La Critica della ragion pratica si chiude, come è noto, con un gioco di specchi: legge morale e cielo stellato. Tra i due termini vi è uno stretto rapporto. Se è vero che la legge morale è un a priori che il soggetto scopre guardando in se stesso, quest’intuizione si nutre della consapevolezza della posizione occupata dall’uomo nella natura. Rivolgendosi all’infinitamente grande, l’io sente l’assoluto che lo abita.
Leggere un pensatore al fine di individuarne l’insegnamento non è impresa semplice, ma nel caso di Kant egli dispone per il lettore una bussola per orientarsi nella sua attività filosofica, scandita da tre domande: che cosa posso conoscere, che cosa devo fare, che cosa ho diritto di sperare.
La Critica della ragion pratica del 1788 risponde alla seconda domanda, posto che la ragione serva a dirigere non soltanto la conoscenza ma anche l’azione. In circa sei mesi il pensatore di Königsberg redige un testo con l’intento di dimostrare che la ragione, in virtù dei principi formulati da sé stessa, può definire cosa sia il bene e produrre azioni buone.
In altre parole, l’obiettivo è delineare come la volontà, pur condizionata dall’esperienza, possa tendere al bene grazie a una legge etica assoluta intrinseca alla ragion pura pratica, di cui possediamo una consapevolezza a priori e una certezza indubitabile.
Proviamo a soffermarci su alcune pagine, quelle conclusive, per cogliere il senso di questa riflessione e, perché no, farla nostra. Queste pagine sono attraversate da immagini e metafore suggestive, che da sempre suscitano grande interesse. In modo audace, si potrebbe considerare la conclusione del testo come uno scritto autonomo, che raccoglie e mette a fuoco parte dell’attività filosofica di Kant: un percorso che parte dall’uomo, ne traccia i limiti e il fine, per poi ritornarvi con una comprensione profonda e vera.
Tra cielo e terra: l’avventura temporale dell’essere umano
Ecco il passo chiave che analizzeremo:
« Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. » (I. Kant, Critica della ragion pratica)
In primo luogo, afferma Kant, il cielo stellato e la legge morale non sono qualcosa di oscuro o di trascendente. Essi si presentano all’uomo con la coscienza della sua esistenza come due elementi che ne determinano l’orizzonte; si offrono alla sua interiorità, configurando quello che nella Critica del giudizio verrà definito sentimento vitale (Lebensgefühl), attraverso cui l’animo (Gemüt) diventa cosciente del proprio stato.
L’affermazione di Kant è però quantomeno singolare, non tanto in riferimento alla legge morale, quanto al cielo stellato. Il cielo stellato non è qualcosa che il soggetto trova dentro se stesso; è necessario infatti alzare gli occhi, mirare le stelle che si dispongono dinanzi allo sguardo in particolari condizioni empiriche, cioè di notte, con il cielo limpido e senza nuvole. Insomma, se in un certo senso la legge morale è sempre accessibile — cioè, l’uomo riconosce la capacità di guidare la propria volontà senza troppa fatica — il cielo stellato non sempre lo è.
Eppure, nel volgere lo sguardo verso la volta celeste, l’essere umano si mette in connessione con il mondo. Sebbene questo legame possa essere accidentale e contingente, nel momento in cui si instaura il soggetto riconosce la propria universalità.
Entra in gioco un complesso gioco di specchi e di rinvii.
Lo spettacolo degli innumerevoli e infiniti mondi annichilisce, secondo Kant, l’importanza del soggetto nella natura, mentre la legge morale eleva infinitamente il suo valore che si manifesta attraverso una vita indipendente dalla sensibilità e dall’animalità che si estende al di là dei limiti dell’esistenza verso l’infinito. Il filosofo esprime il concetto con efficacia e chiarezza:
« La vista di molteplicità innumerevoli di mondi riduce in certo modo a nulla la mia importanza di creatura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (che è un semplice punto nell’universo) la materia di cui è formato, dopo esser stata dotata per breve tempo (e non si sa come) di forza vitale ». (Ivi)
Kant, con un linguaggio ricercato e preciso, rileva l’eccezionalità dell’essere umano: un essere sì finito e necessitato, gettato su un semplice punto nell’universo, capace, però, di determinare il proprio corso su questa terra, libero di uscire dalle restrizioni e dai limiti di questa vita. In altre parole, il movimento di annichilimento provocato dalla visione del cielo stellato genera un contro-movimento che spinge il soggetto a ricollocare sé e la propria destinazione in una prospettiva più elevata e universale.
Kant non si sofferma solo su questo aspetto. Si attarda significativamente anche sul sentimento di meraviglia suscitato sia dalla contemplazione del cielo stellato che dall’intuizione della legge morale:
« Tuttavia l’ammirazione e il rispetto possono, sì, spingerci alla ricerca, ma non possono prenderne il posto. Che dobbiamo fare per intraprendere questa ricerca in modo utile e appropriato alla sublimità dell’oggetto?». (Ivi)
Le parole in questo passo sono rilevatrici della condizione umana nella riflessione kantiana. Ad esempio la parola tedesca “bewunderung” indica l’atto di essere presi dalla meraviglia dinanzi allo spettacolo della natura, un atto che colloca l’uomo in una condizione di fruitore, per tal ragione deve prestare attenzione (achtung) a ciò che si determina dinanzi ai suoi occhi; due modi di porsi in relazione alla natura che determinano la nostra ricerca (Nachforschung) delle cause. Il passo può essere letto in stretta connessione e analogia con l’atteggiamento di meraviglia che Aristotele descrive come principio di ogni conoscenza. Entrambi i filosofi, a distanza di quasi due millenni, si riferiscono proprio al cielo stellato e agli astri come elemento principale dello stupore. L’espressione greca thaumazein implica un senso di stupore di fronte a qualcosa di inaspettato e straordinario, mentre quella tedesca enfatizza l’ammirazione e l’apprezzamento dinanzi allo spettacolo naturale.
Nelle righe successive, Kant afferma che la riflessione sul mondo ebbe inizio dallo spettacolo più grandioso che si possa offrire ai sensi umani: il cielo stellato. Tuttavia, come constata lo stesso Kant, tale riflessione culminò nell’astrologia.
Allo stesso modo, la morale cominciò dallo studio della parte più nobile della natura umana e finì nel fanatismo e nella superstizione. Kant è preoccupato quindi dalla possibilità di cadere durante la ricerca in forme deviate come l’astrologia, il fanatismo e la superstizione, che dirigono i sentimenti di ammirazione e rispetto verso una direzione non appropriata per l’animo umano.
Kant sembra allora suggerire che l’uomo possa incorrere nell'astrologia, nel fanatismo o nella superstizione a causa della mancanza, nella ragione, di un metodo o di una logica in grado di indicare la via della sapienza (Weg zur Weisheit) e di un’autentica conoscenza di sé, per il cui accesso la scienza rappresenta solo una chiave.
Kant apre dunque decisamente la possibilità di una nuova filosofia, custode di una dottrina della saggezza, termine che il filosofo opportunamente chiarisce:
« con questa espressione non si intende semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire di regola ai maestri per ben preparare e far conoscere la via della saggezza che ognuno deve seguire, e per preservare gli altri dagli errori […]». (I. Kant, Critica della ragion pratica)
La saggezza viene rappresentata, qualche rigo prima del passo citato, come una porta stretta che conduce l’uomo verso i tesori veri, e non fantastici, a cui giungerà durante la sua avventura temporale su questa terra. Vivere secondo ragione, per Kant, vuol dire percorrere un cammino, odos, che muove dall’ammirazione e dal rispetto per quel cielo stellato a cui, purtroppo, non rivolgiamo più il nostro sguardo, non senza destabilizzare la nostra vita sulla terra.
Il cielo stellato di Van Gogh
Soffermiamoci sul cielo stellato, l’immagine evocata da Kant sembra assumere forma e colore in una delle più celebri opere di Van Gogh. I due sono distanti nel tempo e nel modo in cui hanno orientato la loro esistenza ma sono attratti dalla medesima volta celeste, rivolgono il loro sguardo verso un cielo illuminato da quelle stelle che, come fari, illuminano la notte più buia orientando il nostro cammino. La Notte stellata sul Rodano è il più bello dei quadri notturni di Vincent van Gogh, incantevole soprattutto per il contrasto fra cielo e terra. L’opera presenta la vista dalla banchina sul lato est del Rodano, alla curva del fiume sulla sponda occidentale. In primo piano due innamorati passeggiano lungo la riva sabbiosa del fiume. La posizione delle stelle è particolarmente accurata mostrando l’Orsa Maggiore. Sia le stelle che le luci della città si riflettono nelle acque del Rodano segnando una netta distanza tra terra e cielo. Tuttavia questa distanza, seppur netta, e quell’alone di mistero che traspare dalla tela, non producono turbamento. La serata rappresentata appare calma e tranquilla grazie anche ai due innamorati che passeggiano a braccetto sulla riva.
Oggi manca sempre di più la possibilità di uscire per osservare le stelle, di farsi domande tenendo il naso all’insù: il cielo è offuscato. A poco a poco abbiamo perso l’abitudine di cercare le stelle perché non ci sono più familiari. Forse Kant l’aveva capito, il suo non era un invito ma un imperativo morale che abbiamo smarrito.
Per innumerevoli generazioni abbiamo guardato il firmamento con stupore, ponendoci domande, oggi viviamo come smarriti senza bussole; ci lasciamo trascinare dagli istinti che disorientano la nostra esistenza; siamo come bestie tra le bestie che non desiderano cercare la via verso la saggezza. La ricerca, la domanda e l’atto creativo hanno lasciato il posto all’arroganza, alla lotta e al consumo. Conquistare, pertanto, il nostro posto nel mondo significa riconoscersi a metà strada tra cielo e terra, capaci di ammirare l’infinito sopra di noi riconoscendo la nostra condizione finita e limitata. La morale kantiana, nonostante tutte le accuse di formalismo, sembra insomma contenere una lezione di saggezza che mette al centro l’intimo legame tra uomo e natura: è solo ritrovando il nostro posto nell’ordine dell’universo che possiamo comprendere “cosa dobbiamo fare”.
21 maggio 2025