Alla fine del rito. Tra de Martino e Byung-chul Han

 

Tra filosofia e antropologia, negli ultimi sessant’anni sono stati tre gli autori che con rimpianto e con preoccupazione hanno registrato prima una crisi, poi una fine, poi una vera e propria scomparsa dei riti: Ernesto de Martino, René Girard e il filosofo contemporaneo Byung-chul Han.

 

di Ludovico Cantisani

 

« Quando il 20 giugno 1959 l’équipe giunse a Galatina, la prima preoccupazione fu di procurarci l’occasione di assistere a uno degli esorcismi domiciliari che nei paesi salentini si moltiplicano, come si è detto, con l’approssimarsi della festa del 29 giugno… Fu così che il tardo pomeriggio del 24 partimmo per Nardò, alla ricerca di due fratelli che gestivano una bottega di barbiere al centro del paese, riadattando alle esigenze terapeutiche del luogo la vecchia tradizione del barbiere-flerotomo. »

 

Con queste parole il grande antropologo Ernesto de Martino, in quello che forse è il suo libro più noto, La terra del rimorso, introduceva il primo contatto dal vivo con un fenomeno che fu lui a far conoscere al grande pubblico: quello del tarantismo pugliese.

 

Nella Puglia che de Martino con la sua composita équipe visitò, sul finire degli anni cinquanta, si poteva ancora assistere a un rituale popolare dalla tradizione plurisecolare, se non millenaria, in cui una facciata cattolica mal celava ben più atavici residui pagani. «La tarantata, una giovane sposa di 29 anni, ripeteva regolarmente un ciclo coreutico definito, articolato in una parte a terra e in una parte in piedi, e terminante sempre con una caduta a suolo che segnava un breve intervallo di riposo». A furia di osservare la scena, de Martino si accorge che «la danzatrice viveva, dunque, la sua identificazione con la taranta, era asservita alla bestia, danzava con essa, anzi era la stessa bestia danzante».

 

Il tarantismo pugliese, al centro di quella pietra miliare dell’antropologia che fu La terra del rimorso, veniva letto da de Martino in una prospettiva ritualistica più ampia, molto attenta ai singoli casi e alle biografie dei “tarantati” ma al tempo stesso capace di leggere questo fenomeno al di là della psicopatologia, come un dispositivo bene o male istituzionalizzato di «restaurare la presenza»di far fronte alle angosce del quotidiano delle comunità più povere soprattutto in momenti di passaggio come la pubertà. Ad ogni occasione di cambiamento, individuale o collettivo che fosse, le società antiche facevano corrispondere una sua risoluzione rituale: il caso dei tarantati era particolarmente prezioso agli occhi di de Martino, perché rappresentava una reintegrazione rituale e guaritrice di quei membri del corpus sociale che si trovavano a vivere un’esperienza di dissociazione psichica. Per dirla con il linguaggio di de Martino, «il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di vita insieme, un impegno a uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare a un sistema di fedeltà culturali».

 

Sessant’anni dopo, a Nardò non c’è più nulla da guardare. E neanche a Galatina, a Tricarico, e pressocché in nessun altro dei posti toccati da Ernesto de Martino e dalla sua squadra all’epoca delle grandi esplorazioni etnologiche. Proveniente da un altro mondo, verosimilmente ignara dell’opera di de Martino, un’altra voce che si prende la briga di registrare questo stato di cose: Byung-chul Han, uno dei filosofi contemporanei più letti, originario della Corea del Sud e professore all’Università di Berlino ormai da molti anni.

 

Han non cita mai de Martino, a quanto mi risulta e, a parte qualche omaggio e qualche polemica con Agamben, non sembra particolarmente legato alla tradizione concettuale italiana. Ciò non toglie che Han molte volte si muova in un ambito tipicamente demartiniano, soprattutto quando annuncia – questo è il titolo di un suo libro del 2019 – una «topologia del presente» sotto l’ottica de La scomparsa dei riti. Quando fra gli anni cinquanta e sessanta Ernesto de Martino componeva la sua trilogia meridionalista, sapeva di star osservando un mondo al suo tramonto. La tesi di Han è che invece, nel nostro tempo, è in corso un'introspezione patologica nel soggettivo, basata su un «culto narcisistico dell'autenticità». In una società che rifiuta e rinnega la Morte – in una Società senza dolore, come è il titolo dell'ultimo libro di Han arrivato in Italia quest’anno – non risuonano più quei lamenti funebri a cui de Martino aveva dedicato un'altra delle sue opere maggiori, non c’è spazio per nessun rituale di chiusura, e tutto si ribalta in un'unica, pressante addizione consumista.

 

Né Han né de Martino vanno presi per nostalgici, attenzione: forse partono da un assunto un po’ romantico, ma non vorrebbero mai ripristinare il rito. Lo spiega bene l’avvertenza che Han inserisce in testa a La scomparsa dei riti: «il presente saggio non è animato dallo struggente desiderio di un ritorno dei riti: essi fungono, più che altro, come un lucido di contrasto dinanzi al quale il nostro presente assume contorni più netti», per cui «senza nostalgia, verrà delineata una genealogia della loro scomparsa» per far emergere nitidamente «le patologie dell’oggi». Secondo Han, oggi non abbiamo più riti: c’è solo una coazione a produrre, e ad accumulare oggetti di consumo, che si rifà a una concezione lineare e “additiva” del tempo. La consapevolezza di una ciclicità dell’esistenza, trasmessa dai riti alle comunità antiche dal periodico ripresentarsi delle feste, sembra del tutto abbandonata con la globalizzazione, l’inurbamento e il carattere sfrenato del neocapitalismo.

 

Ma se il mondo è così tanto cambiato nel corso dell’ultimi decenni, che importanza possono ancora rivestire tuttora i riti per l’uomo contemporaneo? Secondo Han, la questione è semplice: innanzitutto, «i riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile» – i riti, insomma, rendono stabile la vita, il nostro posto nel mondo. Ma se non è la spazializzazione il problema dei nostri anni rifugiati nel virtuale, oggi, proprio perché viviamo nella prima epoca digitale, «al tempo manca una struttura stabile». Han utilizza lo stesso linguaggio heideggeriano che, più problematizzato, aveva fatto la forza e l’originalità di de Martino – e quando scrive che «il rapporto con il mondo, che le cose dovrebbero garantire, si perde sempre di più» in un mondo virtuale in cui anche le emozioni sono un bene di consumo, ricalca inconsapevolmente e riattualizza quella crisi della presenza nel mondo antico e moderno su cui il nostro antropologo aveva speso le sue migliori pagine.

 

I riti antichi erano un’occasione di contatto, di scambio culturale, di rigenerazione collettiva: la stessa letteratura nasce dai riti, se è vero che l’Iliade e l’Odissea venivano lette nelle grandi feste pubbliche che riunivano tutta la Grecia; e i riti permettevano così la nascita di quella che Han definisce una «coscienza collettiva» che, instillando in tutti i membri del corpus sociale la consapevolezza di un’appartenenza comune, rendeva paradossalmente inessenziale una comunicazione verbale, esplicita. Nella società contemporanea invece «la comunità senza comunicazione cede il passo alla comunicazione senza comunità»: solo nel silenzio, in un «indugiare contemplativo», in un atteggiamento di vita che sappia soverchiare la positività incessante del consumo, Han rintraccia alcune possibili chiavi per reagire alle criticità del presente deritualizzato. Queste soluzioni che Han tra le righe offre rappresentano però soltanto delle modalità individuali di “tornare indietro” e di ritrovare una mentalità rituale, armonica nei confronti del mondo che ci circonda: la dimensione comunitaria non è più contemplata neanche da un filosofo che ne rimpiange la perdita, a ben vedere.

 

Constatare criticamente una crisi del rito non è un semplice rimpianto nostalgico. Il bisogno di ripetizione è uno dei bisogni più profondi e atavici dell’uomo, non basta la società digitale a rimuoverlo – e i riti, una volta morti, possono ribaltarsi in proprie varianti vampiresche. Dalle ceneri del rito comunitario nascono infatti ritualismi monchi, quasi sue pantomime individualiste – e di queste si nutre il nostro presente, che dalla ripetizione non può prescindere. Non per nulla il grande contraltare, il più delle volte implicito, delle esperienze ritualistiche collettive che de Martino fa appena in tempo a testimoniare nel Mezzogiorno italiano tra la Lucania e la Puglia è la psicoanalisi, e in particolare la psicoanalisi freudiana. Non solo e non tanto perché la civiltà contadina rappresenti un vero e proprio “rimosso” per la civiltà industriale – questa se mai, esposta in altri termini, sarà una tesi pasoliniana. Semplicemente, nell’opera di de Martino c’è un chiasmo implicito tra il rito collettivo, quale è solo l’esperienza di prima mano della taranta pugliese, e l’esperienza individuale, benché ancora vagamente cristianizzante, della terapia presso un analista vistosamente diffusa nelle società occidentali.

 

De Martino non dice che il rito è “meglio” della psicoanalisi – sarebbe stato puerile. Il rito, quantomeno un rito esorcistico quale può essere quello dei tarantolati, resta comunque sintomo di una crisi latente: una risposta alla crisi o, più spesso, una prevenzione. E come dimostra bene l’esperienza di alcuni dei tarantolati di cui si racconta ne La terra del rimorso, afflitti da decenni dal “morso del ragno”, non sempre il rito è risolutivo nei confronti dei blocchi psichici di cui la taranta è esternazione. Anche de Martino aveva valutato l’opzione di un rito terapeutico che non funziona, di un «simbolo non operante», quale era il titolo di uno dei capitoli centrali del saggio sulla taranta in Puglia. Ma questi sono, come dire, casi specifici, contingenti – che non possono essere ignorati, come insegna Adorno, ma che certo non possono oscurare l’importanza che i riti, anche con la loro ferocia, hanno avuto nel plasmare le società, e la nostra civiltà tutta.

 

Tra Ernesto de Martino, nato nel 1908 e scomparso prematuramente nel 1965, e Byung-chul Han, classe 1959, vi è stato a ben vedere un altro pensatore che si è interrogato sulla “fine del rito” e sulle sue implicazioni. Pur muovendo da un’ottica apologeticamente cristiana, e mescolando l’antropologia a una forma tipicamente francese di critica letteraria, René Girard, l’autore di capisaldi come La violenza e sacro e Il capro espiatorio, ha fatto luce sulla pericolosità intrinseca dell’agonia del rito, delle feste che vanno a finire male. «La festa che prende una brutta piega non è soltanto un tema estetico decadente, ricco di seducenti paradossi», scriveva Girard ne La violenza e il sacro – essa è «l’orizzonte reale di ogni Decadenza». La festa che va a finire male non è necessariamente il rito al suo tramonto – ma ha la curiosa prerogativa di farci risalire vertiginosamente fino alle origini del rito, all’uccisione di una singola vittima arbitrariamente scelta all’interno della comunità che dopo una morte violenta, ma catartica, viene paradossalmente divinizzata.

 

Nell’assenza di una struttura stabile del tempo di cui si lamenta Han a proposito della società digitale, non è difficile leggere una parafrasi del «tempo fuori dai cardini» che, come rimarcava anche Ágnes Heller nel suo ultimo scritto echeggiando l’Amleto, è una condizione basilare della tragedia, ma anche e soprattutto un preludio del sacrificio espiatorio su cui Girard ha speso tante parole. Il digitale rende molto più fluida la tradizionale scansione di un tempo lineare – e lascia emergere alcune delle più ataviche pulsioni dell'uomo in uno spazio interamente virtuale. Se la nostra società è tanto impegnata in una continua ricerca del colpevole, di un capro espiatorio da esporre alla gogna innanzitutto social, qualcosa vorrà pur dire: il digitale, malgrado il suo futurismo, fa luce su alcuni degli strati pulsionali più arcaici dell’uomo.

 

Il discorso sui riti colti nel momento della loro fine ha avuto ulteriori sviluppi in tempo di Covid: provenienti stavolta non da qualche filosofo, ma direttamente dalla cronaca. Ad aprile 2020, papa Francesco ha celebrato il triduo pasquale in una piazza San Pietro pressocché deserta – si era ancora in pieno lockdown. Per tre mesi interi, nessuna chiesa ha celebrato messa, o almeno non ha potuto accogliere i fedeli. Riti o ritualismi profani, come il calcio o il sabato sera in discoteca, sono stati anch’essi interrotti. Forme di interazione comunitarie erano relegate interamente ai social, o, in maniera più struggente, a quegli applausi e a quegli inni nazionali cantati sui balconi – solo nelle prime settimane di lockdown, e solo grazie ai social che permettevano di concertarli e di riproporli alla propria cerchia a canto finito. Il rito, se anche per ipotesi non era già del tutto morto, è stato ibernato e messo tra parentesi.

 

Parlare di “fine del rito” è un po’ come parlare di “fine del cinema” o di “fine della filosofia”, un’estremizzazione che, appellandosi a una certa idea di eschaton, certo esprime efficacemente la sensazione di una crisi, o perlomeno di una profonda evoluzione di un dato fenomeno. La verità è che un rito che muore può anche essere un rito che evolve, e lo stesso tarantismo viene riletto da de Martino, nei passaggi più illuminanti del suo libro, in un’ottica diacronica, che ne rivela il sostrato intrinsecamente “pagano”, la sua rielaborazione in ambito ecclesiale e cristiano. I riti non vanno preservati in quanto tali, ma in quanto specifico umano, necessario ad affrontare e a mettere in scena i momenti di crisi molto più di alcuni palliativi moderni che ne hanno preso il posto. Se questo non accade, è strutturalmente prevedibile che si ripresenti, anche in piena era digitale, qualcosa di preistorico – quello che i riti, senza rimuoverlo, bensì esorcizzandolo, si proponevano di elaborare.

 

Il Covid è un esempio tipico di crisi di fronte alla quale le comunità antiche avrebbero reagito adoperando tecniche rituali. Ogni rito comporta una messinscena, ma se le parole di Aristotele sulla catarsi a teatro hanno ancora un significato, il carattere teatrale tipico dei riti non rappresenta altro che un modo indiretto per fronteggiare e possibilmente risolvere le crisi che di volta in volta appaiono. Senza riti, il rischio è che ci si ritrovi senza elaborazione di quanto accaduto, lutto individuale o pandemia globale che sia. Certo è difficile dire cosa sarebbe accaduto dopo il Covid se ci fossero stati ancora i riti – ma possiamo vedere come è stato recepito il Covid in assenza di riti. L’impressione generale è che il ricordo della crisi pandemica ancora in corso sia stato prontamente rimosso, il che spiega in parte anche fenomeni come il negazionismo dei No-mask e dei No-vax. A un livello più generale, subito dopo i due lockdown si è potuto assistere a una frenetica corsa al “ritorno della normalità”, una normalità essenzialmente composta da ritrovi in discoteca, lunghe file ai centri commerciali e altri fenomeni di “collettività consumista” che hanno fatto immancabilmente rialzare il numero dei contagi. Il diktat generale era che si poteva finalmente tornare a vivere come prima, facendo finta che questa crisi non avesse messo in luce alcune criticità insite nel modo di vivere della nostra società, come ogni “apocalisse” d’altronde fa. Con i riti o senza i riti, in un modo o nell’altro e in questo caso nel modo consapevole e più coattivo, la ripetizione vince sempre.

 

6 gennaio 2022

 








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