Naturalismo e idealismo nel saggio sul Telesio di Francesco Fiorentino

 

Francesco Fiorentino (Sambiase 1834 – Bologna 1884) dopo aver pubblicato il saggio sul Pomponazzi, cerca manoscritti del Telesio e degli altri filosofi dell’Accademia Cosentina e alterna le sue lezioni all’Università di Napoli, ove si era traferito nel 1871, con gli impegni politici alla Camera dei Deputati a Firenze.

 Jan Vermeer, "Stradina di Delft" (1657-1658)
Jan Vermeer, "Stradina di Delft" (1657-1658)

 

« L’ entusiasmo che fa battere il cuore del Bruno e del Campanella, che esalta tutti gli spiriti del nostro Rinascimento […], questo entusiasmo trabocca dagli scritti del Fiorentino; ed è la sorgente di quell’infaticabile ardore di ricerca, che gli fa cercare ogni pensiero di quei pensatori, ogni caso della loro vita, ogni documento del loro animo [...]. Era la prima volta che si scriveva la storia della filosofia italiana, dopo i saggi dello Spaventa; e le opere del Fiorentino s’imposero subito all’attenzione degli studiosi stranieri e fecero rientrare nei quadri della filosofia europea il pensiero italiano di quella età » (G. Gentile, Francesco Fiorentino. Discorso commemorativo tenuto nell’Aula Magna della R. Università di Napoli il 21 dicembre 1934-XIII)

 

Il Fiorentino si occupa nelle sue lezioni di Leibniz, di Spinoza e di Malebranche, legge la storia di Kuno Fischer, ma in particolare si dedica a studi e ricerche su Telesio e sull’Accademia Cosentina.

 

E a Firenze, nel 1872, pubblica il primo volume del suo nuovo saggio: Bernardino Telesio ossia studi storici su l’idea della natura nel Rinascimento italiano, dedicato a Bertrando Spaventa, avendone apprezzato i saggi sul Rinascimento. Saggi che, come egli scrive nella dedica, lo avevano indirizzato verso questa epoca trascurata della nostra filosofia:

 

« Senza i tuoi stupendi saggi critici sul Bruno e sul Campanella io difficilmente mi sarei orientato in quell’arruffio, ch’è la filosofia del Risorgimento; imperocché quanti ne avevano scritto prima di te, ed in Italia e fuori, mi pareva esservisi smarriti dentro… »

 

Si occupa di questo periodo della nostra filosofia, oltre che per un serio impegno di ricerca storiografica, perché avverte una impellente esigenza di «disposare la speculazione con le scienze naturali», dal momento che nel Rinascimento, a suo parere, la filosofia non era stata ancora «sequestrata» dalle scienze positive.

 

Era questo l’atteggiamento che aveva maturato in quegli anni, dopo l’incontro con l’idealismo “critico” dello Spaventa e con l’idealismo con tendenze realistiche del De Meis, a cui dedica il secondo volume del saggio.

 

« Fortunato se avessi potuto accoppiare in uno, la tua dottrina nelle scienze naturali, le tue geniali intuizioni speculative, con la critica profonda ed ineluttabile del nostro amico. »

 

Il Fiorentino si sofferma sulla critica che Telesio e gli altri filosofi rinascimentali avevano fatto ad Aristotele, nel tentativo di sviluppare quei punti fecondi del pensiero aristotelico, in modo che pensiero e natura facessero parte di una medesima realtà.

 

« Ora, poiché, a parer mio, nella critica della filosofia aristotelica consiste la vera chiave per aprire i sinuosi recessi del Risorgimento, che cosa significava cotesto battezzare per accidentale la forma aristotelica? E perché il Telesio primo aveva cercato di costituirvi alcunché di sostanziale? La forma era il pensiero: il sinolo di materia e forma, onde costava la sostanza aristotelica, era la sintesi originaria dell’essere col pensiero: quindi l’accidentalità della forma portava con sé l’accidentalità del pensiero. Né il pensiero poteva trovarsi sostanzialmente nel mondo, stando ai principi aristotelici, perciocché egli veniva da fuori, e come veniva, così poteva dipartirsene, essendo fondamentalmente di là dalla natura. Rivendicare la sostanzialità della forma importava, dunque, reclamare la immanenza del pensiero nel mondo, e la sua inseparabile e non precaria compagnia. Tal è il significato della critica di Aristotele, nella quale con mirabile consenso si accordano tutti i nostri filosofi. » (F. Fiorentino, Bernardino Telesio ossia studi storici su l’idea della natura nel Rinascimento italiano)

 

Nella interpretazione rinascimentale del concetto di natura aristotelico, il Fiorentino scorge la non ben definita dottrina della materia e della forma, e lo sparire della interiorità del moto nella esteriorità sopramondana. E fa vedere come questa contraddizione aprì la via agli ulteriori sviluppi della dottrina del mondo.

 

In Aristotele Dio trascendeva la natura come principio e come causa del moto, ma era nella natura come Nous attivo. Gli alessandristi separano da Dio non solo la natura ma anche il pensiero, gli averroisti e i filosofi scolastici invece separano lo spirito dalla natura e ripongono il fine dell’uomo in un mondo al di là di quello umano. 

 

La filosofia rinascimentale, ricollegandosi al metodo aristotelico, considera l’assoluto come natura e questa indagine sulla unità originaria della natura preludeva alla ricerca della unità originaria delle funzioni dello “spirito”; ricerca che sarà approfondita, nella filosofia moderna, da Cartesio ad Hegel.

 

Mentre nella filosofia greca lo “spirito” era immerso nella natura, nel Rinascimento nasce l’immanenza e di conseguenza il monismo, sebbene ancora in forma naturalistica, secondo la tipica affermazione di Cartesio: «affinché lo spirito possa cogliere la natura, è mestieri ch’egli stesso si faccia naturale.» 

 

Per il Fiorentino, Telesio precorre la filosofia moderna proprio nel concetto di spazio e di tempo.

A questo proposito è necessario osservare, come il Fiorentino, rifacendosi alla interpretazione aristotelica prima e a quella telesiana poi, manifesta chiaramente la propria posizione idealistica.

 

Per Aristotele, infatti: «Lo spazio non è la materia del corpo, né la forma e neppure l’intervallo che passa tra le estremità di esso: lo spazio è un limite sì, ma un limite esterno; è dunque il limite che dà il corpo, che ne comprende e ne circonda un altro »

 

E quel ch’è lo spazio per i corpi, per Aristotele, è il tempo per il moto.

 

« Il tempo è il numero del moto secondo il prima ed il poi […] Dunque senza moto non c’è tempo […] Nello spazio e nel tempo, secondo Aristotele, c’è questo di comune che senza corpi non ci sarebbe spazio, perché non ci può essere chiusura e limitazione senza cose chiuse e limitate; e che senza moto non ci sarebbe tempo, perché non ci può essere misura e numero senza cose misurate e numerate. »

 

 

Telesio, invece, si allontana dalla teoria aristotelica e considera il tempo come indipendente dal moto.

 

« Cotesta indipendenza del concetto del tempo, benché psicologicamente si avvertisse sempre accoppiata con quello di moto, importa più di quello che il Telesio sapesse. Già Aristotele stesso avendolo detto numero, e non essendoci numero senza una mente che numerasse, accennava alla essenziale mentalità di questo concetto: mentalità ch’ei vide alla sfuggita. Il Telesio colpì giusto nella sua critica, cercando di sottrarre il concetto del tempo a  quello del moto, e di farne un concetto indipendente; ma non ebbe piena e chiara coscienza di questa indipendenza. In entrambe le critiche però egli rasenta l’idealità della natura, accennando ad una contenenza incorporea, rispetto allo spazio; e ad una durata e successione indipendente dal moto, rispetto al tempo. Di modo che se nella teorica dei principi naturali ei sbandiva le forme e la finalità aristotelica, come una idealità che nuoceva alla efficacia delle cause naturali; nella teorica dello spazio e del tempo egli fa buon viso alla loro idealità, la quale non solo non ostacola la esistenza dei corpi e del moto, ma n’è la condizione indispensabile. Il naturalismo del Risorgimento s’inaugurava dunque col Telesio in guisa da contenere i germi ancora latenti del futuro idealismo. Se la vera idealità immanente della natura si fonda nei concetti di tempo e spazio, questa non ebbe cominciamento se non dal Telesio; come non fu pienamente riconosciuta prima di Emmanuele Kant. »

 

Nel naturalismo rinascimentale manca il concetto di “spirito”, anzi, è spesso confuso con quello di “natura”, ma quel che conta è il fatto che: 

 

« con la ricerca della unità originaria della natura preludeva alla ricerca della unità originaria delle funzioni dello spirito. Ora si chiede: come è possibile la conoscenza? Allora invece si cercava: come è possibile la natura? Ora gli opposti da conciliare sono il sentire e l’intendere; allora erano il corpo e l’animo. Lo spazio, come intuizione pura, nella filosofia kantiana accoppia la funzione sensitiva e l’intellettiva in un’unità a priori; lo spazio, come corpo incorporeo nella filosofia patriziana, collega materia e forma, corpo e animo in un termine medio, che non è né l’uno né l’altro. »

 

In questa prospettiva si rifà ai seguaci di Telesio e tra questi pone in primo piano Agostino Doni che, nelle ricerche sulla natura dell’uomo, sostiene, prima che intervenga l’impulso esterno, lo spirito ha un’intellezione segreta della sua natura.

 

Nel Doni, quindi, egli coglie, nella dottrina del senso che cerca di “affrancarsi” dal movimento esterno, il pensiero che reclama la sua indipendenza. Ma rileva dei seri limiti nella impossibilità della conoscenza riflessa e di conseguenza nella impossibilità di una autentica conciliazione dei contrari. Sono limiti determinati dalla posizione medesima del naturalismo rinascimentale a cui «manca affatto il vero concetto dello spirito».

 

A questo punto, Fiorentino espone criticamente le varie polemiche attraverso cui il naturalismo si perfeziona e tende verso il soggettivismo della filosofia moderna.

 

Esamina, in particolare, la filosofia di Francesco Patrizi, il quale, accostandosi alla dottrina della corrispondenza tra infinita causa e infinito effetto, concepita da Marcello Palingenio Stellato, osserva che essa precorreva già la filosofia di Giordano Bruno.

 

E, a questo proposito, scrive: «La vera origine della natura è dunque per Patrizi lo spazio infinito, l’infinito effetto rispondente alla infinita azione, la unità suprema delle cose corporali e delle incorporee.»

 

Il Patrizi, a parere del Fiorentino, ha un serio limite nel considerare l’infinito “quantitativamente” e non nella “unità della mente”, come invece fa Giordano Bruno.

 

« Il Patrizi non esaminando il valore dello spazio per rispetto al problema del conoscere, non soltanto per rispetto al problema dell’essere, non arriva al risultato che lo spazio sia una intuizione pura, ma perviene a ciò che più assomiglia a questa posizione, vale a dire, che lo spazio sia l’unità del corporeo e dell’incorporeo. Se, invece di cercare l’unità originaria degli esseri, egli avesse cercato l’unità originaria delle nostre facoltà conoscitive avrebbe intravveduto nello spazio la intuizione pura. »

 

Bruno completa il Patrizi considerando l’infinito nella unità della nostra mente, ma rimane anch’egli nella sfera del naturalismo e, di conseguenza, la conoscenza dell’Uno è in lui solo una tendenza.

 

In altri termini, in Bruno c’è un naturalismo oscillante fra la trascendenza della filosofia scolastica e l’immanenza della filosofia  moderna.

 

Ed è proprio alla «medesimezza della libertà e della necessità» messa in evidenza dal Bruno, nell’azione creatrice di Dio che viene estesa al volere umano, che il Fiorentino aderisce, pur con le riserve evidenziate dallo Spaventa.

 

« La medesimezza della libertà con la necessità enunciata da Bruno e da Spinoza, ed applicata all’azione creatrice di Dio, fu, ma con minore accuratezza, da loro estesa al volere umano, questa medesimezza risplende la prima volta nella critica kantiana »

 

Gioacchino La Pira, "Vista di Amalfi dalla Grotta del Convento dei Cappuccini" (1856)
Gioacchino La Pira, "Vista di Amalfi dalla Grotta del Convento dei Cappuccini" (1856)

 

Giordano Bruno aveva così trovato quell’unità che concilia le differenze, unità alla quale Campanella sostituì il concetto di “senso”, che sarà poi la “ragione” della filosofia moderna, trasformandosi così da semplice soggetto senziente in “spirito”.

 

Ma anche in Campanella, a parere del Fiorentino, v’è una contraddizione. Egli, infatti, con la conversione della cognizione e dell’essere, supera sì il dualismo aristotelico, ma le due cognizioni, quella di sé e quella delle altre cose, rimangono scisse: la prima è infatti l’essere, la seconda il farsi.

 

E tale contraddizione, tra forma e contenuto, si ripeterà, da Campanella in poi, in tutta la filosofia moderna fino a Kant.

 

Campanella non arrivò al concetto autentico dello “spirito” che non è «un essere, ma un farsi, non un dato naturale, ma un processo» e dal concetto del Campanella che fa consistere lo “spirito” nell’essere, al concetto di Fichte per cui lo “spirito” è un fatto.

 

« Quel farsi accidentale deve considerarsi come necessario; quell’esser sé deve divenire l’esser sé ed altro assieme, e l’un momento dee poggiarsi all’altro, ed entrambi debbono risguardarsi come indispensabili. Finché questa equazione non sarà fatta, non si potrà dare una teorica esatta della cognizione. Imperocché la conoscenza, essendo un disvelamento della intima essenza dello spirito, non potrà essere colta nella sua interezza, se non quando sarà ben fondata la radice, da cui germoglia. »

 

Il Campanella, pur avendo scorto il collegamento della teoria della conoscenza con la sintesi metafisica dell’essere, non seppe poi determinare né l’attività a priori dello spirito, né la necessità della dialettica dell’assoluto.  

 

« L’identità del pensiero e dell’essere enunciata con tanta asseveranza non acquistò nel sistema campanelliano forza di vero principio. Da ciò proviene ciò che gli rimprovera il Trendelenburg, ch’egli non abbia punto saputo indicare le categorie né in quanto divengono nelle cose, né in quanto nello spirito conoscitore. »

 

Ora poiché il naturalismo era impotente a spiegare la natura, si interroga: cosa c’era da fare?

 

« Conciliare l’universale col particolare, trattando il primo come legge del secondo: ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove la opposizione del senso e del sensibile riapparisce trasformata e unificata. Il primo di questi due compiti fu adempiuto da Galileo, il secondo da Cartesio. »

 

Galileo: «della natura… considerò la quantità, e quindi tutto il suo studio fu nel pesare e nel misurare esattamente i fenomeni capaci di peso e misura.»

 

Ma a questo punto il Fiorentino, alludendo al positivismo, si chiede:

 

« Che cosa significa adunque colui che nello scrivere di filosofia, di filologia, di storia, di diritto, ti comincia con la filastrocca di voler seguire il metodo galileiano? Che cosa mi vuoi pesare e misurare? Le idee forse, i fatti storici, le parole, i diritti, i doveri ? Il semplice senso porge la materia greggia dello sperimento; ma prima che questa sia tradotta in figure ed in numeri, prima che delle figure e dei numeri siano discoverte le relazioni, la natura sarà un libro chiuso. Talvolta rannodando un fatto ad un altro il Galilei riusciva a lumeggiarlo e a farlo intendere, ma ciò non interveniva sempre ed allora gli era forza di risalire più in alto, e mediante i rapporti ideali della quantità indovinare i rapporti reali dei fatti. »

 

II Fiorentino, infine, manifesta decisamente il proprio “idealismo concreto”, nella distinzione del metodo galileiano, a cui egli aderisce, da quello baconiano e da quello cartesiano: 

 

« La pienezza della cognizione nasceva per Galilei dall’osservazione dei fatti congiunta con la speculazione matematica della legge; a Bacone invece parve bastevole la semplice osservazione; a Cartesio la speculazione pura… Il filosofo inglese non solo non migliorò, ma dimezzò il metodo galileiano, tornando all’immediata apprensione sensibile, e rigettando ogni ragionamento matematico. Il contrario per l’appunto fece Cartesio [che] stimò di poter costruire la fisica a priori, fondata sulle pure definizioni dell’inerzia, del moto e della materia, e deducendo da queste tutte le leggi cosmiche. »

 

E conclude affermando che due autonomie assolute ripugnano e prima o poi si dimostrerà come non siano entrambe che aspetti differenti di un medesimo processo: sarà la storia a conciliare l’indipendenza delle leggi naturali con quella del pensiero soggettivo:

 

« Galilei e Cartesio rimangono, nella storia della filosofia, a capo di due opposti, eppur somiglianti indirizzi. La natura e lo spirito si stralciano, per opera loro, l’uno dall’altra. La speculazione filosofica si stacca dalle scienze naturali, e si rinchiude nel cogito cartesiano; la natura, contenta delle proprie leggi, si emancipa, alla sua volta, dagl’ influssi  dell’astratto pensiero, e si fonda su la sperienza e su le matematiche. Le scienze naturali han trovato nelle matematiche un fondamento saldo e assoluto: il pensiero subiettivo si è accorto che tutto può venir meno, tranne la propria attività. Due assoluti ripugnano, e tosto o tardi si cercherà di mostrare, come entrambi non siano se non aspetti differenti di un medesimo processo. La storia si torrà il compito di conciliare l’indipendenza delle leggi naturali con l’indipendenza del pensiero subbiettivo, Galilei con Cartesio. »

 

23 settembre 2019

 









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