Consumo critico dei media: il caso della “Hobbit Law”

 

La sensazione è quella che il messaggio dell’opera, l’eroismo che viene narrato, altro non sia se non una messinscena per gabbare noi consumatori ingordi e ciechi e che, per quanto possiamo indignarci, scopriremo soprusi anche in luoghi che, forse troppo ingenuamente e lasciandoci trasportare da associazioni emotive, immaginavamo almeno in una certa misura “puri”. 

 

 

Parlando de Lo Hobbit si potrebbe discutere di come spesso le esigenze economiche della produzione non si armonizzino con i tempi creativi necessari a realizzare un’opera soddisfacente: il regista originariamente designato dalla Warner Brothers per dirigere le riprese, Guillermo del Toro, venne infatti dimesso dal suo ruolo dopo due anni di preparazione in quanto i preparativi procedevano a rilento per gli standard della produzione. Gli subentrò Peter Jackson, già regista della trilogia de Il signore degli anelli, altra opera ambientata nel mondo inventato scaturito dall’immaginazione di J.R.R. Tolkien; ma la Warner Bros non concesse a Jackson che pochi mesi per iniziare le riprese. Troppo poco anche per un artista come Jackson, che dichiarò: «Ho passato la maggior parte de Lo Hobbit sentendo che non riuscivo a venirne a capo». Questa è peraltro la sensazione che viene trasmessa allo spettatore, e anche delle cattive scelte stilistiche si potrebbe parlare: la divisione poco efficace degli archi narrativi, l’utilizzo decontestualizzato di elementi riciclati da Il signore degli anelli, l’introduzione di personaggi e di espedienti narrativi che fanno sospettare la trovata pubblicitaria per ingraziarsi una fetta maggiore di pubblico.

 

Di tutto questo si potrebbe discutere, ma rimarrebbe un’irritante presa di coscienza del fatto che a volte gli interessi meramente economici vengono preferiti alla qualità artistica e al rispetto del processo di ideazione di un’opera. Discorso triste e in questo caso calzante, ma purtroppo questi elementi sono solo la fantomatica “punta dell’iceberg” di quello che è stato un processo arrivato anche a minare la dignità e il benessere di alcune persone coinvolte nella realizzazione dei film.

 

Il campo di battaglia è stato la Nuova Zelanda, che già ospitò la trilogia de Il signore degli anelli e ne trasse profitti economici notevoli soprattutto nel campo del turismo, assistendo a un aumento del 50% dei visitatori dal 2001, anno di uscita del primo capitolo della trilogia de Il signore degli anelli, al 2012. Visti questi precedenti e la radicata identificazione della Nuova Zelanda come la nazione della “Terra di mezzo”, l’annuncio della produzione di una nuova serie di film ambientata nell’universo inventato da Tolkien è stata accolta dai neozelandesi con la quasi certezza che Lo hobbit sarebbe stato girato nella loro terra. C’è un elemento importante da considerare per capire perché molte produzioni straniere, soprattutto statunitensi (in Nuova Zelanda sono stati girati, per esempio, Avatar e L’ultimo samurai), scelgano proprio quest’isola per le loro riprese: i sindacati degli attori e in generale dei professionisti coinvolti nella realizzazione dei film godono di meno considerazione rispetto a quella che possono vantare i sindacati nella madrepatria delle case cinematografiche. Queste associazioni di artisti neozelandesi videro ne Lo hobbit la possibilità di rivendicare maggiori diritti, in particolare quello di contrattazione collettiva e quello sui residuals (cioè i compensi assegnati a coloro coinvolti nella realizzazione dell’opera cinematografica in caso di riedizioni, rilascio di DVD, streaming online, etc.). Le proteste dei sindacati scatenarono un meccanismo di ricatto da parte delle case di produzione (la già citata Warner Bros Pictures, la New Line Cinema, la Metro-Goldwyn Mayer e WingNut Films), che minacciarono di spostare le riprese altrove, nominando come possibili ambientazioni varie località dell’Europa dell’est. La reazione del governo neozelandese, al tempo di maggioranza di centro-destra, fu l’emissione del Employment Relations (Film Production Work) Amendment Act 2010, conosciuta meglio come Hobbit Law, che, sulla carta, sancisce la differenza fra contractors (contraenti) e employees (dipendenti) nell’ambito della produzione cinematografica. Bill Hodge, professore di legge all’università di Aukland, asserì in un’intervista: «Tutto ciò che la Hobbit Law fa è ribadire che, se firmi un contratto indipendente, sei un contraente indipendente, e tant’è. Non puoi cambiare stato e tornare a essere un dipendente dopo aver passato un periodo come contraente». Nella pratica tuttavia questa azione limita ancor più la possibilità dei sindacati neozelandesi delle figure professionali neozelandesi coinvolte nella realizzazione di opere cinematografiche di contrattare sullo stesso piano delle case di produzione straniere. Infatti vengono esclusi dalla definizione di dipendenti (che, a differenza dei contraenti, godono del diritto di formare un sindacato) una lunga lista di professionisti, fra cui attori, cantanti, ballerini, controfigure. Questo si ripercuote sulla qualità di vita delle figure coinvolte nella realizzazione dell’opera, che, non avendo alle spalle un’organizzazione che si batta per loro, si vedono costrette ad accettare contratti precari, rinunciando in molti a ciò che di norma dovrebbe garantire un contratto per essere considerato equo, come il salario minimo e i permessi per malattia.

 

Facendo il punto della situazione: da una parte abbiamo le associazioni di professionisti che si battono per un trattamento dignitoso, dall’altra (volendo concedere il beneficio del dubbio ed evitando di immaginare casi poco limpidi) l’opportunità per il governo della Nuova Zelanda di creare nuovi posti di lavoro e di aumentare la visibilità del Paese nel panorama turistico internazionale. A questo punto possiamo domandarci se sia accettabile che lo Stato preferisca la crescita economica generale (dal 2012, anno di uscita del primo film della trilogia, al 2014 i turisti in entrata nell’isola passarono da meno di 2.6 a più di 2.8 milioni) ai diritti, che normalmente in altri casi salvaguarda, di alcuni cittadini. Non è una domanda a cui è facile rispondere, dato che le variabili economiche e di punti di vista sono troppi per essere trattati in modo esaustivo in questa sede; tuttavia come principio generale possiamo dire che lo Stato dovrebbe tutelare i diritti dei suoi membri contro possibili soprusi. Per usare altri termini: un’ingiustizia non è legittima solo perché alcuni individui ne traggono un qualche profitto. Questo dovrebbe essere il principio da cui muovere.

 

Peter R. Jackson (1961)
Peter R. Jackson (1961)

Da qui passiamo a una questione che ci riguarda più da vicino in quanto spettatori e consumatori del prodotto mediatico che ci viene proposto. Il cinema fra tutti i media si presta a essere sfruttato dal punto di vista economico, data la possibilità di trarre profitti da molti aspetti legati alla semplice opera cinematografica: dai biglietti del cinema al merchandising, dai diritti d’autore alla vendita di DVD; per questa ragione non si svincola dai meccanismi che regolano in altri campi dell’economia. Nel caso della Hobbit Law abbiamo assistito a un caso fra i molti in cui una grande società tiene in mano così saldamente il potere economico da riuscire a influenzare le decisioni legali di una nazione, andando come sovente succede a ledere i diritti di un gruppo di individui. Una volta scoperchiati questi meccanismi di prevaricazione, il consumatore che abbia a cuore l’eticità di ciò che consuma dovrebbe esprimere la propria disapprovazione per i metodi poco equi impiegati nella produzione, per esempio evitando di “acquistare” il suddetto bene. Questa strategia funziona abbastanza bene per i generi di consumo quali per esempio il cibo e il vestiario: se il consumatore non trova corretta la politica della società che produce il bene, spesso il cambio di abitudini che comporta la scelta di non finanziare più una determinata realtà non ha grandi ricadute nella sua vita. La questione è leggermente diversa se pensiamo ai prodotti mediatici, in quanto spesso tendiamo a sviluppare dei legami emotivi con le opere in questione e non ci è congeniale pensare che un film, una canzone o una serie tv che ci hanno entusiasmato possano essere state ottenute attraverso la sofferenza di alcune persone. La sensazione è quella che il messaggio dell’opera, l’eroismo che viene narrato, altro non sia se non una messinscena per gabbare noi consumatori ingordi e ciechi e che, per quanto possiamo indignarci, scopriremo soprusi anche in luoghi che, forse troppo ingenuamente e lasciandoci trasportare da associazioni emotive, immaginavamo almeno in una certa misura “puri”. L’alternativa all’indagine, per quanto demoralizzante possa essere, è però l’atteggiamento che tiene in vita questo sistema, è il consumo vorace di quello che si può definire “fast entertaiment”, ricalcando il termine “fast food” e riprendendo da questo il concetto di un prodotto creato esclusivamente per il profitto a discapito del benessere del consumatore e del contesto di produzione.

 

18 settembre 2018

 









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