L’automazione del lavoro e le sue conseguenze sull’uomo

 

La libertà dal lavoro non può giungere come un fulmine a ciel sereno, generando per di più immediatamente una società di dotti e filosofi conoscitori del cosmo e di sé stessi, focalizzati a rendere il mondo un posto migliore. Si necessità invece di un lungo e perseverante lavoro da parte delle istituzioni in primis e conseguentemente da parte dei cittadini dediti all’istruzione degli altri, per valorizzare la cultura e la sua importanza per un mondo migliore.

 

di Artur Glukhovskyy

 

 

L’automazione è un concetto che, prima o poi, ha transitato, transita o transiterà nelle menti di ognuno di noi, giacché ci troviamo proprio nell’epoca in cui questo processo pare aver preso una velocità di sviluppo mai registrata prima, con inevitabili effetti sulla collettività.

Partendo da un’analisi del McKinsey Global Institute, lo scenario che si apre è suscettibile a molte variazioni, ma le loro stime si aggirano attorno al 50% dei posti di lavoro, attualmente presenti, i quali verranno automatizzati entro il 2050. Concentro la mia attenzione su quei settori che, secondo il report, nonché secondo gli studi socio-filosofici portati avanti negli ultimi 170 anni, saranno i più passibili di automazione, ossia i lavori in fabbrica legati alla catena di montaggio, per poi aggiungere – di mia iniziativa – anche gli sportelli bancari e i posti di data analysis

Voglio qui, forse idealisticamente, forse concretamente – solo il tempo ce lo dirà –, trattare quindi una società libera dal peso del lavoro alleviato dalle macchine.

 

Anzitutto perché il lavoro viene qui da me definito “peso”? La risposta è data dall’antica concezione greca del lavoro stesso, il quale era visto come un’attività volgare e adatta solamente a coloro i quali non erano cittadini. Cittadino lo diventava colui il quale poneva fine all’utilizzo del suo corpo per generare risorse atte alla sopravvivenza e si iniziava a dedicare piuttosto alla res publica, tramite la lexis e la praxis. Di conseguenza, il lavoro era quell’attività la quale era affidata a schiavi, i quali impiegavano tutta la propria vita per generare risorse per se medesimi e la collettività, rimanendo esclusi dalla vita da libero cittadino, essendo soggiogati dalla necessità. Va sottolineato che gli schiavi venivano impiegati dai cittadini in così grande numero non perché questi ultimi desideravano avere lavoro a buon mercato e quindi avere facili guadagni, bensì perché volevano allontanare da sé tutte quelle attività che avevano poco di umano, che non andassero oltre la sopravvivenza del proprio corpo tramite la generazione di risorse – cosa tipicamente da Animali. Va aggiunto anche che la vita dello schiavo non per forza era fatta di stenti – dato che si potevano benissimo trovare schiavi i quali avevano accumulato una quantità di risorse tale da poter svolgere una vita più che dignitosa –, ma pur sempre carente di una possibilità, quella di avere una teoria (etimologicamente intesa), quindi sprovvisto della facoltà di contemplare sé stessi ed il cosmo. 

Gli schiavi erano sottoposti alla tortura della necessità e non riuscivano a fare altro se non perseguirla.

 

Immaginiamo a questo punto, spostandoci nel nostro tempo, una società libera dal fardello del lavoro, così come Marx ambiva; le ipotesi plausibili sono concretamente due e di seguito le espongo:

 

I) Vi è quella secondo la quale i lavoratori, liberati dal peso del lavoro, avranno finalmente tempo in abbondanza per dedicarsi alla contemplazione nonché al miglioramento delle proprie virtù, aristotelicamente parlando. Ma avendo questa ipotesi, per logica, viene da domandarsi come facciano i lavoratori, sprovvisti a questo punto di risorse finanziarie, a sopravvivere. Rispondiamo a questo dubbio immaginando un primo scenario in cui lo stato crei un fondo a cui attingere, una forma di reddito culturale, per incentivare la formazione culturale degli individui, i quali consapevolmente lo usano a fin di bene per sé stessi e conseguentemente per il bene comune, essendo divenuti dei cittadini a tutti gli effetti. Ma affinché ciò accada è necessario apportare un netto cambio di rotta nel policy making attuale, caratterizzato da ingenti tagli alla cultura.

Nel caso questa prima ipotesi di policy non si attui, i lavoratori, ormai sprovvisti di una fonte di guadagno, avranno come unica alternativa quella di battersi per i propri diritti fondamentali contro il potere statale, ma anche questa seconda ipotesi si verificherebbe a patto che i lavoratori stessi abbiano il desiderio di liberarsi dal fardello del lavoro, volendo dedicare parte del loro tempo alla fruizione degli artefatti della tecnologia umana e quindi al diletto, ma allo stesso tempo desiderando diventare conoscitori di sé e del cosmo; impiegare dunque la mente umana per attività che rendano la res publica meno affetta da palesi e sconcertanti difficoltà, quindi essere liberi per davvero e non schiavi liberati ma soppressi nello stesso momento dall’interminabile brama di possesso materiale senza altro fine se non il possesso stesso.

 

II) Vi è poi quest’altra ipotesi secondo la quale i lavoratori, liberati dal fardello del lavoro, che sottrae il loro tempo e logora il loro corpo ed anche la mente, non genereranno una società di dotti per due ragioni: la prima è data dal fatto che i lavoratori, provenienti da anni o anche decenni di vita alienante dal mondo e da sé medesimi, sarebbero sprovvisti del desiderio di coltivare le proprie facoltà intellettuali; la seconda ragione consiste, paradossalmente, proprio nella loro libertà dal fardello del lavoro: verrebbero privati dello sforzo patito, dimenticandosene ben presto, non avendo preso precedentemente coscienza di quanto il lavoro stesso fosse logorante, senza imprimerlo quindi nella propria mente; finirebbero quindi a dedicare il proprio tempo in attività di puro consumo nel mentre le macchine producono i beni, non dedicandosi di conseguenza al raggiungimento consapevole e benefico di quella condizione di libertà, dovendo come essere sospinti in continuazione, in modo analogo ai bambini, verso la meta, senza esserne per giunto consapevoli. Inoltre, considerata l’attuale politica portata avanti dagli stati in merito all’educazione dei cittadini, è facile prospettare uno scenario simile in cui essi sono privi di valori tali da renderli virtuosi. Prendiamo in considerazione quelle figure – abbastanza stereotipate, questo è vero, ma pur sempre esistenti – le quali hanno lauti guadagni, quindi in grado di accedere potenzialmente alla theoria, alla contemplazione della vita – ma nonostante ciò preferiscono dedicare tutto il loro tempo ad attività che di costruttivo per sé medesimi e per la collettività hanno ben poco. Aggiungiamo quei frequenti casi di giovani – provenienti da ambienti con rilevanti averi, frutto dell’opera dei genitori – i quali preferiscono dedicarsi ad attività che lasciano ben poco residuo positivo nella costruzione della loro persona, nonostante abbiano tutti i mezzi necessari ad acquisire quante più virtù possibili. Con ciò voglio sottolineare che la libertà dal lavoro non può giungere come un fulmine a ciel sereno, generando per di più immediatamente una società di dotti e filosofi conoscitori del cosmo e di sé stessi, focalizzati a rendere il mondo un posto migliore. Si necessità invece di un lungo e perseverante lavoro da parte delle istituzioni in primis e conseguentemente da parte dei cittadini dediti all’istruzione degli altri, per valorizzare la cultura e la sua importanza per un mondo migliore; per far comprendere come una vita fatta unicamente di mondanità non porta alla felicità permanente; per far comprendere che una vita passata a lavoro – generando denaro da spendere comprando ciò che si è prodotto, in un ciclo che termina solamente con la morte o con l’età pensionistica, in cui il più delle volte non si ha né voglia, né desiderio di fare nulla – non è vera vita umana.

 

 

Analizzando la prima ipotesi ne viene fuori un quadro decisamente desiderabile, ideale per la costruzione di un mondo migliore; analizzando invece la seconda ipotesi ne viene fuori un quadro decisamente sconfortante; ma in fondo, parzialmente, non è già realizzato? Viviamo in una società decisamente più libera dal lavoro e dalla violenza di quanto non lo fosse già una cinquantina di anni fa, abbiamo un potenziale bacino culturale illimitato dato dai moderni mezzi di comunicazione ed informatici, ma nonostante ciò abbiamo preferito sancire la nostra schiavitù ugualmente, dedicandoci a beni di consumo, molte volte anche oltre la nostra capacità economica, finendo col passare una vita a pagare debiti, invece di dedicarci a questioni più profonde e decisamente più importanti, per contribuire alla formazione personale e quindi al benessere collettivo. Si pensa a comprare e a consumare beni che non sono più di uso, bensì di consumo. Essi vengono divorati, alimentando un sistema che necessita di ciò; ma allo stesso tempo questo sistema è giunto ad un limite, in cui l’inversione di tendenza è più che necessaria. Ogni cosa  viene convertita non più in un bene quantomeno di uso, fatto per durare, per servire l’uomo nella realizzazione della sua opera, oppure in un bene di consumo, fatto appunto per essere consumato e soddisfare le necessità mondane ma che durano giusto il tempo che trovano prima di essere placate; no, ora è tutto un bene di consumo ma accresciuto nella sua inconsistenza e momentaneità; quasi intangibile diviene il tutto, a spese di una natura che soffre e di una società che fa lo stesso ma inconsciamente. Così come dell’automazione e dei suoi effetti, anche degli effetti di un mancato cambio di mentalità solo il tempo potrà dirci.

 

7 giugno 2018

 

 

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