Pensare le sfide del mondo con Hannah Arendt

 

Rompendo con la tradizione giusnaturalista, Arendt sottolinea invece come l’uguaglianza non rappresenti un fatto naturale ma istituzionale. Il regno della natura non è quello dell’uguaglianza. Semmai quello delle disuguaglianze, solo la legge rende gli uomini e le donne uguali tutelandone i diritti, ovvero nello spazio pubblico si realizza la libertà.

 

 

La storia conosce tempi  bui  in cui la sfera pubblica si oscura e il mondo è così incerto che gli uomini e le donne cessano di chiedere alla politica qualcosa di più del giusto rispetto verso i loro interessi vitali e la loro libertà personale. È con questo riferimento a E. Young-Bruhel, Hanna Arendt, perché ci riguarda (p.8) che si apre il volume di Nadia Beber, A casa nel mondo. Pensare il proprio tempo (Publistampa Edizioni, 2017), dove l’autrice rivisita il pensiero della filosofa tedesca, con l’intento di andare oltre. Il rischio che noi corriamo, sottolineano da più parti diversi studiosi, è di essere sempre più esposti ad un presente senza memoria,  percepiamo il tempo come immobile, senza passato, né futuro. Una vita così, è una vita che non progredisce e non si proietta in una direzione diversa e migliore. A maggior ragione, nell’epoca del linguaggio dell’odio, del riemergere dei razzismi ed degli estremismi che gettano un velo sul prossimo futuro, bisogna ripartire dagli esempi virtuosi della Storia e dal pensiero, come antidoto ad ogni forma di dittatura. Secondo Hanna Arendt, questa inizia con il disprezzo di ciò che abbiamo. Il secondo passo è «Le cose devono cambiare, non importa come, qualunque cosa è meglio di quello che abbiamo». I governi totalitari, secondo la filosofa organizzano questo sentimento di massa e articolandolo fanno sì che le persone lo apprezzino. Si prepara così la Gleichschaltung. Ovvero il processo di allineamento.

 

« Sei allineato non con le autorità. Ma con il tuo vicino, con la maggioranza. Il totalitarismo fa leva sui pericolosi bisogni emotivi di persone che vivono nell’isolamento e nel timore dell’altro. Quello che consente ad uno stato totalitario di governare è la disinformazione, una stampa non libera, una sequela di bugie. E un popolo che non può giudicare, non può neanche decidere. È privato dalla capacità di agire, ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con un popolo così ci puoi fare quello che vuoi. » (Hannah Arendt, The New York Review of Books, 26 ottobre 1978)

 

L’intento del libro di N. Beber è quello di stimolare in chi legge un’interpretazione personale e di creare un tramite tra le tragedie del Novecento e il momento storico culturale che stiamo vivendo: il pensare come antidoto alla banalità del male. In particolare è importante per l’autrice rivisitare le tragedie del secolo scorso, mettendole  a confronto con ciò che sta avvenendo oggi in Italia e in Europa perché l’esito di un comportamento e di un sentire “morale” non si misura nel successo politico immediato, ma dalle tracce che lascia nella coscienza dei singoli e in ciò che semina.

 

 

A casa nel mondo affronta la questione della banalità del male e del “non pensiero”, inteso come mancanza di senso critico e come comoda recezione passiva dei luoghi comuni, delle generalizzazioni che la maggioranza dei social e dei media ci propinano quotidianamente, rispetto alle tematiche scottanti del presente. L’intento dell’autrice è di sottolineare come il razzismo, l’antisemitismo, l’odio per un supposto nemico, non sono collocati in uno spazio storico ben definito e concluso, in un’area che potremmo definire di follia quale era il nazismo, ma come fenomeni che possono riprodursi nella società contemporanea, magari non nelle forme estreme che abbiamo conosciuto, bensì come veleno che serpeggia nella società, e prodotto dal risorgere dei nazionalismi. Nella riscoperta della nazione, come notavano storici quali E.J. Hobsbawm o sociologici come Max Weber, si può rintracciare una costruzione storica sociale contingente o vaga, ovvero un guscio che si può riempire di contenuti più svariati. Nadia Beber, pone l’accento su quanto possa essere pericolosa un’idea del territorio cara alla destra, ma talvolta anche alle forze progressiste, mentre al contempo si esaltano i temi della diversità e dell’intercultura. Concentrandosi sulla possibilità che tale guscio si riempia di un contenuto malvagio, l’idea di confine risulta per l’autrice sempre e comunque negativa, poiché, a suo avviso, è all’interno di questo spazio simbolico e materiale che può nascere e crescere l’idea del nemico visibile e invisibile e che può materializzarsi nella figura del migrante, ma io direi anche di colei/colui che è “diversa/o” non solo per etnia, ma per sesso, orientamento sessuale, classe e appartenenza. Si tratta di “nemici” che  assorbono gli istinti più disparati, di ostilità, necessari per la costruzione del “noi” rispetto all’“altro”. Per il patriottismo regionale, gli immigrati sono spesso coloro che intorbidiscono la purezza etnica, per quello nazionale, stranieri che minano la compattezza della società.  Per quello di classe, essi sono abusivi che competono sul mercato del lavoro. La radicalizzazione dello scontro, a livello di civiltà, attraverso le guerre – pensiamo a quella contro il terrorismo – non è che l’esasperazione tra il “noi”  e l’“altro”.

 

Alla visione manichea, sottolinea l’autrice, occorre contrapporre la complessità di un mondo ricco di sfumature, dove ciò che risulterà determinante, non sarà una categoria culturale, ma morale, o meglio come Arendt insegna, la capacità di giudicare il bene e il male e di assumersi, di conseguenza le proprie responsabilità. A questo fine, Beber ripercorre accuratamente il pensiero della filosofa, a cominciare dalle sue opere più note, Le origini del totalitarismo e La banalità del male cogliendo in quest’ultimo lavoro, la riflessione fondamentale, secondo cui il male può non essere radicale, ma “obbediente” se si agisce in conformità alla “virtù dell’obbedienza”, cioè senza farsi domande. E proprio per questo che la Arendt, dialogando con i più grandi filosofi dell’epoca, da Heidegger a Jaspers, sceglie di insistere sul valore della “disobbedienza civile”. Noi giudichiamo il bene e il male secondo le nostre esperienze o avendo in mente alcuni eventi che sono divenuti un esempio. Quando perdiamo questa capacità di giudizio politico e morale e cadiamo nell’indifferenza, ci avverte Arendt, lì si nasconde la banalità del male.

 

Un concetto chiave e che viene analizzato approfonditamente da Nadia Beber è quello di cittadinanza. In questo senso, ciò che a mio avviso è interessante è che Hannah Arendt, come altre grandi filosofe contemporanee – penso a Simone Weil in particolare – immette la sua personale esperienza, ovvero l’essere donna, ebrea, non appartenente a nessuna scuola, per costruire anche il suo autoritratto, intrecciandolo con un’intensità emotiva, che non sacrifica nulla alla rigorosa distinzione tra pubblico e privato, la sua personale esperienza con la storia del totalitarismo e della Shoah. Costretta dalle circostanze storiche a fare i conti con il proprio ebraismo, H. Arendt è andata a fondo, scoprendo nella questione ebraica un nucleo paradigmatico, il nervo scoperto della modernità (p. 52). Attraverso il gioco complesso del coinvolgimento e del distacco, in Noi profughi rintracciamo la genesi di due temi fondamentali: il problema dell’esclusione fondata sulla discriminazione, e quello delll’inclusione, che rischia di essere trasformata in pratica di assimilazione, in negazione della propria storia. Emigrata in America per sfuggire alle persecuzioni, Hanna Arendt visse sulla propria pelle la condizione di emigrata, rifugiata senza patria. E nell’opera citata, essa rivendica la condizione di paria, l’unica alternativa a quella dell’assimilata che baratta la propria dignità in cambio di una nuova identità nazionale. Tuttavia resiste alla tentazione di disegnare un’alternativa semplificante tra esclusione ed inclusione. “L’essere solo vittime” nega ai suoi occhi il principio basilare dell’esistenza, “la facoltà di agire”. I paria nel XX secolo sono gli ebrei, ma per estensione questa figura è colui che non trova un mondo disposto ad accoglierlo, per quello che è, un semplice essere umano. Rifugiato è perciò privo di significazione politica e simbolica, vive in un mondo che lo rende invisibile, un “ospite”.  Paria non è dunque solo l’ebreo, ma chiunque venga a trovarsi nella condizione di aver perso una patria, e si trova nelle condizioni di cercarne un’altra: un semplice essere umano alla ricerca di un posto nel mondo. L’antisemitismo, per Arendt, si sviluppa come paradossale sintesi di assimilazione e sradicamento: si è colpevoli quando la propria esistenza è incompatibile con l’ordine che gli altri vogliono edificare. La prova della propria “colpevolezza” è nell’essere superflui, inassimilabili, sradicati. Sull’idea dello sradicamento sarebbe utile rileggere anche la Simone Weil della Prima radice.

 

Rompendo con la tradizione giusnaturalista, Arendt sottolinea invece come l’uguaglianza non rappresenti un fatto naturale ma istituzionale. Il regno della natura non è quello dell’uguaglianza. Semmai quello delle disuguaglianze, solo la legge rende gli uomini e le donne uguali tutelandone i diritti, ovvero nello spazio pubblico si realizza la libertà.

 

« La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità, tranne le loro qualità umane. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere umano. » (Vita activa: la condizione umana).

 

Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo vengono indicati il diritto alla vita, alla libertà di religione, alla felicità, alla proprietà, che per essere applicati presuppongono l’appartenenza ad una qualche comunità politica. Titolare dei diritti umani è perciò solo il cittadino, fuori della cittadinanza vi è il non essere, la pura negatività, la perdita del riconoscimento di ogni sacralità dell’essere umano. Idee condensate nella celebre formula, il  “diritto ad avere diritti”,  di Le origini del totalitarismo.

 

27 aprile 2019 

 








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