessuno [omnia creat et a nullo creari nesciat], sia creata in maniera mirabile in tutte le cose che da essa provengono [in omnibus quae ab ea sunt mirabili modo creatur], sicché non è sbagliato dire che è fatta [fieri], come diciamo che viene prodotta l’intelligenza nella mente o il proponimento o la riflessione mentale o comunque si voglia chiamare quel primo movimento intimo quando si presenta nel pensiero, come si è detto, e assume certe forme di fantasie, poi giunge a manifestarsi in segni vocali o in movimenti sensibili – viene prodotto [fit] infatti prendendo forma nelle fantasie ciò che di per sé è privo di ogni forma sensibile » (I, 454BC; trad. cit., I, p. 39).
E così possiamo dire che l’essenza divina, pur rimanendo al di sopra di ogni intelletto, viene creata da sé stessa nelle cose che essa crea. Perché la creazione non è nient’altro che una manifestazione divina, o piuttosto un’auto-manifestazione e un’«apparizione divina» (divina apparitio), cioè una teofania:
« Infatti, quando si dice che crea sé stessa, nient’altro si intende davvero se non che stabilisce [condere] le nature delle cose. Perché la creazione di sé stessa, cioè la sua manifestazione in qualcosa [ipsius nanque creatio, hoc est in aliquo manifestatio], è effettivamente ciò che sostiene l’esistenza di tutte le cose [omnium existentium profecto est substitutio] » (I, 455AB; trad. cit., I, p. 41).
Ogni creatura è dunque una rivelazione di colui che è in sé il Dio non rivelato, il Dio nascosto nel segreto insondabile della sua trascendenza. Questo processo teofanico presuppone una sorta di inversione, per cui il nulla si fa tutto, e in un celebre passo del terzo libro del Periphyseon è orchestrata dialetticamente attraverso una lunga serie di contrapposizioni paradossali:
«L’invisibile si rende visibile, l’incomprensibile comprensibile, l’occulto palese, l’ignoto conosciuto, ciò che è privo di forma e di specie si dota di forma e specie, il superessenziale si fa essenziale, il soprannaturale naturale, il semplice composto, ciò che è libero dagli accidenti si assoggetta agli accidenti e si fa accidentale, l’infinito finito, l’incircoscritto circoscritto, il sovratemporale temporale, il sovralocale locale, ciò che crea tutte le cose creato in tutte, il fattore di tutte le cose in tutte fatto, l’eterno inizia a essere, l’immobile si muove in tutte le cose e diventa tutto in tutto» (III, 678BD; trad. cit., III, 2014, p. 153).
Il maestro non parla qui – egli precisa – dell'incarnazione del Verbo, che è pure una discesa nella condizione umana, ma parla «dell’abbassarsi ineffabile della bontà somma, che è unità e trinità, nelle cose che sono affinché siano [in ea quae sunt, ut sint]». La tesi eriugeniana della creazione eterna e dell'eternità creata acquista allora tutto il suo senso. È la Bontà divina ad essere insieme soggetto e oggetto di questa creazione eterna, i cui predicati contrapposti si implicano reciprocamente rovesciandosi gli uni negli altri. La Bontà divina è ad un tempo «sempre eterna, sempre fatta» (III, 678D; trad. cit., III, p. 153).
Questa auto-creazione della Bontà divina non consiste in un processo estrinseco a Dio, che richiederebbe un qualche sostrato indipendente da lui o coesistente con lui. Perché la Bontà divina, nella sua piena auto-sufficienza, non ha bisogno di una materia increata, il cui concorso le permetta di creare sé stessa (III, 678D-679A). E il nulla, da cui si dice che Dio avrebbe tratto tutte le cose? Che cosa dobbiamo intendere con questo nulla? Giovanni Scoto, pur senza respingere formalmente l’idea della creazione ex nihilo o de nihilo, ne propone un’interpretazione originale. Anzitutto afferma, per bocca del maestro, che è impossibile assegnare un luogo proprio al nulla, cioè alla privazione assoluta di ogni essenza e di ogni proprietà (III, 679BC). Un tale nulla privativo non può esistere né in Dio, né fuori di Dio. Il Padre non ha mai creato nulla nel suo Verbo che non sia identico al Verbo stesso. E non ha mai creato nulla al di fuori del suo Verbo, né ha creato qualsivoglia cosa in lui assumendola da una materia preesistente o traendola dal nulla. Perché il Verbo coeterno e coessenziale al Padre non può tollerare la creazione in lui di qualcosa che non gli sia consustanziale (III, 679CD).
Che cos’è allora il nulla che la maggior parte degli interpreti identifica con la privazione assoluta d’essere? Il maestro risponde che si tratta della Bontà divina come «nulla per eminenza» (nihil per excellentiam), perché la Bontà divina è in sé «superessenziale e soprannaturale» (superessentialis est enim et supernaturalis). Quando si considera la Bontà divina così come sussiste in sé stessa, prima della creazione del mondo, si può dire che «non è, né era, né sarà» (neque est, neque erat, neque erit). Perché la Bontà divina non si lascia ancora conoscere in nessuno degli esistenti che creerà, e nei quali si creerà, ma supera ancora tutto ciò che esiste (III, 680D). Ma quando inizia la sua discesa in tutti gli esistenti, e comincia così a rivelarsi o manifestarsi, si scopre che essa sola sussiste in tutti gli esistenti, perché «essa sola è in tutte le cose, ed è, era e sarà» (in omnibus esse, et est, et erat, et erit). Finché dunque rimane non manifesta e incomprensibile, è giusto che venga detta «nulla» a motivo della sua eccellenza. Quando invece inizia ad apparire nelle sue teofanie, si può dire che «procede come dal nulla in qualcosa» (veluti ex nihilo in aliquid dicitur procedere). E per quanto la si consideri al di sopra di ogni essenza, la si conosce anche in senso proprio in tutte le essenze. È per questa ragione che ogni creatura visibile e invisibile, sensibile e intelligibile può essere chiamata una teofania (III, 680D-681A).
Quanto più in basso la Bontà divina discende nell’ordine delle cose, tanto più si rivela e diviene conoscibile. Perciò le forme e le specie delle cose sensibili sono le teofanie più manifeste (III, 681B). Abbiamo visto che questo processo teogonico e teofanico presuppone una sorta di annientamento, una kenosi rovesciata con la quale il niente divino si fa tutto. Per rendersi visibile, Dio scende nell’essere, perché l’essere è l’unico luogo dove una manifestazione, una fenomenalità, diventa possibile per gli intelletti finiti (sia umani che angelici). Così, ad un tempo egli pone e nega sé stesso in uno scambio dialettico incessante. La bontà divina discende «dalla negazione di tutte le essenze all’affermazione della totalità dell’essenza» (ex negatione omnium essentiarum in affirmationem totius universitatis essentiae), passando «come dal nulla in qualcosa, dall’inessenzialità nell’essenzialità» (veluti ex nihilo in aliquid, ex inessentialitate in essentialitatem), o «dall’informità nelle innumerevoli forme e specie» (ex informitate in formas innumerabiles et species) (III, 681C; trad. cit., III, p. 161).
Secondo il modello neoplatonico, Giovanni Scoto descrive la descensio di Dio in tutti i gradi dell’esistenza partendo dalla Bontà, e proseguendo con la triade Essenza-Vita-Intelligenza. Abbassandosi una prima volta dalla superessenzialità della sua natura, dove a giusto titolo è detto non essere, Dio si crea da sé stesso nelle cause primordiali. È qui che si fa principio di ogni essenza, di ogni vita e di ogni intelligenza. Poi, discendendo dalle cause primordiali, che assicurano una mediazione tra Dio stesso e le creature, si crea negli effetti di queste cause (descendens in effectibus ipsarum fit), e si manifesta apertamente nelle sue teofanie. Infine, scende attraverso le molteplici forme proprie agli effetti, procedendo fino all'ultimo grado dell’ordine naturale, nel quale sono contenuti i corpi. E procedendo in un corso ordinato in tutte le cose, crea tutti gli esistenti, e diviene tutto in tutti (facit omnia, et fit in omnibus omnia). «E così fa tutte le cose dal nulla, ovvero dalla propria superessenzialità produce le essenze, dalla supervitalità le vite, dalla superintellettualità gli intelletti, dalla negazione di tutte le cose che sono e che non sono le affermazioni di tutte le cose che sono e che non sono» (III, 683B; trad. cit., III, p. 165).
Ecco dunque un ultimo paradosso di questa vertiginosa concezione della causalità creatrice. Procedendo dalla negazione sovraeminente di tutto ciò che esiste all’affermazione di tutto ciò che esiste, la natura originaria si cala dal nulla nell’essere, ma nell’essere creato, visibile, fenomenale. Il culmine dell’incomprensibilità e dell’ignoranza (sia di Dio che della natura) si traduce così in una fenomenizzazione infinita di Dio in tutte le creature. Ogni cosa creata, anche la più piccola, non è che una traccia, un’immagine o una similitudine di Dio. Ogni creatura, visibile e invisibile – si legge nel commento di Giovanni Scoto alla Gerarchia celeste dello Pseudo-Dionigi – è una luce creata dal «Padre delle luci»:
« Questa pietra o questo pezzo di legno è per me una luce; e se mi chiedi come, la ragione mi spinge a risponderti che, quando considero questa o quella pietra, mi si presentano molte cose che illuminano la mia mente. Perché noto che è buona e bella, secondo la sua analogia, che è separata per la differenza nel genere e nella specie da altri generi e altre specie di cose, che è contenuta nel suo numero, per cui diventa una cosa singola, che non eccede il suo ordine, che cerca il suo luogo secondo la qualità del suo peso. Quando osservo in questa pietra queste cose e altre simili a queste, esse diventano luci per me, in altre parole mi illuminano » (Super Ierarchiam caelestem S. Dionysii, 129BC).
22 maggio 2025