Per una memoria a colori (anche fuori dal cinema)

 

L’aporia di Auschwitz: un tempo che rifiuta di essere messo fra parentesi e afferma la necessità storica e morale di ripensarlo a colori.

 

di Maria Chiara Scopelliti

 

David Olère, "Il cibo dei morti per i vivi" (1943-45)
David Olère, "Il cibo dei morti per i vivi" (1943-45)

 

« Abbiamo avuto modo di capire bene, allora, che del grande continente della libertà, la libertà di comunicare è una provincia importante. Come avviene per la salute, solo chi la perde si accorge di quanto valga. Ma non se ne soffre solo a livello individuale: nei paesi e nelle epoche in cui la comunicazione è impedita, appassiscono presto tutte le altre libertà; muore per inedia la discussione, dilaga l’ignoranza delle opinioni altrui, trionfano le opinioni imposte » (Primo Levi, I sommersi e i salvati)

 

Ritengo che non ci sia modo più giusto, se non quello di ricorrere alle pesate e pesanti parole del chimico-scrittore Primo Levi (Torino 1919-1987), per aprire qualsiasi tipo di riflessione che intenda toccare uno o più aspetti del tema della Shoah, una fra le più drammatiche pagine storiche del XX secolo, un tempo che rifiuta di essere messo fra parentesi, resiste alla comoda, ma distorta, visione di evento-epochè, perché grida ancora oggi con il silenzio dei suoi sommersi. 

 

«L’aporia di Auschwitz è la stessa aporia della conoscenza storica: la non coincidenza fra fatti e verità, fra constatazione e comprensione» (Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz). Aporia (dal greco ἀπορία) significa letteralmente un “percorso senza sbocchi”, una reale difficoltà logica di fronte alla quale viene a trovarsi la ragione umana qualora si imbatta in una questione intrinsecamente contraddittoria e filosoficamente insolubile, una problematica, in sé, ineliminabile ed irriducibile. Mai tale termine è stato scelto così puntualmente, quanto in questa argomentazione proposta dal filosofo contemporaneo Giorgio Agamben:

 

« da una parte, infatti, ciò che è avvenuto nei campi appare ai superstiti come l’unica cosa vera e, come tale, indimenticabile; dall’altra, questa verità è, esattamente nella stessa misura, inimmaginabile, cioè irriducibile agli elementi reali che la costituiscono. […] una realtà tale che eccede necessariamente i suoi elementi fattuali: questa è l’aporia di Auschwitz » (Ivi) 

 

La ricaduta etica e politica dello sterminio, perpetrato dal regime nazista nei confronti di milioni di ebrei fra il 1941 e il 1944, si riflette, oggettivamente, nelle parole e, in molti casi, nella mancata comunicazione dei testimoni, quelli che Primo Levi ha definito, per la prima volta in Se questo è un uomo, i salvati. Se da un lato comprendere ciò che è stato è impossibile, dall'altro lato conoscere è necessario e, per farlo, occorre immergersi nei vissuti di chi è tornato ad essere uomo, donna, ed ha raccolto il coraggio di esserlo anche grazie al racconto di sé. 

 

In occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio 2021) film, interviste, approfondimenti storici sulla Shoah sono emersi silenziosamente fra i palinsesti dei vari canali tv. In un momento storico, sociale e politico come questo, la messa in onda su Rai 1, fra gli altri, del recente documentario #AnneFrank. Vite parallele (2019) di Sabina Fedeli e Anna Migotto, sottopone tutti noi ad una sorta di esame morale con mezzo di contrasto. Un racconto audio-visivo che accompagna idealmente lo spettatore fra le pagine del diario della giovane Anne e nelle vite di cinque sopravvissute alla Shoah, allora sue coetanee, ora diventate madri e nonne. Le voci narranti dell’intestimoniabile si intrecciano in un dialogo attuale, grave, in grado di impressionare l’intima esperienza dell’incomunicabile nell’attualità presente dell'oggi. Set del documentario e fulcro narrativo di questo singolare racconto è la fedele ricostruzione della stanza di Anne Frank al Piccolo Teatro di Milano. Le pareti della camera-rifugio si configurano come un luogo di esperienza per la società civile, un atto di coscienza culturale. Attraverso la lettura immersiva di alcuni passi del diario di Anne da parte del premio Oscar Helen Mirren, Katerine, un’adolescente dei nostri giorni, ripercorre di luogo in luogo, le principali tappe europee della memoria, fino alla stanza di Anne ad Amsterdam.

 

Oltre all’orrore e al disgusto provato di fronte a tale scientifica e calcolata disumanità, ciò che resta impigliato negli occhi è l’urgenza di riconoscere una reale e grave minaccia: dimenticare, ignorare, sminuire la portata morale delle testimonianze dei salvati significherebbe lasciare spazio a presupposti ideologici razziali sopiti e mai definitivamente superati. Eppure, assistiamo fin troppo spesso a goffi e superficiali dibattiti fra opinionisti dell’ultim’ora e personalità di spicco sull’efficacia, l’utilità sociale e culturale dell’istituzione di tale giornata. 

 

 

La materia della memoria è tanto forte e autorevole, quanto fragile e vulnerabile: la memoria, come la pellicola di un film, col passare del tempo può deperire, opacizzarsi, fino a scomparire. Se mal conservate, le immagini impressionate tendono inevitabilmente a dissolversi: è un dato di fatto con cui ogni società ed ogni epoca deve fare i conti. D’altra parte, se di proiezione in proiezione i film si consumano, si deteriorano e si dimenticano, in modo diametralmente opposto si comporta la memoria della testimonianza: più è ascoltata, coltivata e studiata, più si rafforza nella sua quadruplice natura morale e preventiva, politica e sociale

 

Nel marzo 2018 gli occhi di tutto il mondo si sono soffermati su una singolare e struggente opera dell’artista brasiliana Marina Amaral, la quale, nell’ambito del progetto Faces of Auschwitz, ha magistralmente rielaborato la fotografia di registrazione di Czesława Kwoka, quattordicenne polacca uccisa nel campo di sterminio di Auschwitz il 12 marzo 1943. La tecnica grafica da lei adottata, sempre più diffusa anche nel settore della regia filmica, è quella della cosiddetta colorizzazione, operazione attraverso la quale foto originali in bianco e nero vengono rese a colori. La Amaral ha impiegato oltre tre anni per “colorizzare” una ventina di fotografie scattate fra il febbraio del 1941 e il gennaio 1945, oggi conservate presso l’Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum. Così l’artista ha restituito colore al pallido incarnato della pelle, all’iride svuotata degli occhi e alle inconfondibili righe sbiadite delle camicie dei deportati: il risultato è una reale trasfigurazione dell’immobilismo distaccato del bianco e nero in ritratti di esistenze, nuovamente animati da un soffio vitale. Ogni vallo cronologico è annullato e abbattuto dalla potenza di una memoria che riacquista colore e voce. Il risvolto morale ed etico di tale operazione investe totalmente il nostro presente, mettendoci di fronte molteplici chiavi di lettura ed azione. La forza emotiva di queste immagini è spiegata così dalla stessa artista: 

 

« Credo fermamente alla forza che scaturisce dal vedere volti come quello di Czesława a colori, è molto più facile identificarsi una volta che li si veda come dei veri esseri umani. Questo può sembrare paradossale ma è necessario questo passaggio per comprendere veramente e sentirsi coinvolti più intimamente. Questo fatto non ha nulla a che vedere con me o con il mio lavoro ma con il potere che hanno i colori di farci capire che queste persone che vivevano nel passato, proprio come noi, avevano famiglie, amici, sogni e avevano vissuto momenti difficili. Guardate gli occhi di Czesława »

 

 

Pensare e studiare una memoria a colori significa, innanzitutto, valorizzare il linguaggio e la narrazione di ogni testimonianza: Bruner, celebre psicologo e studioso delle dinamiche linguistiche e sociali, sosteneva che il fine implicito di una narrazione consiste non tanto nell’istruzione, bensì in una forma di prevenzione verso certi eventi, situazioni, sentimenti. Un concetto e una visione apparentemente semplice, ma tutt’altro che banale, poiché in grado di cogliere perfettamente l’essenza della cosiddetta “letteratura della testimonianza”, oggetto di studio del saggio di Italo Calvino Appunti sulla letteratura contemporanea in Italia, pubblicato nel 1959. In questo testo veniva analizzata una generazione di autori letterari, suoi contemporanei, che, pur differenziandosi l’uno dall’altro per stile, tempi di narrazione e argomenti trattati, condividevano come denominatore comune delle loro opere, proprio la centralità del concetto di testimonianza. Calvino aveva osservato che dalla seconda metà del Novecento era diventato sempre più diffuso l’uso corrente del racconto personale come, per dirlo con le parole di Bruner, moneta culturale del panorama letterario e narrativo italiano. È così che possiamo raccogliere sotto il titolo di scrittore-testimone, personalità quali quelle di Beppe Fenoglio, Carlo Levi, Ennio Flaiano e Primo Levi, uomini che hanno tradotto in parole una tragica esperienza personale, legata indissolubilmente ad un determinato contesto storico e socioculturale. È solo un caso che nasca proprio in quegli anni la figura dello scrittore-testimone e che sotto di essa vi si possano raccogliere i grandi nomi della letteratura italiana della seconda metà del XX secolo? Evidentemente si tratta di una domanda retorica, che vuole mettere provocatoriamente in luce il fatto che tutti questi autori hanno interpretato la scrittura e il termine testimonianza come una sorta di imperativo categorico, un dovere morale nei confronti della società a cui appartenevano.

 

I racconti rappresentano la moneta corrente, la memoria a colori di una cultura e, oggi più che mai, dobbiamo cogliere la drammatica eredità consegnataci da ciò che è stata la Shoah. Quei colori erano tanto vividi ieri quanto lo possono essere oggi: è più complesso riportare alla luce i colori di una vecchia pellicola, che evocare ciechi venti di odio e disumana crudeltà.

 

10 febbraio 2021

 









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