Microstoria delle prove dell'esistenza di Dio (e suo precipitato postmoderno)

 

Nel modo in cui il pensiero occidentale ha cercato di dimostrare razionalmente i puri contenuti di fede si annida il senso (smarrito) della enorme potenzialità del discorso filosofico.

 

di Antonio Lombardi

 

Tra gli innumerevoli e capitali contributi di Hegel alle scienze filosofiche, di particolare interesse risulta essere lo schema storico-teoretico che vien fuori dal suo confronto a più riprese con le Beweise vom Daseyn Gottes, le celebri prove dell’esistenza di Dio che il pensiero occidentale ha prodotto nel corso della sua appassionante storia. Un confronto che gli apparve talmente importante, da dedicarvi un intero corso nel 1829 all’Università di Berlino. E importante per noi; ché l’anzidetto schema che ne risulta costituisce a suo modo ‒ oltre ovviamente a una preziosa occasione di controllo e verifica delle Beweise ‒ un quadro eccellente del modo in cui la filosofia, mettendo a tema il Divino, e dunque l’Assoluto, abbia imboccato quella pericolosa strada che la vede oggi impantanata nelle paludi di un “sapere” che pur pronunciandosi concitatamente e chiassosamente su tutto, non riesce a dire nulla di conclusivo su alcunché. Proprio come l’avventuriero che trovandosi invischiato nelle sabbie mobili, più s’agita tentando di uscirne più ne viene risucchiato.

 

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

 

La tassonomia hegeliana delle prove dell’esistenza di Dio potrebbe dirsi fondata su due divisioni, l’una (se si vuole, più spiccatamente storica) sovraordinata all’altra (più spiccatamente teorica), che riguardano le modalità attraverso cui, entro il perimetro della Religione (“attività” eminentemente umana), la totalità organica dell’universo perviene gradualmente a sapersi come questa stessa totalità organica, e cioè come l’Assoluto.

La prima divisione riguarda il modo in cui l’uomo si è progressivamente rappresentato Dio: dapprima come pura potenza (Macht), come è accaduto ai popoli antichi, che non a caso avvertivano il manifestarsi del Divino nella tremenda e sovrastante grandiosità delle forze naturali o al massimo lo “moltiplicavano” in entità immortali e sommamente, per l’appunto, potenti; successivamente, in maniera decisamente più “razionale”, come sapienza (Weisheit), e cioè, sì, ancora come potenza, ma pensata stavolta come ordinatrice, cioè come principio ultimo che dà vita e informa ogni fenomeno e processo del mondo. Gli dei non creano il mondo; Dio, invece, non solo lo crea, ma sopraintende alla sua armonia. Su questa prima divisione binomia è possibile tranquillamente far aderire quella più classicamente trinomia presente nella Fenomenologia (1807) tra Religione naturale, Religione artistica e Religione assoluta, riconducendo i primi due momenti sotto il segno della Macht.

 

Le religioni totemiche potrebbero, secondo la tassonomia hegeliana, inserirsi nel novero delle "religioni della potenza"
Le religioni totemiche potrebbero, secondo la tassonomia hegeliana, inserirsi nel novero delle "religioni della potenza"

 

Ma trinomia è anche la seconda divisione, che è tutta interna al secondo corno della prima. È qui che fanno la loro comparsa le prove vere e proprie, che in quanto elementi essenziali alla religione che concepisce il Divino come sapienza, vanno a costituire nientemeno che i gradi attraverso cui la conoscenza di Dio, non potendo più «accontentarsi delle semplici rappresentazioni della fede», quel mero “avvertire” l’Assoluto, «procede oltre verso il pensiero, innanzitutto verso l’intelletto riflettente, e poi deve procedere fino al pensiero concettuale» (Hegel, 2007: 909) dimostrando la realtà di ciò che è solo perentoriamente affermato.

Le prove, dunque, lungi dall’essere dei progetti di apologetica isolati e del tutto accidentali, piuttosto «vanno considerate come momenti di uno sviluppo razionale necessario» (Verra, 2007: 294) che vede la religione, che «è la modalità della conoscenza in cui la Verità è per tutti gli uomini, cioè per gli uomini di qualsiasi livello di cultura» elevarsi alla «conoscenza scientifica della Verità» (Hegel, 2007: 57).

Esse, sulla scorta della canonizzazione già operata da Kant, possono ridursi essenzialmente a tre: la prova teleologica, la prova cosmologica e la prova ontologica.

 

Se la fede vuol garantire la veridicità dei propri contenuti, deve mostrarne la razionalità e farsi, quindi, filosofia
Se la fede vuol garantire la veridicità dei propri contenuti, deve mostrarne la razionalità e farsi, quindi, filosofia

 

La prima, «la più antica, la più chiara, la più adatta alla comune ragione umana» (Kant, 1940: 488), la si trova per la prima volta nei discorsi di Socrate e Platone (nel Timeo, ad esempio); formalizzata nella celeberrima quinta via da Tommaso d’Aquino ed ancora ampiamente presente e sostenuta nella teologia naturale che andava di moda a Cambridge e Oxford nell’opera di William Paley, quella stessa con cui ebbe a confrontarsi Charles Darwin negli anni della sua formazione. Rimane ancora oggi la più conosciuta ed apprezzata dal comune senso religioso, specie nella sua formulazione meglio nota come analogia dell’orologiaio. Muovendo dalla constatazione per cui i fenomeni naturali rispettano certe regolarità e tendono verso certi fini (quali che siano), essa deduce l’esistenza di una intelligenza ultrafenomenica che ha creato il mondo e ne ha disposto le parti affinché seguissero quelle leggi e tendessero verso quei fini, esattamente come chi, passeggiando in un bosco e trovando un orologio per terra, dedurrebbe immediatamente da ciò l’esistenza di un orologiaio che lo ha costruito, assemblandone gli ingranaggi secondo regole che ne garantiscono il funzionamento.

 

Così come se troviamo un orologio, siamo immediatamente indotti a concludere che esiste qualcuno che lo ha costruito; così, l'esistenza della natura e delle sue leggi dovrebbe indurci a concludere che esiste un Dio
Così come se troviamo un orologio, siamo immediatamente indotti a concludere che esiste qualcuno che lo ha costruito; così, l'esistenza della natura e delle sue leggi dovrebbe indurci a concludere che esiste un Dio

 

La prova teleologica e quella cosmologica, sostiene Hegel in modo simile a Kant, si coimplicano necessariamente, perché l’armonia dei fenomeni, nel rinviare analogicamente ad una intelligenza creatrice, finisce con l’affermare l’esistenza di una causa prima: doveroso allora dimostrare l’impossibilità logica di procedere all’infinito nella serie causale e perciò arrestarsi ad un termine incausato, che non rinvenendosi nel mondo dell’esperienza va collocato, vista la necessità della sua esistenza, al di là di essa ‒ Dio, per l’appunto. Questo argomento ha visto le sue più alte formulazioni in Aristotele, nell’antichità; in Tommaso, nel medioevo; in Leibniz, in epoca moderna e, nel Novecento, se pure con una forte curvatura ontologica, in Bontadini.

 

Tommaso è stato il più importante sistematore dei diversi modi (le  cosiddette "cinque vie") attraverso cui si può dimostrare l'esistenza di Dio 'a posteriori', cioè a partire dai dati d'esperienza
Tommaso è stato il più importante sistematore dei diversi modi (le cosiddette "cinque vie") attraverso cui si può dimostrare l'esistenza di Dio 'a posteriori', cioè a partire dai dati d'esperienza

 

Ma entrambe le prime due prove, per aspirare a una qualche conclusività, debbono di necessità riportarsi alla prova ontologica e, dunque, a quella sterminata discussione circa la sua validità che ha coinvolto generazioni e generazioni di pensatori, fino a Kant, che riconducendo ogni Beweis all’argomento presentato la prima volta da Anselmo d’Aosta nel suo Proslogion, ne ha fornito la critica più nota e più aspra. Il Dio dimostrato necessario attraverso le inferenze operate dai primi due argomenti deve essere anche dimostrato reale, il che è ciò che la prova ontologica pretenderebbe di fare quando, pur nelle diverse variazioni che ha assunto storicamente, asserisce che, in generale, se si può concepire un ente che contiene necessariamente la propria esistenza (= Dio) è necessario anche che esista, perché se non esistesse non la conterrebbe necessariamente e si potrebbe immaginare un ente più perfetto che contenendola esisterebbe, identificandosi, quest’ultimo, con Dio. Nel Novecento, la Neoscolastica italiana ha prodotto una delle sintesi più efficaci dell’argomento, riducendolo a quanto segue: «Se c’è qualcosa c’è l’Assoluto, perché quel qualcosa o è solo, ed allora è desso l’Assoluto, o non lo è, e l’Assoluto è allora l’unità del qualcosa e dell’altro» (Faggiotto, 1959: 85). Com’è noto, per Kant, la mera necessità logica non può assolutamente metter capo ad una necessità ‒ sic! ‒ effettiva, ché “effettivo”, cioè esistente, può dirsi solo ciò che si dà o può darsi nell’esperienza, adeguandosi alle leggi che governano a priori l’apparire dei fenomeni nello spazio e nel tempo: si tratta del famosissimo esempio dei cento talleri portato nella prima Critica.

 

Ad Anselmo si deve la messa a punto del noto argomento ontologico
Ad Anselmo si deve la messa a punto del noto argomento ontologico

 

Contro Kant, Hegel opererà sia (1) una inversione della priorità della cosmologia sulla teleologia (laddove il filosofo di Königsberg vedeva la seconda come l’incremento logico indispensabile alla prima) che (2) una rivalutazione dell’argomento ontologico, entrambe in nome della sistematicità immanente dello spirito.

 

Asserire, seguendo la via cosmologica, che il finito e il contingente reinviano, pena regressus ad infinitum, ad una causa originaria e non causata a sua volta non significa altro che comprendere che il finito ha il suo télos ‒ che altro non sarebbe che la sua concreta definizione, perché dire che il fine del tram è quello di favorire e velocizzare il trasporto cittadino da un luogo all’altro è non altro che aggiungere un che di essenziale a una definizione che altrimenti resterebbe puro flatus vocis o, nel migliore dei casi, parecchio astratta ‒ nella struttura organica dell’infinito di cui è parte e dal quale emerge, e cioè dello spirito, che da ultimo non è distinguibile dall’esperienza, come pretenderebbe Kant.

Tolta di mezzo l’ambizione razionalistico-dogmatica di rinvenire la sostanza delle cose al di là di ciò che appare, che suo malgrado il criticismo fa ancora tutta sua nel contrapporre al mondo esperienziale un mondo di cose in sé, che per quanto inconoscibile si situerebbe (e quindi si conoscerebbe, contraddittoriamente, almeno come situato) “dietro” i fenomeni, la prova teleologica non fa che mostrare la cosiddetta finalità interna degli enti di natura, la quale va a coincidere con il loro “essere-per” l’intero e il sistema complessivo della vitalità; concetto a cui, come nota Hegel, erano già pervenuti i greci quando parlavano del nous o del logos come dell’“anima del mondo” (Verra, 2007: 209).

 

Allo stesso modo, l’argomento ontologico, se non si riferisce più alla necessità di una realtà assoluta ultrafenomenica, acquista una validità inaudita perché, come risulta già evidente dal primo assioma dell’Etica di Spinoza per cui ogni cosa che è sussiste in se stessa o in altra cosa e per il quale quindi «è stabilito che, se esiste qualcosa, esiste […] l’ente a sé» (Bontadini, 1995: 85), e quindi l’Assoluto, esso giunge semplicemente a mostrare che la necessità cui mira a metter capo non è se non quella della totalità dell’esperienza, e cioè della Sostanza (che, in termini hegeliani, si identifica ancora una volta all’intero).

 

Non è quindi un caso che già nel 1802 il giovane Hegel osservasse, in Glauben und Wissen, che «Kant ha reso il suo trionfo ancor più brillante e gradevole per lui, in quanto ha preso ciò che una volta si chiamava prova ontologica dell’esistenza di Dio nella peggiore delle sue forme», facendo «dell’esistenza una proprietà, per cui quindi l’identità dell’idea e della realtà appare come un’addizione di un concetto ad un altro» (Hegel, 1971: 153-154). Si tratta di nuovo, come si vede, di dualismo (o gnoseologismo): la separazione coatta e irriflessa di essere e conoscere tipicamente moderna che la cosiddetta filosofia critica porta alle sue estreme conseguenze, radicalizzandola e ratificandola in modo pressoché definitivo.

 

E Kant è ancora nella contemporaneità il grande scoglio per cui la logica e la realtà effettiva restano, se pure solo nelle pretese di chi lo afferma, separate: la gente, ancora oggi, pensa perlopiù kantianamente quando sostiene che le dimostrazioni logiche di tipo simile a quello della prova ontologica ‒ ma in genere le dimostrazioni filosofiche ‒ non hanno a che vedere con le “cose concrete” e non possono quindi “dimostrare nulla” su ciò che riguarda il nostro mondo e l’universo in generale. Il Wittgenstein del Tractatus, ad esempio, è una conseguenza che si potrebbe definire fisiologica (se non fosse patologica) di questo secolare processo. La postmodernità, che inizia precisamente con questa separazione, e l’inevitabile relativismo che ne scaturisce (“le cose non stanno come le vediamo” o “i nostri schemi concettuali non ci dicono nulla di vero sulle cose in sé”, sentiamo ripetere fin quasi allo stremo) rimangono, nel loro fondamento, ancora profondamente e radicalmente kantiani. E proprio per questo le Beweise costituiscono ancora oggi il luogo privilegiato in cui questa scissione viene prepotentemente allo scoperto, ma allo stesso tempo accompagnata dalla possibilità di dirimere l’aporia e rendere manifesta la essenziale coappartenenza di logica e realtà e, dunque, la eminente capacità del discorso filosofico di dire come va e come sta il mondo.

  

14 febbraio 2018

 

Riferimenti bibliografici

 

G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, 1995

P. Faggiotto, Esperienza e metafisica, Liviana, 1959

G.W.F. Hegel, Fede e sapere, tr. it. di R. Bodei, Mursia, 1971

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. Di V. Cicero, Bompiani, 2007

I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, 1940 

V. Verra, Su Hegel, Il Mulino, 2007




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