La prova ontologica di Anselmo d'Aosta

 

Tenteremo di esporre i punti salienti di quella che potremmo definire la prima dimostrazione dell’esistenza di Dio, ridefinita poi da Kant “ontologica”. Nel suo Proslogion, opera databile 1077-1078, Anselmo D’Aosta, Vescovo di Canterbury, delinea in maniera particolarmente acuta una prova a priori dell’esistenza di Dio che farà scuola per i suoi contemporanei e gli anni a venire.

 

 « Non tento, domine, penetrare altitudinem tuam, quia nullatenus comparo illi intellectum meum; sed desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam, quam credit et amat cor meum »

 Non tento, o signore, di penetrare la tua profondità, poiché in nessun modo metto con essa a confronto il mio intelletto; ma desidero intendere in qualche modo la tua verità, quello che il mio cuore crede e ama.


 

Già in apertura del Proslogion Anselmo vuol chiarire il suo intento: egli è consapevole che per l’uomo è impossibile avere un’adeguata conoscenza di Dio e perciò sarebbe privo di senso qualsiasi tentativo fatto al riguardo. Occorre sottolineare che l’intelletto umano e la natura divina sono tra loro incommensurabili e dunque mai l’intelletto umano potrà penetrare nella profondità divina. Anselmo, nonostante questa premessa, crede che l’uomo possa tendere ad avere una certa comprensione dell'esistenza e degli attributi di Dio, se egli si sforzasse di intendere quella verità che il suo cuore già crede e ama.

 

Particolarmente interessante sembra essere quanto Anselmo afferma a conclusione del primo capitolo del Proslogion: « Nisi credidero, non intelligam » [Se non avrò creduto, non potrò intendere] . Questa è una chiave fondamentale per la comprensione di quanto sostenuto nella prova; infatti Anselmo non ritiene che mediante l’intelletto si possa giungere alla fede, ma piuttosto, mediante la fede si possa giungere a una qualche conoscenza razionale. Dunque il principio della dimostrazione anselmiana è costituito dalla fede, espressa dal « credimus », e dall’idea « te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit » [tu sei qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore]

 

Per Anselmo chi crede in Dio crede nell’esistenza di un Essere a cui attribuisce questa idea. Occorre però osservare che “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore” non si identifica con “ciò che è maggiore di ogni cosa”; infatti, a rigor di logica, se uno è “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore”, allora è maggiore di ogni cosa, ma, viceversa, se uno è maggiore di ogni cosa, può non essere “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore”. 

 

Dopo queste premesse necessarie possiamo constatare che la prova anselmiana vera e propria prenda le mosse dal tentativo di far ricredere l’« insipiens » ovvero colui che, ancor privo della Luce della grazia, non riesce ad orientarsi nella sua ricerca. Quando quest’ultimo afferma « non est deus » Anselmo risponde sostenendo che l’insipiente deve avere nel suo intelletto l’idea di “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore”. Di qui la conseguente affermazione di Anselmo, il quale ritiene che questa idea non sia solo nell’intelletto di chi crede nell’esistenza di Dio, ma anche nell’intelletto di chi la nega. La differenza sta nel fatto che nel credente c’è a causa del suo atto di fede, invece nell’insipiente c’è perché « intellegit quod audit » [comprende ciò che ascolta]. Quindi, per Anselmo, ciò che l’insipiens intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. Dunque almeno di questo l’insipiens deve farsene una ragione, ma, certamente, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto, esso deve esistere anche nella realtà. L’insipiente in questo modo deve convincersi che i credenti non credono esistente solo un’idea, ma comprendono che realmente esiste colui a cui attribuiscono quest’idea; ciò significa che i credenti sono certi per fede, e in un momento immediatamente successivo sono certi anche intellettualmente che « id quo maius cogitari non potest » [ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore] esiste realmente ossia indipendentemente dal fatto di essere pensato. Dunque qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste in modo così vero che non si può pensare non esistente; « sic ergo vere es, domine deus meus, ut nec cogitari possis non esse » [esiste in modo così vero che non si può pensare non esistente]. In aggiunta a questo, Anselmo sostiene che, per l’appunto tutte le altre cose esistenti possono essere pensate non esistenti, ma Dio no! Solo Dio dunque ha l’esistenza nel modo più vero e maggiore di ogni altra cosa. 

A conclusione del suo argomento Anselmo afferma che « quod maior sit quam cogitari possit » ovvero Dio è più grande di tutto ciò che può essere pensato. Quindi, nella concezione anselmiana di Dio, non solo Lui è ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, ma è anche più grande di tutto ciò che può essere pensato. Dato che si può pensare una cosa del genere, allora, se non è Dio ad essere questa cosa, si potrebbe pensare che qualcosa sia più grande di lui. E ciò non può accadere perché sarebbe contraddittorio.

 

Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo D'Aosta
Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo D'Aosta

 

 

 

 

Un interessante punto di vista sembrerebbe essere, a proposito della prova anselmiana, la critica espressa da Gaunilone; questi obiettava che non ci si può basare sull’esistenza nel pensiero per concludere all’esistenza fuori del pensiero. La risposta di Anselmo, in linea con quanto sopra affermato, è che il passaggio dall’esistenza nel pensiero all’esistenza nella realtà non è possibile e necessario se non quando si tratta dell’essere più grande che si possa pensare. 

 

 

In conclusione, ritengo la prova di Anselmo essere un trionfo della dialettica in senso puro. Questi, concentrandosi sulla definizione di essere assoluto,  dà alla sua prova una forza irresistibile. 

 

Gilson, a proposito dell’argomento di Anselmo sostenne: « Le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo dottrinale a cui una filosofia appartiene. [...] Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero; ciò che è comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente ». L’argomento non passerà inosservato, anzi proprio la prova del « id quo maius... » sarà spesso il punto di partenza per argomentazioni successive.

 

 17 gennaio 2019

 









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