“Eyes wide shut”, l’ultimo appello di Kubrick

 

Quello cui era approdato il cinema di Kubrick in Full metal jacket si presentava, a tutti gli effetti, come il peggiore dei mondi possibili. Poteva, tuttavia, chiudersi in tal modo la carriera di un regista che, al contrario, aveva mostrato in passato di credere nella concreta fattibilità di un riscatto per l’uomo, sia pure al termine di una lunga ed estenuante odissea alla ricerca di se stesso? La risposta non può che essere negativa e la sua opera successiva, quell’Eyes wide shut che rimarrà il suo definitivo testamento, sta lì a dimostrarlo.  

 

di Valter Di Giacinto

 

 

Lettere minatorie e minacce di morte ricevute da Kubrick e dalla sua famiglia a seguito dell’uscita nelle sale di Arancia meccanica, si narra costrinsero il regista a chiedere e ottenere dalla Warner Bros il ritiro della pellicola dalle sale inglesi, dove il film non fu più proiettato fino alla sua morte, avvenuta nel 1999.

 

Evidentemente scottato da tale esito inatteso, nelle pellicole successive Kubrick proseguì la sua disamina delle modalità con cui si esercita il potere nella società moderna, assai spesso connotate da efferata violenza, non più quindi in maniera così radicalmente esplicita, ma celandosi sistematicamente dietro il velo del film “di genere”. Lo avremmo visto allora cimentarsi subito dopo con il dramma storico in costume (Barry Lyndon), l’horror (The Shining), il film militaresco in chiave moderna (Full metal jacket) e, infine, con la commedia erotico-romantica, in Eyes wide shut. Al riparo della cortina fumogena innalzata dal riferimento al “genere”, il regista poté così continuare a prodursi indisturbato nella sua opera di lucida vivisezione dei meccanismi del potere all’opera nelle democrazie occidentali.

 

Come messo in luce anni prima da Herbert Marcuse in L’uomo a una dimensione, il potere nella moderna società tecnologica di massa si manifesta oggi prevalentemente come tolleranza repressiva. Ma ciò, ci fa notare Kubrick in tutta la sua opera, avviene solo fino a quando il sottoposto rimane, per l’appunto, al suo posto. Il potere può, al contrario, giungere a vestirsi di brutale violenza con chi mostra l’ambizione di evadere dal suo ruolo predefinito, dai confini ben delimitati dalla sua collocazione sociale. È così che vediamo, ad esempio, Barry Lyndon venir condannato a cadere rapidamente in disgrazia, allorquando tenta di emergere dalla sua condizione di parvenu bello e fortunato per farsi membro del consesso dei Lord. In maniera del tutto simile, per quanto enormemente più cruda, vedremo in seguito in Full metal jacket il coscritto “Palla di lardo” venir sottoposto alle più crudeli vessazioni al fine di costringerlo a entrare a forza nel suo ruolo sociale di soldato prestante e pronto a rispondere istantaneamente agli ordini senza porsi domande.

 

Nella locandina di Full metal jacket campeggiava un elmetto bellico con la scritta “Born to kill” – nato per uccidere – come a sancire la condizione ineludibile del militare: soldati non si diventa, soldati si nasce. Quello che si diventa è “macchine da guerra”, efficienti strumenti nelle mani delle gerarchie del potere. A chi osasse sottrarsi al gioco al massacro spetta allora la punizione esemplare che avevamo visto venire inflitta, per codardia di fronte al nemico, ai militari ribelli in Orizzonti di gloria.

 

 

In Full metal jacket il cinema di Kubrick sembrava aver quindi toccato punte di pessimismo ormai all’apparenza definitive. Tra i meccanismi più o meno occulti e subdolamente manipolatori visti all’opera in Arancia meccanica e The shining e la repressione, meccanicamente brutale, praticata nei campi di addestramento militari, il controllo sociale sull’essere umano appariva ormai giunto al punto da non ammettere più vie di scampo.

 

Quello cui era approdato il cinema di Kubrick in Full metal jacket si presentava quindi, a tutti gli effetti, come il peggiore dei mondi possibili. Poteva tuttavia chiudersi in tal modo la carriera di un regista che, al contrario, aveva mostrato in passato di credere nella concreta fattibilità di un riscatto per l’uomo, sia pure al termine di una lunga ed estenuante odissea alla ricerca di se stesso? La risposta non può che essere negativa e la sua opera successiva, quell’Eyes wide shut che rimarrà il suo definitivo testamento, sta lì a dimostrarlo.

 

Le vicende narrate nel film, uscito postumo nel 1999, traggono spunto dal romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Fin dal titolo, quanto mai enigmatico, il regista sembra tuttavia voler rimarcare il fatto che, se il racconto dello scrittore austriaco ha sicuramente fornito un brillante punto di partenza per la sceneggiatura, la vera chiave di lettura della pellicola sia da ricercare altrove.

 

Eyes wide shut è un gioco di parole di impossibile traduzione in italiano. È un calembour che trae origine dall’espressione di uso comune eyes wide open (occhi spalancati), la cui forza evocativa sta nel contrasto tra i termini wide (ampio, largo) e shut (chiuso, serrato), che affiancati formano quindi un ossimoro. Sacrificando tale doppio senso, Eyes wide shut si può tradurre in italiano con “occhi perfettamente serrati” e, una volta acclarato il significato del titolo, resta quindi da comprendere a chi appartengano gli occhi oscurati su cui il regista richiama esplicitamente l’attenzione e che cosa essi omettano di vedere rimanendo in tale condizione di offuscamento.

 

I primi sospettati sono chiaramente i due coniugi protagonisti della vicenda, i bellissimi e aitanti Bill e Alice, non a caso ruoli interpretati dalle due più grandi stelle del cinema hollywoodiano dell’epoca, essi stessi felicemente sposati l’uno con l’altra. All’inizio della narrazione vediamo la coppia prepararsi per un prestigioso evento sociale, un ricevimento danzante presso la fastosa residenza del ricco Victor Ziegler, ambiguo personaggio di cui Bill rappresenta il medico di famiglia. Inizialmente tutto sembra quindi svolgersi sotto i canoni di quella che doveva sembrare, all’apparenza, una pellicola sentimentale, incentrata sulle vicende, fatte di contrasti e riappacificazioni, di un marito e di una moglie giovani e attraenti (e quindi fatti costantemente oggetto di proposte sessuali da parte di estranei che ne subiscono il fascino), condite dal repentino emergere e inabissarsi di impronunciabili desideri inconsci.  

 

 

Due accadimenti, tra loro intimamente connessi, giungeranno tuttavia dapprima a turbare e, in seguito, a sconvolgere del tutto tali romantiche aspettative. Il primo vedrà il medico improvvisamente chiamato al piano superiore durante il party al fine di trarre d’impaccio il padrone di casa, vittima di uno sgradevole quanto potenzialmente imbarazzante incidente. La prostituta con cui si era appartato per avere un rapporto sessuale nel bel mezzo del ricevimento aveva infatti avuto un mancamento, a causa dell’assunzione di una dose eccessiva di stupefacenti. Bill, da valente professionista qual è, riesce tuttavia a far prontamente rinvenire la donna e, forte del suo successo, ci viene mostrato quasi svettare in posizione di superiorità rispetto a Ziegler, in evidente imbarazzo in questo frangente (la prevaricazione sessuale in questi ambienti ipocriti e perbenisti si esercita infatti, come vedremo, sempre rigorosamente di nascosto).

  

 

La società raffigurata in Eyes wide shut appare quindi sin dall’inizio della narrazione tradizionalmente bipartita in un’élite sparuta di personaggi altolocati e pressoché onnipotenti, cui fa da contraltare una cinta innumerevole di persone del tutto subalterne e prive di ogni identità, in quanto perfettamente interscambiabili tra di loro (rappresentata in questo caso, oltre che dalla servitù, dalle scintillanti escorts che prestano anch’esse servizio “a corte”). Tra i due estremi di tale società hegelianamente articolata in servi e signori, si colloca tuttavia uno strato intermedio, quello a cui appartiene il protagonista (ma un ruolo del tutto analogo è ricoperto dal pianista Nick Nightingale), una classe di soggetti che, per le proprie elevate e riconosciute competenze tecniche, è riuscita a ritagliarsi un posto di un qualche rilievo in tale assetto sociale, per il resto rigidamente divaricato. Bill è infatti il medico di fiducia del padrone di casa, il che ne fa un soggetto prezioso, in quanto difficilmente rimpiazzabile nell’immediato.

 

 

Si tratta, tuttavia, di una condizione che gli appartenenti al ceto tecnico-professionale non acquisiscono per nascita e che, di conseguenza, non viene mai ad essi riconosciuta in maniera definitiva. Il comportamento dei tecnici – di tutti quei professionisti che esercitano una téchne – rimane infatti continuamente sotto severo scrutinio. A essi non si richiede solo competenza ed efficienza, ma anche una totale lealtà e subordinazione agli esponenti dell’élite da cui ricevono la propria investitura. Un regresso dalla posizione privilegiata del tecnico a quella della massa indifferenziata è difatti sempre possibile, come verrà all’occorrenza severamente rimarcato al protagonista della vicenda.

 

Ma l’evento che avrebbe completamente rovesciato le carte sul tavolo, provocando un repentino, quanto inatteso, smascheramento (non è ovviamente un caso che la maschera rappresenti l’icona stessa del film), era a questo punto dietro l’angolo. Approfittando della soffiata dell’amico Nightingale, che vi si esibirà come sempre bendato, e contando sulla possibilità di recarsi sul posto mascherato, Bill si intrufola a uno dei sabba, degli orgiastici balli in maschera, con cui gli appartenenti all’élite dominante danno abitualmente sfogo alle proprie più recondite pulsioni erotico-sadiche rimarcando in tal modo la propria condizione di assoluta signoria. Tali riti di stampo tantrico e dionisiaco vedono infatti ancora una volta protagoniste, in posizione vieppiù subalterna e perfettamente reificata, le stesse prostitute che avevamo incontrato inizialmente al party danzante a casa Ziegler (tale condizione è sottolineata dal fatto che i loro volti – sebbene non ve ne fosse alcun bisogno, trattandosi di soggetti del tutto anonimi – sono anch’essi coperti da delle maschere, in maniera da far risaltare il solo corpo nudo).  

 

 

Il medico verrà tuttavia facilmente riconosciuto (del tutto ingenuamente era infatti giunto alla villa in taxi, tradendo così immediatamente la propria condizione piccolo borghese) e avrebbe pagato con la vita la sua inaccettabile presunzione se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Domino, una delle prostitute convocate per rivestire il ruolo di ninfa nel rituale, che si scoprirà in seguito essere la stessa donna cui Bill aveva salvato la vita la sera precedente al party a casa Ziegler. Ella, avendolo riconosciuto, decide quindi di offrire se stessa ai carnefici affinché il dottore abbia in cambio la vita.

 

Quando il giorno successivo il protagonista apprenderà dai giornali della morte per overdose di Domino, lo shock e il rimorso saranno tali da spingerlo a tornare a indagare sul luogo dove si era svolta la terribile vicenda la notte precedente.

 

 

Questo secondo affronto rischia tuttavia di compromettere definitivamente la sua posizione sociale e quella della sua famiglia. Con un simmetrico rovesciamento rispetto alla scena che lo aveva visto inizialmente quasi succube dell’abilità tecnica del medico, vediamo allora Ziegler rientrare in scena per celebrare la propria rivincita e ribadire il proprio superiore rango sociale, traendo egli stavolta d’impaccio Bill, ma a una condizione ben precisa: quella di rientrare definitivamente nei ranghi, dimenticare tutto e tornare a tenere gli occhi ben serrati su ciò che assolutamente non deve vedere.

 

 

Cosa che il medico, dopo qualche iniziale esitazione, si rassegnerà a fare. A casa lo attende infatti sul cuscino la sua maschera, il suo ruolo sociale, e a fianco ad essa la bellissima moglie, nuovamente ardente di desiderio per lui. Lasciata sfogare l’inquietudine del marito nel pianto, quest’ultima lo invita allora a dimenticare tutto, a indossare nuovamente la propria maschera e a tornare a concentrarsi sulla loro relazione sessuale: sono bellissimi, giovani e benestanti, che cos’altro avrebbero di meglio da fare?

 

 

Potrebbe sembrare un finale amarissimo e pessimistico, e certamente lo è, ma fino a un certo punto. Se la condizione del servo nel precedente Full metal jacket era apparsa ontologicamente, e quindi immutabilmente, sancita sin dalla nascita (“Born to kill”), in Eyes wide shut la situazione di asservimento delle classi subalterne sembra tutt’altro che fatalisticamente predeterminata, e finanche reversibile, sotto determinate condizioni.

 

La classe intermedia dei tecnici possiederebbe infatti tutti i mezzi per rovesciare l’ordine costituito, in quanto essa è l’unica in grado di manovrare l’apparato tecnologico e manipolatorio che è strumentale al protrarsi del dominio delle élite sulle masse. Affinché ciò avvenga è tuttavia necessario che essa maturi dapprima la consapevolezza della propria effettiva condizione di servitù, del proprio essere intrappolata in una gabbia dorata che la vincola rendendola schiava non meno delle moltitudini senza volto. E ciò richiede appunto l’uscita dalla propria condizione di accecamento, in parte subita, come nel caso del pianista costretto a esibirsi bendato, ma in parte, invece, del tutto autoinflitta.

 

Anche gli schiavi che Platone nella Repubblica rappresentò segregati in fondo a una caverna soffrivano di una simile condizione di menomazione della capacità visiva. Anch’essi, essendo incatenati fin da piccoli, erano costretti a doversi accontentare di una visione distorta e parziale della realtà. La possibilità di una generale fuoriuscita dalla caverna, per Kubrick come per Platone, non sorge tuttavia se non matura prima negli schiavi la consapevolezza del fatto che l’accecamento di cui essi soffrono non costituisce un tratto essenziale della propria natura, che esso è accidentale, ossia storico, e quindi superabile in una prospettiva storica.

 

« Qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre. » (Platone, Repubblica)

 

Nel mito narrato dal filosofo ateniese è un deus ex-machina a liberare uno degli schiavi e a spingerlo a evadere. Nel suo testamento Kubrick affida invece il ruolo di smascheramento dei meccanismi del potere non a un cavaliere bianco piovuto dal cielo, bensì a Domino, una delle esponenti della classe dei senza nome. La donna, con un gesto di stupefacente valenza etica, decide infatti di sacrificare la propria vita per salvare quella del protagonista. All’apparenza si tratta solo di un atto di estrema riconoscenza nei confronti del medico che le aveva in precedenza salvato la vita. Ma è una lettura palesemente superficiale. Il sacrificio va invece più plausibilmente letto come un gesto dichiaratamente rivoluzionario e, in un mondo dove la relazione tra serva e signore è sempre contrassegnata dalla prostituzione e dalla mercificazione, l’atto d’amore gratuito di Domino ci appare assumere più di ogni altro valenza eversiva.

 

Quella che è senza dubbio l’unica vera eroina del film, l’unico personaggio inequivocabilmente positivo (uno dei pochissimi, assieme all’astronauta Bowman, in tutta la filmografia di Kubrick), deciderebbe quindi di immolarsi perché intravede l’occasione, mediante il proprio gesto d’amore incondizionato, di stimolare una definitiva presa di coscienza da parte del medico della propria stessa condizione massificata e servile. Tale “risveglio” avrebbe a sua volta potuto innescare la prima scintilla di un possibile, generale, rovesciamento sociale, tale da poter porre fine, ove pienamente dispiegatosi, alla condizione di sfruttamento di cui essa, e con lei mille altre, era stata in primo luogo vittima. È senza dubbio una visione utopica, ma l’utopia non è tuttavia banalmente sogno, l’utopia spinge ad aprirli, per quanto possibile, gli occhi, non a richiuderli su stessi per lasciarsi cullare in una dimensione onirica e consolatoria.

 

« E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati? » (Platone, Repubblica)

 

Purtroppo accade infine a Bill esattamente ciò che il grande filosofo aveva previsto. Egli fugge accecato dalla luce della verità per tornare a rinchiudersi nelle tenebre familiari e accoglienti della propria schiavitù dorata, in quel “confortevole torpore” con cui Roger Waters dei Pink Floyd, già vent’anni prima, con intuizione folgorante, aveva stigmatizzato la condizione tipica dell’individuo postmoderno nel brano Comfortably numb.

 

Ma il monito, l’appello gettato in faccia allo spettatore dal regista, rimane in ogni caso indelebile.

 

A conclusione della sua carriera Kubrick, sulle orme di Platone e ricordandosi di essere lo stesso regista che trent’anni addietro aveva diretto 2001: Odissea nello spazio, sembra quindi voler rimarcare nuovamente che un mondo migliore di quello attuale è possibile, che dalla caverna in cui siamo tenuti confinati da élite tanto opprimenti quanto sempre più inafferrabili sarebbe in fondo consentito evadere, se solo tecnici, professionisti, artisti e intellettuali della “terra di mezzo” si decidessero finalmente a spalancare gli occhi, invece di tenerli così comodamente serrati.

 

4 settembre 2019

 








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