La trasfigurazione dell'arte in banalità

 

Arthur Danto nella sua Trasfigurazione del banale ci aveva resi partecipi di un’arte intensa, profonda e misteriosa, un’arte innovativa e spigliata, capace di trafiggere lo sguardo dell’osservatore e di trasportalo all’interno di una densa e complessa riflessione. Com’è possibile invece al giorno d’oggi farsi spettatori di quella stessa arte trasfigurata, la quale progressivamente sembra aver perduto la capacità di far riflettere o emozionare; un’arte che viene colmata dal disinteresse e percorsa da uno sguardo sempre più affrettato e apatico?

 

di Giulia Ferraresi

 

C. Monet, "Ninfee" (1920)
C. Monet, "Ninfee" (1920)

Vi è mai capitato di dare per scontate alcune evidenze, considerazioni o addirittura oggetti e persone che si trovano a dover condividere il vostro stesso spazio vitale o periodo storico? Proprio come quelle cose che ci circondano e che si impongono ai nostri sensi da sempre e che, proprio per questo motivo, finiscono nel naturale regno dell’abitudinario.

 

Ciò con cui normalmente ci rapportiamo e a cui quotidianamente viviamo accanto finisce progressivamente con l’assumere, o meglio, perdere il valore intrinseco che lo contraddistingue; un valore che gli apparterrebbe in quanto esso stesso rappresentante di una realtà. 

 

Stamattina ero seduta in un piccolo bar del centro della mia città, intenta a bere placidamente un caffè. Leggevo senza particolare attenzione le notizie del giorno sullo schermo piatto del mio telefono e sfogliavo disinteressatamente la schermata principale di Instagram, quando ad un certo punto ho notato un’inserzione pubblicitaria che a tutta prima non mi aveva colpito particolarmente – sono spazi pubblicitari che le grandi firme utilizzano per sponsorizzare i propri articoli o le novità nell’ambito della moda – questo a riprova del fatto che non è sempre facile imporsi un vero e proprio ragionamento dietro le realtà che costellano la nostra abituale quotidianità. Mi aveva attirato immediatamente lo sfondo del prodotto e non il prodotto in sé. Così facendo sono riuscita a dare attenzione finalmente all’articolo che avrebbe dovuto invogliarmi ad essere acquistato; era un prodotto d’abbigliamento, il quale presentava sul tessuto la stampa ricamata del più famoso quadro di Klimt: Il bacio

 

G. Klimt, "Il bacio" (1908)
G. Klimt, "Il bacio" (1908)

 

Come dicevo poc’anzi, inizialmente non avevo fatto realmente attenzione al prodotto e nemmeno all’inserzione ma subito dopo aver superato indifferentemente la pubblicità mi è venuta in mente una riflessione che, proprio perché relativa ad un’evidenza insinuatasi così drasticamente nella nostra realtà quotidiana, non risultava per nulla scontata.

 

Quando l’arte del passato – o per lo meno ciò che ad oggi viene naturalmente riconosciuta come arte – ha dovuto subire su di sé il danno della mediocrità? Quando e in che modo l’arte ha drasticamente trasfigurato la sua essenza assumendo il carattere del banale? Assumendo i tratti di qualcosa che, a prima vista, non ci lascia più sgomenti e senza fiato (scopo primario dell’opera in sé) ma, al contrario, ci suscita desolate disinteresse? 

 

Lo scopo primario dell’arte non dovrebbe essere proprio quello di proporci una riflessione o più semplicemente lasciarci a bocca aperta dallo stupore per la maestria dell’artista, il quale grazie ad una tecnica sopraffina appare quasi un’entità surreale? Pensiamo ad esempio ad una bellezza mozzafiato come La Primavera di Botticelli o al significato di un’opera come l’orinatoio di Duchamp.

 

Nel testo La Trasfigurazione del Banale del 1981 Arthur Danto proponeva un’analisi imponente dell’arte istituita dalle avanguardie moderne, un’arte che aveva stravolto completamente lo scopo primario che per secoli l’arte stessa aveva voluto veicolare. La pura bellezza non era più il punto d’arrivo affinché un’opera potesse essere riconosciuta come tale. Attraverso capolavori come le Brillo Boxes di Warhol o Una e tre sedie di Joseph Kosuth, l’artista si divertiva così ad imporre un determinato significato all’opera; un significato che andava ricercato attraverso un’attenta e profonda riflessione da parte dell’occhio di chi si trovava ad osservare. La domanda che si era posto Danto era stata allora: «Che cosa rendeva opera d’arte un oggetto di uso comune?»

 

A. Warhol, "Brillo Box" (1964)
A. Warhol, "Brillo Box" (1964)

 

Un oggetto come la Brillo Box – una semplice scatola contenente delle spugnette abrasive – aveva subìto una vera e propria trasfigurazione del banale, nonché una re-impostazione del proprio statuto originale.

 

Riprendendo le osservazioni condotte da un altro filosofo dell’arte, Nelson Goodman, siamo ora chiamati ad osservare questa trasmutazione – da oggetto banale ad opera d’arte – attraverso il singolare processo dell’etichettamento. Goodman credeva, infatti, che un oggetto potesse assumere i tratti caratteristici dell’opera d’arte a seguito di un repentino cambio di etichetta. Questo processo di ri-etichettamento – in cui un’etichetta tipica di un determinato insieme di definizione veniva applicata ad un altro insieme con il quale non aveva mai costruito nessun rapporto – aveva, ed ha tutt’ora, il potere di modificare il modo in cui un determinato oggetto veniva osservato.

 

« L’oggetto e i suoi aspetti dipendono dall’organizzazione; e le etichette, di qualsiasi sorta, sono strumenti di organizzazione […] una rappresentazione o una descrizione per come classifica ed è classificata, può produrre o marcare connessioni, analizzare oggetti, e organizzare il mondo […] la rappresentazione e la descrizione esigono insomma, per essere efficaci, invenzione. » (N. Goodman, I linguaggi dell’arte)

 

La rappresentazione artistica – e in particolare l’arte moderna, ma non solo – aveva avuto la possibilità di portare con sé una vera e propria invenzione del modo in cui si potevano - e dovevano - percepire le cose al di fuori di noi.

 

L’arte aveva, ed ha perciò, il potere di produrre il mondo circostante, un po’ come era solito ricordare Oscar Wild dal momento in cui affermava: «La natura imita l’arte». Ciò significava appunto che nell’istante stesso in cui ognuno di noi osservava e interpretava un’opera d’arte, il mondo che lo circondava cominciava a cambiare i suoi connotati, avvicinandosi a quelle caratteristiche visibili all’interno dell’opera d’arte sessa. Si pensi ad esempio come un quadro come Gli Iris di Van Gogh abbiano manipolato la nostra quotidiana osservazione degli iris in natura. Questo non toglie che anche il mondo, e in particolare i tratti tipici di un determinato periodo storico, possano determinare alcune caratteristiche che le opere d’arte possiedono. Ogni epoca ha potuto, infatti, veicolare una certa essenza culturale di fondo che, a sua volta è riuscita ad influenzare l’essenza e il fine di una determinata opera d’arte.

 

Come l’arte produce il mondo anche il mondo produce l’arte, in un processo di reciproco e costante rapporto d’influenza.

 

Ciò che avviene nella nostra epoca non è altro che un drastico rovesciamento di quell’iniziale questione che, poco tempo prima, aveva proposto A. Danto. Quello che qui siamo portati a domandarci non è più quando un oggetto banale della quotidianità si fa opera d’arte, ma al contrario: quando un’opera d’arte (riconosciuta come tale, ad esempio: La grande onda di Kanagawa) si fa oggetto di uso comune privandosi, di conseguenza, di quell’essenza di valore primaria con cui era nata?

 

 K. Hokusai, "La grande onda di Kanagawa" (1820-1831)
K. Hokusai, "La grande onda di Kanagawa" (1820-1831)

 

Il marchio che produce linee di abbigliamento in cui vengono stampate celebri opere d’arte agisce mercificando ciò che per sua natura non era nato per essere mercificato. Attraverso il processo di mercificazione si agisce producendo un vero e proprio cambio di statuto dell’opera che adesso si impone come elemento d’attrazione per il compratore. L’opera d’arte viene ri-contestualizzata all’interno della nuova epoca storica che è ora chiamata a vivere; un tempo, il nostro, vittima del mero consumismo diffuso.

 

La cosa interessante a mio parere di questo procedimento è proprio come qualsiasi oggetto – compresa un’opera d’arte millenaria come Il bacio di Klimt – abbia la capacità di rimodellarsi in virtù del momento storico e del fine culturale-economico insito in quest’ultimo e come, successivamente esso stesso si faccia promotore proprio di quei caratteri in lui introdotti.

 

Se con l’arte moderna delle avanguardie il fine ultimo era stato proprio quello di diffondere al mondo l’idea che dietro l’arte potesse celarsi un intento più sofisticato e un significato profondo da svelare (come un vero e proprio mistero da scoprire), andando a tratteggiare le caratteristiche intrinseche dell’epoca storica in questione, in cui era esploso il rinnovamento in ambito culturale, economico e sociale dovuto alle nuove scoperte scientifiche; l’arte oggi giorno – oltre ad assumere il valore per cui è nata in determinati casi – può imporsi come mezzo di consumo, come elemento capace di attrarre la possibile scelta d’acquisto del compratore.

 

Ecco che quindi una semplice maglietta o un posacenere recante la stampa delle Ninfee di Monet si propone il medesimo obiettivo consumistico tipico della nostra epoca storica. Ecco come quest’oggetto diviene promotore di quei fondamentali caratteri tipici della nostra cultura e della nostra società. 

 

In un mondo in cui tutto si propone attraverso una liquidità di fondo, come diceva per l’appunto Bauman, anche l’arte deve poter assumere i tratti tipici della liquidità, evitando di arroccarsi all’interno di inutili riflessioni profonde. Quello che basta è semplicemente una facciata; un’arte di facciata che l’osservatore può guardare distrattamente e senza impegno. L’opera non può più permettersi di veicolare valori e significati di fondo che l’osservatore medio non sarebbe in grado di comprendere, o meglio non avrebbe la volontà di comprendere.

 

Questo, d’altronde, ce lo aveva già spiegato tempo prima G. Simmel nel suo saggio Le metropoli e la vita dello spirito: «La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori […] l’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose […] nel senso che il significato e il valore delle differenza, e con ciò il valore e il significato delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti.»

 

Ciò significa che all’interno della vorticosa e frettolosa quotidianità dell’uomo postmoderno l’immensa quantità di stimoli provenienti dall’esterno devono essere filtrati, facendo in modo che solamente una piccola parte di questi venga poi a trovarsi all’attenzione della coscienza dell’individuo.

 

La complessa intensità della vita postmoderna ha portato l’uomo a sottovalutare e filtrare anche il contenuto dell’arte stessa – nata per uno scopo totalmente opposto, quello di fare breccia nella coscienza dell’individuo – che adesso si limita ad essere apprezzata come puro elemento ornamentale per una linea di borse firmate. 

 

 19 febbraio 2021

 




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