Fare filosofia o non fare niente

 

È diffusa l’idea dell’inutilità della filosofia per la vita pratica e l’azione quotidiana. Ma, a guardare meglio, dimenticarsi delle domande fondamentali sull’uomo porta a coltivare male anche il proprio orticello, per quanto “concreto” e piccolo esso possa essere.

 

Rembrandt, "Ritratto di uno studioso" (1631)
Rembrandt, "Ritratto di uno studioso" (1631)

 

Non è difficile aver sentito, almeno una volta negli ultimi anni, la netta distinzione fra il mondo scientifico e pratico – quello della chiarezza, della precisione, dove ci sono le risposte – e il mondo filosofico – quello delle domande tanto generiche quanto insolubili. Il filosofo viene visto come colui che si crogiola su domande che, in un certo senso, non ha neppure senso porsi, in quanto non c’è una risposta universale. “Il senso della vita?”, “Qual è la società ideale?”, “L’uomo è libero o agisce per necessità?”: non fatevi queste domande. Filosofi da più di 2000 anni se le sono poste e, come la storia insegna, si sono sempre dati risposte differenti e non conclusive.

 

Ma non solo: secondo varie persone, anche se ad alcune domande si rispondesse, non ci sarebbero grandi guadagni sul lato pratico; niente almeno in confronto a quanto pesa l’economia, la giurisprudenza, la biologica, ecc. sulla vita quotidiana dell’uomo. A questo punto, pure il lavoro pratico più umile ha un senso maggiore di filosofare: permette di portare lo stipendio a casa e inoltre di contribuire al funzionamento della società. Allora, che la filosofia diventi al massimo un hobby, un’attività con cui passare il tempo libero, ma non si dedichi ad essa una facoltà universitaria o, peggio ancora, uno spazio nell’insegnamento scolastico.

 

Magritte, "Un gioco di specchi" (1937)
Magritte, "Un gioco di specchi" (1937)

Tuttavia, questo ragionamento è fallace per più ragioni. Ne riporterò qui una tramite un esempio. Ipotizziamo che io studi economia aziendale: analizzo come mandare avanti un’attività, come fare fatturato e tenere i conti a posto con tutto quel che ci gira attorno. Finita la laurea, io ho ottenuto – o almeno avrei dovuto ottenere – delle risposte alla domanda “come riesco a far funzionare un’azienda all’interno del mercato capitalistico in cui vivo?”

Ma, se proprio non ho voglia di far filosofia (se con filosofia si intendono quelle domande generali ritenute inutili), finirò per fermarmi alla domanda precedente (che in fondo è un grado di filosofia minore) e non approfondirò maggiormente cosa ho studiato. Cioè, non arriverò a chiedermi domande quali: ma il sistema capitalistico è un sistema economico giusto o crea problemi sociali? Ci sono altri modelli economici meglio funzionanti per la società?

E non farsi queste domande, purtroppo, renderà tutto il lavoro precedente inutile. Questo per il semplice fatto che – senza approfondire i motivi per cui faccio un determinato lavoro – rischierei di compiere qualcosa di sbagliato senza rendermene conto. Una situazione non molto diversa da uno che impara benissimo come fare il sicario per la mafia e non si domanda se ciò sia etico. Certo, quest’atto è più grave (o forse non lo è, visti i danni sociali allarmanti che il capitalismo è capace di provocare), ma il principio è lo stesso: se non tento di riflettere su quel che sto facendo, di approfondire le motivazioni che mi dirigono a vivere e lavorare in un certo modo, rischierò di fare i peggior danni senza rendermene conto.

 

Con questo certamente non si vuol ridurre tutto ad un’ottica individualista del tipo “tutta la colpa dipende da te”. Se il sistema capitalistico è sbagliato, un economista consapevole di ciò non può da solo sconvolgere il sistema da solo; tuttavia sarà capace, nel suo piccolo ambito, di limitare i danni, nonché di cercare altre persone con cui magari creare un movimento politico che cerchi un cambio di direzione. Insomma, il “tanto le cose non cambiano” è un motto che possiamo anche evitare di proferire per questa volta. Piuttosto, mettiamoci a fare filosofia – quella seria.

 

3 giugno 2019

 








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