I quaderni di Emil Cioran

 

Uno sguardo sulla figura controversa di Cioran attraverso gli scritti privati del filosofo rumeno.

 

Nonostante le diverse polemiche in merito, non vi è dubbio che si debba attribuire a Emil Cioran la dignità di filosofo. Oggi, a quasi venticinque anni dalla sua morte, il pensatore rumeno resta l'ultima voce ribelle di quella profonda frattura che caratterizza la costituzione dell'uomo contemporaneo. Non solo vanno ricordate le sue riflessioni sulla filosofia della storia, ma quella banale forma di pessimismo comune che viene solitamente attribuita a Cioran andrebbe messa in discussione, in quanto fondata essenzialmente sulla mancanza di volontà di ascoltare che cosa questo pensatore ha sentito il bisogno di dirci. La prima domanda che ci si deve porre è: a che cosa si riferisce Cioran con le sue riflessioni? Qual è la cosa in questione nel suo lavoro?

 

La risposta è tanto evidente quanto drammatica. Già solo scorrendo i titoli della sua produzione, spesso causa di un riso amaro, essa risulta immediatamente chiara: a essere posta in questione è l'essenza stessa dell'uomo, percorrendo una via che esula dalla metafisica classica – la cui fine era stata decretata da Martin Heidegger nel 1927,  quando Cioran era un giovane studente di filosofia – senza per questo ricadere nello psicologismo o nell'antropologismo. Cioran indaga l'uomo a partire da se stesso, in una esperienza interiore che è solo apparentemente soggettiva, ma che si rivela essere un espediente, uno spunto per una riflessione che mira all'universale.

 

Proprio perché il pensatore rumeno è stato spesso tacciato del peccato di eccessivo soggettivismo, sembra opportuno osservare più da vicino gli scritti propriamente personali di Cioran, in particolare i suoi Quaderni che lo accompagneranno per ben quindici anni (1957-1972).

In essi, accanto alla trasposizione di avvenimenti quotidiani, vediamo Cioran rapportarsi con le proprie questioni di fondo, che ruotano tutte attorno al rapporto con l'Essere e all'impossibilità di vivere, e al suicidio come “pensiero salvifico” che solo permette di continuare a insistere nell'esistenza: Cioran infatti parte da sé e dal suo particolare rapporto con l'esistenza per giungere a una tagliente analisi dell'essenza dell'uomo contemporaneo.

Il dubbio di sé è il nucleo centrifugo da cui il filosofo rumeno tematizza le sue questioni:

 

A. Rodin, "Il pensatore"
A. Rodin, "Il pensatore"

 

 

« Dubitare delle cose non è niente; ma nutrire dubbi su se stessi, questo sì che si chiama soffrire. È soltanto allora che, attraverso lo scetticismo, si raggiunge la vertigine. Tutto fila liscio quando è in questione l'io; non è così quando si tratta di noi, del nostro io. Allora il dubbio raggiunge dimensioni fatali, morbose, e può diventare intollerabile. » (E. Cioran, Quaderni, 1957-1972)

 

La filosofia non può più permettersi di parlare dell'io in generale perché questo Io è finito in pezzi, e all'io individuale manca la forza di giungere all'espressione, in quanto nel momento in cui esso riflette su di sé non può che restare paralizzato dal solo fatto di esistere in un “mondo” che non è più tale, in una Storia che non ha in sé più niente di storico, tra uomini che non hanno più nulla di umano. Il risultato del dubitare solipsistico è una lucidità terrificante, che si traduce nel fare esperienza del Vuoto: «il vuoto di ogni giorno, il vuoto dell'eternità» (Quaderni, 1957-1972).

 

Le giornate di Cioran (ormai un uomo che ha superato i quaranta ed è stato abbandonato da ogni fervore fuorché quello mistico, in brevi e rari accessi) trascorrono segnate dall'insonnia, dal malessere fisico e dall'inedia, portandolo a essere ossessionato dal mero trascorrere del tempo tanto da fissarsi sul singolo minuto, che rischia così di dilatarsi all'infinito e di inghiottire la sua coscienza. L'esperienza della noia assoluta, che sarà determinata nella sua essenza come Cafard nelle opere pubblicate, trova la sua origine in un aneddoto risalente alla prima infanzia:

 

« L'attacco di noia che ebbi a cinque anni (1916), un pomeriggio che non dimenticherò mai, fu il mio primo vero risveglio alla coscienza. È a quel pomeriggio che risale la mia nascita in quanto essere cosciente. Che cos'ero prima? Un essere e basta. Il mio io inizia con questa ferita che è anche una rivelazione, in cui è ben visibile la duplice natura della noia. D'un tratto ho sentito la presenza del nulla nel mio sangue, nelle mie ossa, nel mio respiro, e in tutto ciò che mi circondava, ero vuoto come gli oggetti. Non c'erano più né cielo né terra, bensì un'immensa distesa di tempo, di tempo mummificato. » (Quaderni, 1957-1972)

 

Essere coscienti è un peso da cui l'uomo che decide di dedicare la propria vita al pensiero non potrà mai liberarsi, e questa impossibilità in Cioran si cristallizza a tal punto che egli non riesce più a distrarsi e a vivere naturalmente, istintivamente, come un uomo normale:

 

« In fondo, faccio tutto quello che fanno gli altri, ma non lo faccio più in modo istintivo. È ciò che una volta ho definito 'vivere senza convinzione'. Si provano più o meno gli stessi desideri e le stesse soddisfazioni degli altri, ma qualcosa si è spezzato; e se non c'è rottura c'è distacco; non si è più dentro, è impossibile identificarsi con un qualsiasi atto, eppure li si compie tutti, si fa esteriormente parte della società, anzi della folla. Ma si è visto dietro le cose, se ne è percepita la non realtà, la profonda vacuità. Si apre in continuazione un intervallo fra sé e l'atto, fra l'atto e la cosa. Si cessa per sempre di essere interi. Non si sarà mai più tutt'uno con ciò che si fa. Non vi sarà più saldatura fra il sé e l'essere. Perché non ci sarà mai più un essere nell'antico senso della parola. Tutto è diventato apparenza? No. Ma più niente è, più niente assomiglia a quel che era prima. Non è il reale a essere trasfigurato, è il vuoto. » (Quaderni, 1957-1972)

 

La questione dell'Essere è uno dei nuclei fondamentali del pensiero cioraniano – che non può essere approfondito in questa sede – ed è strettamente connessa con il problema dell'esistenza e con la “scappatoia” del suicidio (il quale atto non è altro che la suprema possibilità in quanto tale che incombe in ogni istante sull'io).

Nel 1964 Cioran scriveva: «Vivere è una impossibilità di cui non ho smesso di prendere coscienza» (Quaderni, 1957-1972). L'esistenza si fa problema in quanto tale, il nudo fatto di essere è una voragine che si apre sotto i piedi a ogni respiro, a ogni atto. È per questa ragione che il filosofo rumeno si è sforzato di rinunciare all'azione nel vero senso della parola, vivendo da “parassita”, senza reddito, senza elemosina, vagando per le biblioteche e accettando regali dagli amici, come una sorta di Diogene contemporaneo.

 

M. Heidegger
M. Heidegger

E tuttavia questo tentativo di astensione non fa che esacerbare proprio ciò da cui Cioran tentava di liberarsi, in quanto così facendo egli si priva di qualsiasi opportunità di fuggire, sia pure per qualche istante, dall'angoscia della realtà e dal peso del tempo da cui si sente soffocare. Potremmo dire, pensando a Sein und Zeit di Heidegger, che Cioran rifiuta e si preclude qualsiasi possibilità di “decadimento” nella quotidianità, restando paralizzato sempre “di nuovo” nell'estraniazione dell'angoscia. La non necessità di essere mutuata dalle religioni orientali è in Cioran determinata nella sua costituzione dalla impossibilità della “vita” vissuta in questa estrema lucidità. Ancora con parole heideggeriane potremmo dire che per Cioran la possibilità ultima dell'uomo è quella di arrivare a essere perennemente intrappolati nella Stimmung dell'Angst, stando costantemente faccia a faccia con la realtà delle cose.

 

Di conseguenza il «semplice fatto di essere» è sempre «fattore di sofferenza» (Quaderni, 1957-1972) in una perenne “lucidità febbrile”, e l'unica fonte di sollievo è il pensiero del suicidio, che è sì presente al modo di una “fuga”, ma non in senso stoico (si pensi a Seneca, Dialoghi morali), bensì in quanto fuoriuscita dalla prigione dell'esistenza, a cui l'uomo non può sottrarsi nel quotidiano. Partendo dal dato di fatto per cui nessun uomo sceglie di nascere, il suicidio (ovvero l'espressa traduzione in azione di una volontà di scelta suprema tra l'Essere e il Nulla) è concepito da Cioran come l'unico atto a cui egli potrebbe concretamente aderire, ma la sua costituzione metafisica si realizza proprio nel restare una possibilità sempre aperta.

 

«Uccidersi perché si è, lo capisco; ma uccidersi per un insuccesso, ossia per l'opinione altrui, è una cosa che non riesco a concepire, eppure la quasi totalità dei suicidi ha questa causa» (Quaderni, 1957-1972). Tutto dunque viene a fondarsi sulla possibilità, non solo l'Atto che riappropria all'uomo la sua libertà, ma l'esistenza stessa ha il carattere del possibile: un'esistenza «esiste unicamente in quanto non si realizza» (Quaderni, 1957-1972), ovvero nella misura in cui essa è sempre tensione verso qualcosa che non potrà mai essere raggiunto.

 

Cioran assiste alla vita con sgomento, non solo alla sua particolare esistenza ma anche a quella di tutti gli uomini che incontra, e spingendosi ancora più verso l'universale egli si rapporta alla Storia nello stesso modo. Lo sgomento di Cioran di fronte al fatto di essere è da lui stesso paragonato a quello di un credente, di un mistico davanti a Dio, ma quello che ne deriva subisce la determinazione del puro orrore. Per quanto Cioran sia stato sinceramente spinto a indagare la validità pratica dei precetti della filosofia orientale e delle conseguenti vie per raggiungere la liberazione, egli non potrà mai aderirvi in quanto appartiene ed è radicato nel profondo al pensiero occidentale, un pensiero i cui ultimi passi nella decadenza prendono forma nelle sue opere.

 

A dimostrazione di ciò vi è la tensione tragica e continua nella ricerca di una purificazione spirituale (purificazione da quella sofferenza pura che è il vivere, il mero respirare) che, dopo percorsi trasversali nel misticismo orientale, si rivela sempre essere un grido d'aiuto rivolto al Dio cristiano, manifestandosi in un costante desiderio di vivere da anacoreta nel deserto. Cioran sentirà la vocazione per il deserto durante tutta la sua vita, ma non si deciderà mai per esso perché non può fare a meno di sentirsi un abbandonato da Dio, a cui è stata tolta perfino la concessione della speranza: «Essenza dell'abbandono. Si è abbandonati veramente soltanto da Dio; gli uomini possono solo lasciarci» (Quaderni, 1957-1972).

 

8 gennaio 2020

 









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