Teatro dei castighi: l'immagine del supplizio tra Goya e Foucault

 

In Sorvegliare e punire, Foucault descrive una panoplia sadica di esecuzioni, torture e castighi, che nonostante l’impatto emotivo si fa fatica a immaginare. Però, un’analisi dei Caprichos e del Cuaderno C di Goya, che vive proprio in quell’epoca di spettacoli sanguinolenti, può aiutare a metterli a fuoco. 

 

di Giovanni Pacini

 

Francisco De Goya, "Non ci fu rimedio" (1799)
Francisco De Goya, "Non ci fu rimedio" (1799)

 

Aristotele, nelle pagine iniziali della Poetica, definisce la prima causa dell’imitazione come una facoltà naturale tipica degli esseri umani, con cui, fin da bambini, conoscono e provano piacere. Ma, per chiarire un concetto tanto generale e confuso, aggiunge: 

 

« Una prova di ciò che dico è quel che succede nella comune esperienza: poiché quelle cose medesime quali in natura non possiamo guardare senza disgusto, se invece le contempliamo nelle loro riproduzioni artistiche, massime se riprodotte il più realisticamente possibile, ci recano diletto; come per esempio le forme degli animali più spregevoli e dei cadaveri. […] Infatti il diletto che proviamo a vedere le immagini delle cose deriva appunto da ciò, che, attentamente guardando, ci interviene di scoprire e di riconoscere che cosa ogni immagine rappresenti […]. Che se per avventura non si sia veduto prima, in natura, l’originale, non sarà certo l’immagine sua in quanto ne sia fedele imitazione che ci recherà diletto, ma ci diletteranno l’esattezza dell’esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere. » (Aristotele, Poetica)

 

Osservando un’immagine attentamente, sembra dire Aristotele, nonostante l’impressione dei personaggi e la durezza del tema, si prova piacere perché si conosce qualcosa di nuovo, perché la precisione della scena e l’attenzione ai dettagli permettono di capire, sillogizzando, che “questo è quello”. Per esempio, lo stupore che oggi suscitano certi scatti di fotogiornalismo nasce non solo dalla sofferenza raffigurata, ma anche dal piacere  niente affatto sadico  di conoscere, di scoprire cosa accade veramente nel mondo, perché così, grazie a una rappresentazione letterale della realtà, capace di mostrare senza filtri come stanno le cose sul serio, se ne prende consapevolezza ed è possibile ragionarci sopra.

 

Però, prima della fotografia, per conoscere la realtà di un’epoca storica, per mettere a fuoco più o meno fedelmente gli aspetti di una società, è necessario fare affidamento all’arte e, in particolare, alle caricature, ai disegni satirici, dove la disonestà, le ingiustizie e gli scandali sono riprodotti e accentuati senza mezzi termini, ingigantiti fino all’esasperazione, così da saltare subito all’occhio, perché la gente del tempo, al corrente sugli ultimi scoop o abituata alle miserie di tutti i giorni, doveva rendersene conto al primo sguardo.

 

E per visualizzare quella «ragionevole estetica della pena» di cui Foucault parla in Sorvegliare e punire, che si fa tanto fatica a immaginare nonostante le sue descrizioni accurate, bisogna analizzare proprio i disegni satirici di Goya, che, malgrado le atrocità rappresentate, suscitano piacere non per un inspiegabile sentimento sadico, ma per la consapevolezza storica di cui sono testimonianza; una testimonianza fondamentale, perché, da un lato, si colloca fra il 1799 e il 1823, quando si realizza il passaggio fra il cerimoniale dell’esecuzione pubblica e la via crucis della catena che porta al Golgota della prigione (l’ultima in Francia fu nel 1836), dall’altro, prova come la casistica dei supplizi in Spagna non fosse poi molto differente da quella francese descritta da Foucault, scomparsa, più o meno del tutto, fra il 1830 e il 1848.

 

Innanzitutto il Cuaderno C (1814-1823), con le sue catene, i collari, i lacci, le corde e i cappelloni a punta, documenta questo periodo di transizione, quando le idee dei giuristi riformatori, come Beccaria o Le Peletier, avevano spostato lo spettacolo dei supplizi dall’esecuzione pubblica, troppo spietata e sanguinaria, al gran varietà delle pene corporali, meno crudeli, molto più lunghe (a volte infinite, come i lavori forzati), ma soprattutto istruttive. Più che una morte immediata e inutile, che sarebbe finita il giorno stesso fra l’indignazione generale, veniva messa in scena una rappresentazione di castighi permanenti, una casistica di punizioni dal valore educativo, come fossero un abbecedario di giustizia per i bambini, un manuale di civismo per gli studenti, una scuola di moralità per gli adulti, insomma, un «Giardino delle Leggi, che le famiglie visiteranno la domenica» (M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione).

 

Sui 125 fogli del Cuaderno C (l’ultimo è numerato 133, ma 8 sono scomparsi), i disegni dedicati alle umiliazioni pubbliche e alle pene corporali sono ben 27, quasi il 22% della raccolta: un numero che deve essere preso in considerazione, perché mostra la diffusione, l’assortimento – come fosse un buffet per cannibali – e, soprattutto, la normalità, la quotidianità di avere sempre sotto gli occhi, in Spagna, spasimi, grida, pianti, corpi piegati, piagati, vestiti zuppi di sudore, imbrattati di sangue, vomito ed escrementi.   

 

Francisco De Goya, "Perché è privo di gambe" (1814-1823)
Francisco De Goya, "Perché è privo di gambe" (1814-1823)

 

Nei disegni 85-92 le vittime indossano tutte un altissimo berretto a punta e una casacca piena di scritte con una grande croce sopra, simbolo dell’emarginazione pubblica, dell’esclusione sociale, marchio dell’eliminazione tanto ideale – non si uccide fisicamente – quanto reale, perché invisibili agli occhi della popolazione nonostante la loro presenza, perché inesistenti di fatto, di specifici gruppi di persone, considerate criminali a causa della loro presunta diversità, della loro non conformità alle norme convenzionali, dato che, come scrive Foucault per la Francia, «sotto il nome di crimini e di delitti, è vero, si giudicano sempre oggetti giuridici definiti dal codice, ma nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell’ambiente o della eredità» (Ivi). E le stesse cause, ma nel contesto spagnolo, si possono leggere fra le righe del Cuaderno C, infatti, nel disegno 85 Goya annota «Per essere nato altrove» (effetti dell’ambiente), nel 86 «Per aver portato simboli diabolici da Bayonne» (disadattamento), nel 88 «Perché discende da ebrei» (eredità), nel 89 «Perché parla in modo diverso» (anomalie), nel 90 «Perché è privo di gambe» (infermità), nel 92 «Perché amava un’asina» (istinti/passioni).

 

Ma la rappresentazione dei castighi, la messinscena delle pene, diventa ancora più spietata nei disegni 93-113, in cui la panoplia dei supplizi è mostrata nel suo estro più sadico, come se l’essere umano pecchi di fantasia in tutto tranne che nell’inventare nuovi escamotage per infliggere dolore. Ed è proprio da questo caleidoscopio di tormenti, fatto di catene al collo, alle mani, ai piedi, di oscurità e solitudine, di lacci, cappi, nodi, carrucole, anelli, pali, patiboli, gogne, che si intuisce la spettacolarizzazione pubblica delle punizioni, la pedagogia cannibalesca esercitata ai crocicchi o nelle piazze, così insaziabile da arrivare fin dentro le celle, fra i tormenti più nascosti, segreti, invisibili, e documentare l’esistenza in Spagna del grand tour di formazione immaginato da Le Peletier per la Francia (a cui, molto probabilmente, Goya partecipò), dove bambini, adulti, allievi, maestri e famiglie potevano visitare i condannati una volta al mese «nel loro penoso ritiro» (Ivi). 

 

Francisco De Goya, "Che crudeltà!" (1814-1823)
Francisco De Goya, "Che crudeltà!" (1814-1823)

 

Ma nell’arte di Goya spettacoli tanto crudeli non erano una novità, anzi, la sua denuncia satirica compariva già nell’incisione Non ci fu rimedio (1799) dei Caprichos, dove ritrae la processione della catena, l’ultima trovata scenica del XVIII secolo, in cui il «cammino verso la detenzione si svolgeva come un cerimoniale del supplizio» (ivi). Il collare di ferro pesante, come fosse un cappio alla rovescia, che se non spezza il collo obbliga ad abbassarlo in segno di sottomissione, le catene alle mani, la nudità, che rende vulnerabili perché lascia senza la protezione dei vestiti e umilia perché espone le intimità, sempre nascoste, al giudizio feroce della folla (con i visi deformati dal sadismo, a metà fra gli studi di fisiognomica di Leonardo e Il vagone di terza classe di Daumier), il capellone a punta, l’asino come mezzo di trasporto, sono tutti simboli, marchi, manifesti, scenografie e allestimenti di un’attesissima prima teatrale, recitata sul palcoscenico chilometrico della strada che porta alla prigione.

 

Foucault, in Sorvegliare e punire, nel capitolo sul panoptismo, spiega come il nuovo metodo di detenzione, dove ogni prigioniero è rinchiuso da solo nella sua cella, senza poter vedere gli altri ma ben visto dai sorveglianti, è completamente diverso dalle «masse, compatte, brulicanti, tumultuose, che si trovano nei luoghi di detenzione» (ivi) dipinti da Goya, nominato di sfuggita, così, all’improvviso, senza essere più richiamato in causa per tutto il resto del libro. 

 

È una citazione molto curiosa, carica di conseguenze, tutt’altro che banale, un punto nodale da cui si propaga una rete di perplessità che è possibile sciogliere. Infatti, la parola usata nell’edizione francese di Sorvegliare e punire è peignait, ha dipinto, dipingeva, e, a volervisi attenere fedelmente, le uniche opere di Goya che vengono in mente su un tema simile – e a cui Foucault potrebbe alludere – sono Interno della prigione (1793-1794), Il cortile del manicomio (1793-1794) e Il manicomio (1812-1819), dipinti a tutti gli effetti, pieni zeppi di persone che gridano contorte, che pregano stramazzate a terra, che si accalcano l’una sull’altra in un cumulo di disperazione. Al contrario, i Caprichos, sono incisioni, in cui la ressa compare nella catena, all’aperto, non in una cella, mentre il Cuaderno C una raccolta di disegni, dove, fra l’altro, i detenuti sono tutti imprigionati da soli, non ammassati, senza tumulti né brulichii. 

 

Nonostante nomini Goya, le differenze evidenti con i dipinti e l’assenza completa di citazioni ai Caprichos o al Cuaderno C in Sorvegliare e punire fanno supporre che Foucault non conoscesse queste testimonianze preziosissime, – prendendole, per esempio, a modello come Las Meninas di Velázquez ne Le Parole e le cose – che invece documentano perfettamente, malgrado il contesto spagnolo e non quello francese, la verità delle sue parole, che aggiungono un tassello in più, un tassello visivo, come fossero diapositive ante litteram, a un fenomeno sociale, quello del supplizio pubblico nel XIX secolo, rimasto finora relegato all’immaginazione, sempre incerta e desiderosa di confermare le sue ipotesi, e ai quadri di genere, pensati più per celebrare che per testimoniare, falsando così la percezione della realtà. 

 

1° luglio 2021

 









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