Il liceo delle asticelle

 

Somministrare nozioni e pretendere a scadenza fissa che gli allievi le risputino fuori rispondendo a domande a crocette, domande aperte che pretendono disquisizioni sui massimi sistemi in tre righe, cioè che richiedono formulette vuote e prive di qualsiasi criticità o apporto critico del discente, non è apprendimento. Anzi, il più delle volte questo metodo elimina ogni segnale di vita, di interesse, di passione che un adolescente potrebbe dimostrare per una o un’altra materia.

 

« Apri la mente a quel ch’io ti paleso, / e fermalvi entro, ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, aver inteso » (Divina Commedia, Pd, V, 40-42).

 

La famosa, sebbene poco spiegata al liceo, terzina di Dante ci illumina in modo chiaro ed eloquente sul significato vero dell’apprendere. Beatrice invita Dante ad aprire la mente, quindi a porsi in ascolto intellettuale, e a capire ciò che lei gli spiegherà. Ma la raccomandazione è quella di riuscire poi a trattenere dentro la mente ciò che ha compreso, perché non c’è conoscenza che si limiti ad un mero e nozionistico ascolto e ad un meccanismo mnemonico di ripetizione dell’oggetto dell’apprendere. Bisogna “fermare entro” ciò che si apprende e farlo diventare sapere.

Esiste un metodo specifico per far sì che ciò avvenga? Certo che esiste!

E soprattutto, può questo metodo essere annoverato tra le procedure didattiche che coronano il percorso scolastico di un liceale, di quello studente cioè che sa stare sopra le famose asticelle, dietro le quali si trincerano i “nozio-adulatori” e tutti quelli che credono nelle interrogazioni programmate, in un sapere finalizzato all’attimo della verifica e dell’interrogazione, a volte vergognosamente bendando gli occhi degli alunni perché non copino? La verifica dei nozio-adulatori assomiglia molto al tentativo di mettere dei post-it su un muro e poi, dopo qualche giorno, andare a vedere se per caso si sono scollati. Generalmente si scollano tutti dalla parete.

Insegno materie letterarie, e troppo spesso, nelle conversazioni con gli alunni durante la lezione, mi stupisco di quanto poco riescano a coinvolgere nei nostri approfondimenti, che spaziano verso orizzonti sempre più allargati, i loro saperi ripescati dalle altre discipline. Eppure hanno appena svolto una verifica, domani un gruppo di loro ha un’interrogazione programmata e via dicendo.

 

 « Non ti maravigliar; che ciò procede / da perfetto vedere, che, come apprende / così nel bene appreso muove il piede » (Divina Commedia, Pd, V, 4-6).

 

L’apprendimento è un percorso luminoso, che dovrebbe accendere nei discenti la voglia di procedere e scoprire, conoscere e ricorrere al sapere per valorizzare le proprie facoltà intellettive, nel perseguimento del bene comune.

 

« Come ‘n peschiera ch’è tranquilla e pura, / traggonsi i pesci a ciò che vien di fori / per modo, che lo stimin lor pastura » (Divina Commedia, Pd,  V, 100-102).

 

Chi è felice e sa, cerca il bene, non il male. Somministrare nozioni e pretendere a scadenza fissa che gli allievi le risputino fuori rispondendo a domande a crocette, domande aperte che pretendono disquisizioni sui massimi sistemi in tre righe, cioè che richiedono formulette vuote e prive di qualsiasi criticità o apporto critico del discente, non è apprendimento. Anzi, il più delle volte questo metodo elimina ogni segnale di vita, di interesse, di passione che un adolescente potrebbe dimostrare per una o un’altra materia.

 

 

A scuola mi somministravano tonnellate di nozioni che digerivo con diligenza, ma che non mi riscaldavano le vene (Primo Levi, Il sistema periodico).

 

Va da sé che, metodi del genere, in uso nei licei delle asticelle, sono portati in trionfo e sono sbandierati come l’unico passaggio che demarchi l’avvenuta accettazione nella sfera beata del liceale o meno, e sono quelli dietro i quali migliaia di docenti italiani si trincerano, intimoriti di essere sbalzati giù dai loro piedistalli da qualunque tipo di anomalìa che il loro percorso sicuro, anche se poco proficuo, incontrerà.

 

« È curioso che il concetto di maturità sia quello più invocato dalle persone immature. Ma anche qui si tratta di una contraddizione apparente: in realtà, accusando l’immaturità degli altri, difendono la propria »(Giuseppe Pontiggia, Nati due volte).

 

Perché ci accaniamo così tanto su un procedere didattico che, oltre a sfiancarci, non ci dà soddisfazione? Cos’è il sapere e l’apprendere se non gioia di conoscenza, come appunto ci delinea il nostro padre Dante, se non un procedere allargando lo sguardo e desiderando sempre più di conoscere e ampliare le maglie della nostra scoperta del mondo? Come facciamo a rendere arido un terreno fertile? Quali sono i metodi da seguire per evitare questi dissesti antropo-geologici?

 

« La terra vergine non va dissodata in superficie con un aratro leggero, ma in profondità con un vomere affilato » (Ivan Turgenev, Terra vergine).

 

Un terreno fertile, innanzitutto, va subito dissodato con la vanga, cioè, fuori di metafora, con contenuti di ampio respiro, di qualità, di profondità, e soprattutto con un’infinità di dubbi, che facciano sorgere nei discenti la voglia di interrogarsi, di guardarsi intorno, di cercare. Tutti procedimenti corretti per diventare adulti, cosa che le così tanto invocate mappe concettuali invece non facilitano, anzi sono esattamente e omeopaticamente l’esatto contrario. Esse riducono il sapere ad una lista della spesa, dove ad ogni parola non colleghiamo un procedimento più ampio della mente, ma riduciamo il nostro raggio di pensiero. La parola così muore in bocca agli allievi e scatta il votaccio. Quindi, la formula giusta per procedere dovrebbe essere profondità e leggerezza, come spiegava bene Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane, pubblicate postume, e non superficialità e pesantezza. La lezione deve essere una danza che vada sempre più a fondo nella conoscenza delle cose, attraverso la voglia della scoperta, la calma della riflessione, la frequentazione di testi significativi, difficili, ma rivelatori. E poi ci vuole l’esercizio della mente che riporta per iscritto il proprio pensiero, lo stesso che servirà poi al dialogo con gli altri durante la lezione.

 

“Ma come misuriamo il loro livello di sapere, allora?” Chiederanno gli scettici nozio-adulatori. Impastando e rimpastando l’acqua e la farina-allievo a lezione, andando a ripescare conoscenze che stanno diventando o sono diventati già sapere, con qualche domanda che ci dia immediatamente la fotografia del loro procedere, coinvolgendoli in ragionamenti che sono in grado di portare avanti solo se forniti di quel sapere che sta facendo diventare il loro zaino-mente non pesante, ma la molla giusta per spiccare il salto «che a pena poscia li avrei ritenuti» (Divina Commedia, If, XXVI, 123; 125).

Il compito più difficile, ma anche eticamente più edificante per noi insegnanti è quello di far riflettere i nostri allievi sugli errori di apprendimento, affinché realmente avvenga un miglioramento delle proprie qualità intellettive. C’è chi persegue il metodo del voto basso senza discussione, e c’è chi invece ritiene sia assolutamente indispensabile un dialogo, una spiegazione, una disamina anche della motivazione del voto basso per il bene del discente.

«Riconoscere l’errore non significa mettere in discussione sé stessi, ma quell’errore. Il timore del riconoscerli e il pensare che ciò metta in discussione sé stessi è la radice dei mali a cui assistiamo», dice in un suo recente post su Tweet Mila Spicola, docente di Arte e Immagine in una scuola media di Palermo, ma autrice anche di un interessantissimo testo sulla deriva della scuola italiana, La scuola si è rotta.

Un alunno ribelle a simili automatismi, un alunno curioso, un alunno che ha subito così tanti traumi nel suo giovane cammino, che adesso ha una memoria completamente bloccata dalla paura e pertanto non è in grado di rispondere a questi automatismi, viene visto come colui il quale non è in grado di superare le asticelle d’entrata nella corte del liceo e pertanto deve essere assolutamente mandato via.

Ma, per fortuna, ci sono docenti che intralciano queste procedure, perché credono invece che di un frutto non si butti via mai niente, perché avvertono che sono ragazzi questi che, poiché nati due volte (una volta quando hanno subito il trauma che gli ha generato un’ansia infinita, e un’altra volta quando si sono presentati nel mondo della scuola con le loro fragilità) «il loro percorso sarà più tormentato», come dice G. Pontiggia nel testo sopra citato e ci ricorda che «alla fine anche per voi sarà una rinascita». E lo è davvero. È una gioia immensa per me vedere questi ragazzi muoversi da soli e cominciare a provare soddisfazione anche solo per quel pezzettino di sapere che hanno fatto proprio e che gli ha permesso di mettere in atto le proprie e splendide, nonché uniche, come lo sono quelle di tutti gli altri, capacità speculative.

Ci sono alunni che obbediscono e alunni che seguono. Ci sono docenti che fanno sentire geni gli alunni e altri che li fanno sentire e li considerano solo delle macchine ingurgita-nozioni. C’è chi crede che da un liceo usciranno lavoratori, e c’è chi si prodiga a far maturare uomini. 

 

« Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da esser fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Ma neppure la virtù immacolata esiste, o se esiste è detestabile » (Primo Levi, Il sistema periodico).

 

E così per ogni materia di insegnamento non possiamo dimenticare che abbiamo il dovere morale di far sì che gli allievi la percepiscano come una fonte viva d’umanità e di pensiero.

 

« In ogni studio, in ogni ricerca, per minuta e paziente e laboriosa che sia, non dobbiamo dimenticare il valore umano; sia che si ridesti una pietra, o una parola, o una notizia, non dobbiamo dimenticare che si ridesta una particella smarrita o ignota di umanità » (Ezio Franceschini, Concetto Marchesi: Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto).

 

A proposito dello studio, ad esempio, della Grammatica italiana, l’italianista Salvatore Battaglia ricordava, nell’introduzione alla seconda edizione del suo manuale, del 1960, che «l’interesse grammaticale è venuto declinando nella coscienza dei più e in particolar modo nella scuola perché è stato ridotto all’angustia di nozioni, venendosi a smarrire così il senso della sua più intima esigenza». Lo studio della Grammatica, come quello di tutte le altre materie che costellano il percorso dello studente liceale, dentro e fuori della fantomatica linea di demarcazione delle asticelle, dovrebbe reagire a una «mentalità schematica e meccanica», che non tiene conto «dell’incessante moto creativo che li determina. Battaglia definiva lo studio della Grammatica una forma di educazione morale, di interiore disciplina». Io estendo a tutte le materie di studio questa definizione, strappandole e liberandole da quelle cornici confettate dentro le quali la maggior parte dei docenti ama sistemarle, perché siamo al liceo e al liceo queste cose bisogna saperle.

Ma veramente crediamo che il sapere si trasmetta in modo così nozionistico e meccanico? Teniamo mai conto che non è solo la nostra materia oggetto di studio? Consideriamo lo spazio e il tempo adeguati a dare respiro anche allo studio delle altre materie o corriamo impazziti a seminare e raccogliere nozioni, come se fossimo rimasti gli unici esseri viventi su questo Pianeta? Crediamo nel concorrere comune dei saperi, o andiamo a senso unico, sicuri delle nostre certezze, e inconsci delle nostre incertezze, unica base certa del nostro vivere e pensare? La verifica del sapere non si esaurisce in una data, per giunta concordata, ma si espleta giorno dopo giorno, con fatica e sudore, fino all’ultimo giorno di scuola.

Crediamo davvero che ciò che importa in ogni occasione è affermare il proprio unico e soggettivo punto di vista, perché, come insegnava il filosofo greco Protagora, l’uomo è misura di tutte le cose? Il costante richiamarsi al diritto naturale del più forte, ci dice il filologo moderno tedesco Max Pohlenz nel suo capolavoro La stoà, non sortì altro effetto che di favorire le tendenze egoistiche individuali, ma non riuscì a soffocare l’antico sentimento comunitario e la coscienza morale fondata su di essa. Ne nacquero lacerazioni. Lo stesso accade nel mondo della scuola italiana contemporanea. Spesso infatti nei consigli di classe assistiamo a vere e proprie solitarie prolusioni di docenti che, dimenticando l’obiettivo del bene comune, vivono il loro attimo di celebrità nel luogo e nel momento meno opportuno. Dalle mie parti si dice “chi rriva ietta vuci”!

Nel 334 il filosofo macedone Aristotele fondò ad Atene la sua scuola, che prevedeva al mattino corsi complessi e al pomeriggio corsi più divulgativi. La scuola fu fondata all’interno di un ginnasio e fu detta liceo perché vicina al santuario di Apollo Liceo, da cui appunto prese il nome, anche se poi fu detta anche Peripatos, dalla passeggiata coperta dove il maestro era solito tenere le sue lezioni.

Che tempi meravigliosi! Passeggiare ed ascoltare il maestro. La riflessione era d’obbligo. E probabilmente fu questo il terreno dove sgorgò anche la delicatissima poesia di età ellenistica. E così dovrebbe essere anche la vita intellettualmente lussureggiante di un liceo, dove la poesia della vita, «non nasce da un pensiero prima tutto consolidato, ma collabora con quello e spesso lo sopravanza con intuizioni più tardi consolidate da un punto di vista riflessivo» (Giacomo Leopardi, Zibaldone dei pensieri, parafrasi a cura della scrivente).

 

 24 maggio 2021

 




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