Mal d'Africa: una vera e propria malattia globale

 

In linea di principio, la strategia che prevede la ricerca degli elementi critici e il convoglio degli sforzi per eliminarli a monte del problema è in ogni caso quella più ragionevole ed efficace; qui l’obiettivo delle forze in campo è attuare politiche che permettano la nascita in ciascun paese di partenza delle condizioni per cui il suo cittadino non sia spinto a lasciarlo per cercarle altrove, che siano pace o lavoro, in generale il sacrosanto benessere, se non la vita, molte volte. In Africa, il continente di cui si parla, tutto questo non sta avvenendo.

 

 

Il traffico continuo sulle rotte dei migranti, il dramma dei naufragi narrato dai media sempre più teatralmente, i salvataggi poco trasparenti delle ONG, il caos istituzionale e logistico circa le aree di competenza di ciascuna guardia costiera, i respingimenti di Malta, il disimpegno del resto d'Europa, i patti dal doppio profilo con esponenti dei governi libici, le criticità dell'accoglienza, l'illecito che si nutre della disperazione dei migranti, la destabilizzazione delle popolazioni locali, della loro identità e della loro coscienza: il flusso migratorio nel Mediterraneo meridionale è il più problematico e forse ancora molto è tenuto nascosto. È di alcuni giorni fa la notizia dell'ennesima tragedia umana in quel tratto di mare così breve quanto insidioso che fa riaccendere il dibattito sulle modalità di ricezione e organizzazione da scegliere per l’accoglienza di questi viaggiatori alla ricerca di speranza. Tra buonismo e intransigenza, ipocrisia e paura, nei dibattiti si fa largo da tempo la soluzione, ormai diventato slogan, di "aiutarli sì, ma a casa loro".

 

Questa sembra essere l'idea trasversale alle differenti e ben distanziate linee politiche di tutti i gruppi politici italiani e non, poiché modera la concezione poco realistica di una capacità illimitata di assorbimento del flusso nella società e al contempo frena la follia estremista che porterebbe al disinteresse totale per il problema e all’escluderlo nettamente dai confini nazionali, in balìa delle onde. In linea di principio, la strategia che prevede la ricerca degli elementi critici e il convoglio degli sforzi per eliminarli a monte del problema è in ogni caso quella più ragionevole ed efficace; qui l’obiettivo delle forze in campo è attuare politiche che permettano la nascita in ciascun paese di partenza delle condizioni per cui il suo cittadino non sia spinto a lasciarlo per cercarle altrove, che siano pace o lavoro, in generale il sacrosanto benessere, se non la vita, molte volte. In Africa, il continente di cui si parla, tutto questo non sta avvenendo.

 

I media in qualche modo trasmettono il costante stato di guerriglia e disordine in cui versano molti paesi dell’Africa sia a nord del Sahara, come la Libia, sia a sud come il Sudan o l’Uganda. La tragedia della violenza è talmente grande da oscurarne altre, come la salvaguardia dell'ambiente, dei diritti umani e dei lavoratori, le quali però, in uno sguardo d’insieme non possono essere ignorate perché ugualmente reali e diffuse. 

 

L’insieme è il risultato di secoli di colonizzazione, come è risaputo, condotta come sfruttamento sistematico delle risorse che questi territori vergini potevano offrire in quantità esagerate, così grandi che ancor oggi ne consentono il prelievo, e come imposizione di un ordine alieno alle realtà partecipanti ad una propria direzione di sviluppo naturale. Il processo di decolonizzazione avviato nel secondo dopoguerra ovviamente non aveva l’interesse di incentivare un ripristino degli assetti politici e sociali precedenti allo sbarco dei conquistatori. Così si ritrova un continente vessato dalle disuguaglianze sociali probabilmente più accentuate del mondo, dalle guerre tribali, ormai storiche, che sfociano in eccidi e atti terroristici, il tutto incorniciato da una scenografia di un paesaggio che in molte zone è deturpato e minacciato nella sua integrità.

 

Quando si parla di benessere di un popolo, specialmente se questo è stato da sempre in strettissimo contatto con la natura e ben radicato nel territorio come nel caso dell'Africa, si parla anche di salubrità dell'ambiente in cui si vive, e questo legame, noi che viviamo nell'avanzato occidente, abbiamo imparato a riconoscerlo e sanificarlo. Allora com'è che dall’Europa, come dagli altri paesi più economicamente sviluppati, salpano flotte di mercantili che portano in Africa tonnellate di rifiuti, anche pericolosi come quelli elettronici, dove è assente un piano per gestirli?

 

Il valore delle risorse del sottosuolo africano sono stimate in miliardi di dollari (solo il Congo ne ha 24 mila) e la loro estrazione da parte delle grandi compagnie minerarie che ne esercitano il monopolio rientra, insieme alle grandi infrastrutture, all’agricoltura e all’allevamento intensivo, nello sregolato consumo di suolo che stravolge i connotati di un territorio ricchissimo, e per questo in progressiva decadenza. Per come stanno le cose, non sembra che la decolonizzazione si sia compiuta del tutto: il capitale che deriva da quelle attività esce quasi del tutto dai confini dei paesi in cui si trova, la restante misera parte di esso è il solito “contentino per farli stare buoni” visto che nella disperazione può bastare 1 dollaro di paga giornaliera per estrarre del rame. Quest’ultimo insieme ad altri metalli, come il tantalio, si trova nei circuiti stampati che stanno sostenendo la permanente rivoluzione tecnologica nel resto del mondo, inarrestabile e totale, la quale va a braccetto con una massa incalcolabile di prodotti di scarto in quanto obsoleti.

 

Ad Agbogbloshie, un quartiere di Accra, in Ghana, si trova la più grande discarica illegale del mondo di rifiuti elettronici, i cosiddetti RAEE. Lì, nel febbraio scorso, si è recato il programma Presadiretta (nella pagina altri video interessanti), che ha documentato l’avvelenamento del suolo, dell’aria, del fiume e del mare, e quindi delle migliaia di persone che ci lavorano riducendo monitor, tv, computer e cellulari in pezzi, nel tentativo di estrarne i componenti, visto che l’85-90% di quei 500 container che arrivano ogni mese non è riutilizzabile.

 

L' enorme discarica di Agbogbloshie
L' enorme discarica di Agbogbloshie

 

Mike Anane, il giornalista intervistato nel servizio, ha scoperto che la maggior parte di essi quando ancora si trovavano sul suolo europeo e americano appartenevano alle loro istituzioni, chiudendo così un ciclo deleterio: in Africa ritornano come rifiuto le risorse che da essa sono state prelevate anni prima, gli stessi piombo, cadmio e mercurio che si trovano nel sangue di chi le estrae, si ritrovano in quello di chi le accoglie nelle discariche fumanti. Ciò che si libera da questo ciclo è il freddo calcolo e l’ipocrisia di una parte di mondo che, a volte attivamente altre come pedina di un gioco per lei inconcepibile, sta annullando l’altra mentre sostiene di doverla aiutare lì, lì dove sta riversando invece tutte le contraddizioni che fino ad oggi l’hanno perseguitata e delle quali prova a disfarsi, meno che di una appunto.

 

Quando poi esse ritornano a bordo di gommoni sovraffollati, come un Dorian Gray di fronte al suo ritratto dai dettagli ancora non troppo sfigurati, il mondo occidentale con le sue istituzioni si suggestiona e si incupisce, si interroga e non capisce, in una dimensione di immobilità e spleen che fa proseguire all’Equatore l’incubazione di una sua copia, pensata magari da alcuni come l’aiuto per lanciare lo sviluppo delle popolazioni africane.

 

Certo pensare queste come custodi di un mondo ancestrale perfetto costruito su sani valori di pace e giustizia sarebbe equivoco, ma è innegabile il fatto che in Africa, il profumo del denaro e l’obiettivo di accrescere qualsiasi altra proprietà materiale cumulabile stia sradicando le comunità fino ad oggi vissute in equilibrio con ciò che questi elementi stentano a prendere in considerazione, per esempio la salvaguardia dell’ambiente. In Africa è ormai norma per chi presiede una carica pubblica avere in premio una mandria. Questa è in grado di trasformare in poco tempo il territorio, alterandone gli ecosistemi: trasforma la savana in deserto.

 

La traccia lasciata dal colonialismo si rivela nei giovani africani quando assumono il modello di sviluppo occidentale come quello da applicare per un futuro di crescita, un modello che oggi è possibile constatare adatto per un vero sviluppo umano non in tutte le sue declinazioni. In un libricino interessante intitolato Africanità, scritto da Pape Gora Tall, si legge:

 

« L’ingresso del nuovo modo di esistenza, nella modernità fragilizzata, frammenta tutta la società africana. Gli Africani restano divisi tra l’etnocentrismo e il modernismo temporale necessario. Sedotti dai vantaggi della civiltà occidentale, gli Africani cercano di adattarsi alle nuove forme di esistenza. Inesperti e ignoranti, alcuni finiscono col confondere la modernizzazione con l’occidentalizzazione, il progresso con l’allontanarsi                                                                 dalla propria cultura. »

 

In un constesto del genere, dove spadroneggiano ancora le multinazionali contaminando la cultura locale per trovare un appoggio, i Basil Hallward che intuiscono qualcosa di oscuro nel sistema dominante sono personaggi scomodi come il poeta nigeriano Ken Saro Wiwa, ucciso mentre combatteva contro la Shell per la libertà e l’autodeterminazione del suo popolo; speriamo non Mike, il giornalista di Agbogbloshie che indaga sui flussi di denaro dietro ai rifiuti.

 

                                                                                                Ken Saro Wiwa
Ken Saro Wiwa

 

In questi e nel loro coraggio è visibile la guida dell’Africa per uscire dallo “stato di minorità”, e in ciò che han lasciato, perché in fin dei conti « Hanno ammazzato Ken Saro Wiwa, Saro Wiwa è ancora vivo! ».

 

7 dicembre 2017

 




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