La filosofia del Rinascimento nel saggio sul Pomponazzi di Francesco Fiorentino

 

Nel 1862 Francesco Fiorentino (Sambiase 1834 – Bologna 1884) va a Bologna come professore di storia della filosofia e, ancora sotto l’influsso di Bertrando Spaventa, sente sempre più viva l’esigenza di andare alle prime origini di quell’idealismo che aveva trasformato il mondo moderno: la filosofia del Rinascimento italiano.

 

Giorgione, "Tre filosofi" (1506-1508)
Giorgione, "Tre filosofi" (1506-1508)

 

Nei primi anni di permanenza a Bologna si trova di fronte a notevoli difficoltà  nel concludere, a causa della mancanza di testi, gli studi sulla filosofia greca prima e quelli su Kant e Vico poi; e queste difficoltà aumentano quando incomincia a dedicarsi allo studio della filosofia rinascimentale.

 

« A libri filosofici qui si sta molto male… [scrive allo Spaventa nel ’63] Avrei bisogno di buoni espositori di Platone e di Aristotele… tranne alcuni commentari antichi non si trova altro… Chi poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio–Evo? Di Pomponazzi ci è solo il libro dell’Immortalità. I manoscritti di Boccaferrato versano più sulla fisica aristotelica che sulla metafisica… Ho trovato però Scoto Erigena, e Patrizzi… » (G. Gentile, Documenti inediti sull’hegelismo napoletano)

 

Perciò solo nel 1867 riesce ad occuparsi di Campanella nelle lezioni all’Università e a dedicarsi alla preparazione della monografia sul Pomponazzi.

 

Nel maggio dell’anno seguente pubblica questo saggio: P. Pomponazzi, studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI, dove espone il problema psicologico legato alle discussioni storiche sulla dottrina aristotelica dell’anima,  rivelando così, come osserva il Bosurgi, il suo «pensiero monistico come idealismo concreto.» (D. Bosurgi, Logos)

 

Il Fiorentino, per quanto riguarda il commento greco ad Aristotele, si pone dalla parte di Alessandro di Afrodisia, il quale: «ricostruisce in certo modo l’unità dell’anima che in Aristotele era quasi spartita in due  e mette l’intelletto a paro col sentire» facendo si che «le più alte come le infime facoltà» fossero «risultato dell’organismo».

 

Per Alessandro, infatti, «l’intelletto… è materiale e fisico… non è nulla in atto, ma è tutte cose in potenza… (e) il tragitto dalla potenza all’atto… avviene per virtù dell’intelletto attivo».

 

Mentre Aristotele considerava «lo sviluppo della nostra mente opera del Noo interiore… Alessandro, invece, fa che noi stessi cominciassimo e proseguissimo sino ad un certo punto il nostro sviluppamento.» (F. Fiorentino, P. Pomponazzi, Studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI)

 

Egli pose in evidenza il concetto di sviluppo insito nella filosofia aristotelica che, al contrario, Averroè trascurò.

 

E tutto ciò fu possibile proprio perché lo stesso Aristotele aveva sostenuto che «da una parte l’universale non può più stare da sé. E cotesta indipendenza è accordata soltanto allo individuo… dall’altra l’universale solo è conoscibile».

 

« Così la realtà e la verità si trovano spartite. La realtà si appartiene all’individuo; la verità all’universale. » (Ivi)

 

E nella filosofia aristotelica c’è questa dualità, scrive il Fiorentino, proprio perché «Aristotele non è pervenuto sino all’autogenesi dello spirito, perché non si può creare quel che si suppone esterno non solo, ma sproporzionato alle facoltà umane. L’infinito per lui ora consisteva nel concetto dello spirito, ed ora in qualche cosa di esterno.» (Ivi)

 

Ed è questa la dicotomia presente nella dottrina aristotelica dell’anima.

 

Il corpo per Aristotele è la potenza , l’anima è invece l’entelechia.

 

Ma una volta «arrivato all’intelligenza, egli tentenna… L’intelligenza pare a lui un altro genere di anima, e perciò separabile». (Ivi)

 

Secondo il Fiorentino ciò deriva proprio da quella incertezza di Aristotele nel determinare il rapporto tra universale e particolare, incertezza che, è evidente anche nella concezione della materia e della forma, nel legame tra Dio e mondo e nella teoria della conoscenza.

 

« Nell’anima stessa, per Aristotele, egli scrive c’è una distinzione tra il senso e le facoltà inferiori e l’intelletto; anzi nell’intelletto stesso c’è questa duplicità: da un lato esso è legato con le altre facoltà dell’anima, dall’altro è un altro genere di anima ed è separabile, al contrario dei gradi inferiori che sono legati agli organi; e altrove sostiene che il Nous viene dal di fuori e sia divino. » (Ivi)

 

Di conseguenza l’immortalità è attribuita da Aristotele solo all’Intelletto Attivo che «slegato che sarà dal corpo, non avrà né sensazioni, né fantasmi, né memoria, né desiderio: e perciò neppure volontà, né intelletto passivo: talchè non potrà avere né coscienza né personalità». (Ivi)

 

Procedendo nell’analisi storica dei due commenti ad Aristotele, vede come al contrario del commento arabo, che «piacque tanto ai pensatori del Medio Evo» poiché la filosofia scolastica e il commento di Averroè «si fondavano su la trascendenza, su l’ipotesi che il divino stesse fuori del mondo» (ivi), il commento greco non ebbe fortuna nel Medio Evo, ma si affermò decisamente nel Rinascimento. 

 

 In quel periodo storico Pietro Pomponazzi ricollegandosi alla interpretazione alessandrina, riscopre lo spirito autentico del filosofo greco, riducendo non solo a maggiore semplicità e a maggiore evidenza le funzioni del nostro pensiero, ma, insistendo sul concetto di uomo come termine medio tra le cose eterne e le mortali.

 

Certo il Pomponazzi, scrive il Fiorentino, non ha raggiunto né la perfezione nella teoria della conoscenza, né è riuscito a fondare la «vera mediazione», ma si è fatto più vicino di quanto non si fosse fatto nessuno prima di lui.

 

Egli infatti è pervenuto a questo risultato: «muovendo dai principi aristotelici, che nella natura tutto procede ordinatamente, e che il nostro pensiero non può stare senza fantasia. Con questi due principi egli si è sollevato dalle infime forme della materia sino all’intelletto umano; e se ha lasciato di là da esso un altro intelletto, più puro, e più perfetto, e non ha saputo effettualmente riannodarlo con la materia, è colpa eziandio della filosofia aristotelica». (Ivi)

 

In tutti i modi il problema dell’intelletto umano «annodato con l’organismo corporeo», di cui il Pomponazzi tratta nello scritto Della Immortalità dell’Anima, segna la sua autentica modernità e il suo collegarsi all’insegnamento autentico dello Stagirita.

 

« L’anima nostra [scrive il Fiorentino, nella prospettiva del Pomponazzi] non potendo pensare altrimenti che mossa da fantasmi e perciò annodata con l’organismo corporeo, disciolta che ne sarà, verrà meno  senz’altro. Questo insegna la ragione: questo Aristotele; la chiesa no: io dunque come filosofo nego la immortalità, come cristiano ci credo. Ecco la formula più precisa del contrasto tra la filosofia e la religione, tra la ragione e la fede. Quinci innanzi la coscienza umana sarà tormentata dalla rottura interna del proprio pensiero… Questa rottura contrassegna la nota principale del nostro risorgimento, e ci stacca dal Medio Evo, i cui continui sforzi miravano ad accordare fede e ragione…  

 

Questo dubbio fecondo fu stimolo poi a quelle indagini pazienti e accurate, che svelarono all’uomo il nuovo orizzonte dell’età moderna. Ed è per questa ragione, se io non dubito di attribuire al Pomponazzi l’onore di aver posto nella coscienza speculativa il primo germe della vera rinascenza. » (Ivi)

 

Ma, egli continua, chiedendosi : «togliendo di mezzo l’immortalità, quale altro fine avrà l’uomo?»

 

« La finalità dell’uomo riposta nella virtù; la virtù fatta premio a se medesima, sono intuizioni che sorpassano il secolo del Pomponazzi… (ed egli) tre secoli prima fa presentire la disinteressata moralità di Emmanuele Kant. » (Ivi)

 

Colto il collegamento di Pomponazzi con Kant nel concetto di virtù come fine a se stessa,  analizza lo scritto sulla Immortalità dell’Anima, nel quale è evidente il concetto di virtù fondata su basi umane e non più trascendenti.

 

Fa vedere, così, come per prima cosa il Pomponazzi critica proprio gli averroisti, i platonici e i tomisti.

 

Degli averroisti critica la dottrina della separazione tra intelletto immateriale ed eterno e anima vegetativa che ha bisogno degli organi corporali, avvalendosi del primo libro Dell’Anima di Aristotele ove risulta che l’Intelletto Umano come sostanza separata, richiederebbe un’azione separata e indipendente.

 

Contro i Platonici che ammettono la spartizione dell’anima in sensitiva e intelligente e si allontanano dagli averroisti, sostenendo che la differenza ultima dell’individuo umano stia nell’intelletto, obietta: «… se una è l’essenza con cui sento, e un’altra quella con cui intendo, come può succedere che quello stesso Io che sente sia pure quello che intende?» (Ivi)

 

Beato Angelico, "Ritratto di San Tommaso"
Beato Angelico, "Ritratto di San Tommaso"

E infine a proposito di S. Tommaso, il Pomponazzi scrive: «Ma far l’anima atto del corpo: far l’intelletto immedesimato nel senso, e perciò forma anch’esso del corpo, e poi distinguere l’anima dal composto, e dire che il composto è corruttibile, e l’anima no, sono cose che non si capiscono». (Ivi)

 

Per il Fiorentino il significato del pensiero del Pomponazzi non si esaurisce nella critica a quelle che erano le opinioni filosofiche più importanti, bensì nello stabilire una gradazione non solo tra gli esseri, ma anche tra i gradi dell’intelletto e quelli del conoscere.

 

Nell’uomo l’intelletto si sviluppa in intelletto speculativo, con cui l’uomo si solleva fino a Dio; fattivo, con cui esso opera nelle cose materiali; e pratico con cui compie i suoi doveri di uomo.

 

Dopo aver determinato lo stretto legame che c’è  tra i gradi dell’intelletto,  si chiede: in che cosa consiste la novità di Pomponazzi nei confronti degli altri critici dell’immortalità dell’anima?

 

« … nell’aver dimostrato perché fosse impossibile l’immortalità, secondo la teoria del conoscere e del volere e perché fosse inutile a spiegare la finalità dell’uomo. » (Ivi) 

 

Per il Fiorentino il significato del filosofo rinascimentale consiste nel fatto che «con il libro della Immortalità egli avesse iniziato una filosofia affrancata dai vincoli della fede, e datole inoltre  un avviamento più… pratico. Col libro sugli Incantesimi aperse la via alle investigazioni della natura… finalmente col libro del Fato diede il primo saggio della critica religiosa…paragonando il contenuto dei dommi col criterio della ragione…Alla filosofia vaporosa e sottile degli arabi contrappose il sentimento vivo della natura e della coscienza; e se non potè adergersi allora alla intuizione moderna del mondo, non fu difetto dell’ingegno individuale, ma dell’ambiente in cui viveva». (Ivi)

 

A questo punto si dilunga sui critici e sui seguaci della teoria dell’anima .

 

Ma quel che importa tener presente è la constatazione che  riandando a quel filosofo e alle controversie sulla dottrina aristotelica dell’anima, fa suo il riconoscimento del  «pensiero come intimo al mondo».

 

« Dall’assoluta esclusione dell’intelletto, egli scrive, nel modo come gli averroisti l’avevano ammessa, credendo di seguire Aristotele, sino all’intuizione del Campanella, che fa scaturire il pensiero dell’anima procreata dal seme, i conati degli Alessandristi convergono tutti ad intrinsecare l’intelletto con la materia. Che se non seppero affrancare affatto l’operazione intellettiva da ogni influsso divino, nondimeno anche in ciò si mostrarono propensi e solleciti di scemare al possibile l’efficacia di quest’ultimo. La filosofia moderna muovendo dall’identità del pensiero e dell’essere, presuppone e mette a profitto il risultamento finale della rinascenza. » (Ivi)

 

Con questa valutazione del pensiero del Pomponazzi, rivela di concepire l’infinito e l’assoluto come « relazione di tutte le cose e di tutte le persone ».

 

« L’infinito, in altri termini, egli scrive, è un’idea, e  se volete, anche una realtà, ma una realtà diversa dalla naturale; è la realtà umana. »

 

« Se l’infinito, egli continua, avesse a concepirsi ancora come un opposto qualsiasi, e che avesse ad essere sequestrato dal mondo e dallo spirito umano, tutto il processo della storia sarebbe stato inutile. La conquista del pensiero moderno è appunto cotesta intimità dell’infinito; conquista annunziata la prima volta da Cartesio, ma preparata… dalle pazientissime ricerche e dalle lotte accanite del Rinascimento italiano. » (Ivi)

 

Possiamo, quindi, affermare che il Fiorentino ricercava le origini rinascimentali della filosofia moderna perché sollecitato da una esigenza storiografica di continuità e sviluppo storico del pensiero umano, e da una esigenza storica “totalizzante”.

 

« Per noi, egli infatti conclude, il pregio della rinascenza è stato riposto nello sforzo d’intrinsecare sempre più l’intelletto con la materia: la filosofia moderna non può essere dunque altra che il frutto di  quegli sforzi, la ricognizione di quella medesimezza. Il mondo umano ha questo di proprio, ch’esso è quale vien fatto dallo spirito nostro. » (Ivi)

 

Felice Tocco, recensendo il saggio sul Pomponazzi, ne evidenzia l’autentica ispirazione neokantiana, traducendo dal tedesco il giudizio favorevole che il Prantl ne aveva dato sul “Centralblatt” del 30 ottobre dello stesso anno.

 

« In questo largo disegno, scrive il Tocco, l’arte e la scienza, la religione e la politica, illustrano e accompagnano le vicende della filosofia. La filosofia non è considerata come una scienza morta e irrigidita, ma viene compresa nel vero valore, cioè come l’ultima espressione delle nuove esigenze dello spirito umano. » (F. Tocco, Recensione di “P. Pomponazzi”. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI)

 

16 agosto 2019

 




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