Martin Heidegger, nella convinzione che il compito della filosofia sia quello di intraprendere un pellegrinaggio verso un nuovo linguaggio autentico in grado di rispondere al quesito fondante della Seinsfrage, ci dice che sta ricercando un qualcosa di profondamente diverso, che renda pronunciabile l’indicibile.
Vincent van Gogh, "Girl in White in the Woods" (1882)
Essere e tempo (Sein und Zeit), capolavoro filosofico di Martin Heidegger, a quasi un secolo dalla sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1927, continua a mantenere attorno a sé un’aura di insondabile ermetismo. Qualsiasi tentativo di introdurre dall’esterno quest’opera, tra le più commentate della storia della disciplina, riassumendola per sommi capi, si scontra con una difficoltà naturale costituita dalle oscurità concettuali di cui l’intero testo è costellato. Penetrare ermeneuticamente le profondità di Essere e Tempo significa restituire la forza, il dinamismo interno, capire i motivi per i quali l’opera rappresenta un vero e proprio terremoto filosofico, un capovolgimento radicale nel modo di fare filosofia.
Una delle ragioni più evidenti di questo straordinario successo è apparentemente e in modo paradossale, anche nelle oscurità prima evidenziate, la semplicità che sorregge l’intero impianto teoretico. La semplicità del domandare di Heidegger. Quella che può apparire come una provocazione, in realtà, rappresenta una delle ragioni preponderanti della qualità filosofica di questo testo cardine per la storia della filosofia occidentale. La semplicità di Sein und Zeit è quindi racchiusa nel suo quesito di fondo che è anche alla base di ogni altro interrogare: la domanda sull’Essere, la Seinsfrage.
Una domanda tanto semplice che anche quando la si va a tecnicizzare filosoficamente pone una questione che qualsiasi studente di filosofia alle prime armi, dopo avere letto qualche riga di Parmenide e Aristotele, è in grado di comprendere alla perfezione. Banalmente, quando affermiamo “il cielo è azzurro” cosa significa quel “è” che collega “il cielo” all’”azzurro”? Che cosa è questo Essere di cui i grandi pensatori dell’antichità parlano e che noi esperiamo quotidianamente nel nostro esistere quotidiano? Questa domanda così semplice è in grado di mettere in imbarazzo non soltanto lo studente ma anche la filosofia come tale; quella dell’Essere è una domanda scandalosa per la disciplina. Scandalosa, al limite dell’indecenza, perché mette in mostra una nudità evidente: l’assenza di un linguaggio adatto a parlare dell’Essere. Quindi, cogliere l’anima di Sein und Zeit ha come prerogativa il mettersi in ascolto della voce dell’Essere che, nel nostro Esser-ci, non riesce a trovare un linguaggio consono in grado di restituire il suo senso profondo, la sua autenticità, fuori dalla tirannia della presenza che caratterizza da sempre la metafisica occidentale a partire da Platone.
Il linguaggio autentico è per Heidegger Rede (termine a metà strada tra “discorso” e “conversazione”) mentre nella Gerede, la "chiacchiera", viene meno il discorso dell’Esser-ci, che in quanto unico ente in grado di pensare l’Essere, è quindi condannato alla dimenticanza della Seinsfrage. In questo frangente è importante sottolineare come “chiacchiera” sia oggettivamente una traduzione debole ma l’unica percorribile se spogliata di valutazioni moralistiche e denigratorie con la quale la identifichiamo nella nostra lingua. La chiacchiera ha perduto, oppure non ha mai raggiunto, un rapporto originario con l’ente di cui si discorre, limitandosi a un Nachreden, un “ripetere” vuoto attorno al nulla, esterno al senso intrinseco delle cose. La chiacchiera è il linguaggio del Man, del “si” impersonale che caratterizza la condizione inautentica che affligge l’Esser-ci a seguito della Verstfallen, della caduta del nostro Essere nell’ente. Essa è alla portata di tutti, elimina l’incertezza ed è essenzialmente un procedimento di chiusura e respingimento verso il fondamento di ciò che si dice.
La Nachreden che caratterizza la Gerede non penetra mai la sfera dell’Essere dell’ente preso in oggetto, fermandosi sulla superficie ontica delle cose, sfiorandone solo la loro semplice presenza fenomenologica. Un soffermarsi che, nella comunicazione quotidiana, si concentra sul discorrere in quanto tale, perdendo quel rapporto originario tra linguaggio ed esistenza che si tramuta in oblio dell’Essere. Diffondendo e ripetendo questo discorso attorno al nulla della semplice presenza, la chiacchiera assume l’autorità del “si dice”. Stimola l’illusione della comprensione, si sostituisce ad essa, senza mai presentare una vera intelligenza che penetra e abbraccia. La Gerede è il primo e più importante ostacolo al processo rammemorante che può condurre l’Esser-ci all’Essere.
Questa totale infondatezza della chiacchiera è proprio il propellente della sua diffusione pubblica, in quanto rende tutti facilmente convinti di avere afferrato ciò che, in realtà, non hanno com-preso là dove ad avere aderito a questa visione delle cose è il “si” impersonale che abita in loro. Piena di sé e sufficiente a sé, la Gerede si rifiuta di risalire al fondamento essendo sostanzialmente un’operazione di cesura tra pensiero e linguaggio, impedendo ogni revisione e ogni nuovo confronto che rimetta in discussione concetti macchiati di inautenticità.
Il frutto della chiacchiera, e anche suo seme in una sorta di circolarità che non può essere spezzata, è la Neugher, la “curiosità”, il bramare la novità senza mai soffermarsi sulla necessità della Verità che l’Essere dell’ente richiede. La curiosità è una degradazione del vedere autentico, un respingimento di quella luce illuminante che ha origine in noi e che cerca a sua volta il chiarore della Lichtung, della radura dove l’Essere si dis-vela nella sua pienezza. Mediante di essa si vede il mondo degli enti senza curarsi (il prendersi cura delle cose, altro pilastro della teoresi heideggeriana) di comprendere, mostrando un’incapacità congenita di soffermarsi non solo su ciò che si presenta ma anche su ciò che attende di essere dis-velato. Guidata dalla Gerede, la curiosità cerca e ha in vista solo la propria distrazione, il proprio appagamento che prevede il non-soffermarsi come suo carattere costitutivo.
Tuttavia, la chiacchiera, e la curiosità che ne deriva, è un elemento strutturale dell’Esser-ci; una parte fondamentale del nostro impianto concettuale mediante il quale ci relazioniamo con il mondo lo impariamo attraverso queste forme di linguaggio inautentico e tali strutture restano per sempre alla base del Man impersonale che parla nel nostro Esser-ci. Non possiamo sottrarci a questo stato interpretativo in cui cresciamo non solo come individui ma anche all’interno del mondo nel quale siamo Geworfen, “gettati” per usare le grammatiche di Heidegger. Il circolo ermeneutico dato dalla storicità in cui siamo immersi ci condiziona profondamente fino a determinare lo stato emotivo e il nostro modo non solo di vedere le cose del mondo ma anche l’intima capacità di conoscerle e comprenderle.
In Sein und Zeit è quindi evidente il tentativo da parte di Heidegger di plasmare uno Sprache, un linguaggio dalla nuova e difficile forma, ripulito dalle incrostazioni della chiacchiera metafisica. Nell’ultimo paragrafo dell’opera, il filosofo ribadisce che tutto lo scopo dell’indagine esistenziale è quella della chiamata al senso dell’Essere, invito che può essere formulato unicamente attraverso l’introduzione di un linguaggio in grado di illuminare l’opacità e la translucenza che caratterizzano la Seinsfrage.
Essere e Tempo si interrompe senza esporre la terza sezione della prima parte che, nelle intenzioni dell’autore, doveva concentrarsi sulla distruzione a ritroso della storia dell’ontologia, condizione essenziale per edificare un nuovo linguaggio in grado di esprimere il senso dell’Essere così dis-velato.
Esiste infatti una fatale continuità tra linguaggio assertivo, predicativo, definitorio e chiarificatore della metafisica occidentale e quella violenta rivolta al dominio razione-tecnologico che si risolve nel nichilismo, quello che Heidegger definisce «un ospite inquietante» impossibile da espellere dal corpus dell’Occidente perché già in esso integrato. Le tematiche metafisiche di argomentazione e sistematizzazione ci impediscono non solo di pensare la Seinsfrage ma di avvertire l’esigenza di tale ritorno al fondamento, di porre i nostri pensieri nella Stimmung, nella tonalità emotiva dell’interrogare ciò che è Fragwurdig, cioè “degno di essere posto in discussione”.
Enzo Lenzi, "Buoi all'aratro"
Il der Landmann, il contadino, in una delle potenti metafore mutuate da Heidegger dal mondo rurale, con l’aratro lascia solchi nel campo allo stesso modo con cui il pensiero li lascia nel linguaggio con cui si vuole dis-velare il senso dell’Essere. Questi sono i temi che condurranno il filosofo di Meßkirch alla celebre Khere, la "svolta" nella riflessione heideggeriana che sposterà la Seinsfrage dall’interrogare il senso dell’Essere alla ricerca della Verità dell’Essere. Il problema dell'Essere che ha improntato a sé la successiva produzione heideggeriana trova così origine nel pensiero evenenziale, nel pensiero della possibilità, nel pensiero dell'accadere – in definitiva, nel pensiero dell'Ereignis, “l’evento”. Il pensiero della Khere si muove in direzione dell'Ereignis, spostando il problema del ri-pensamento del linguaggio in una direzione che sia un ascoltare autentico del Dire originario, e di un pensare il Tempo nella sua autenticità in diretta continuità con quanto era rimasto interrotto nel progetto originale di Sein und Zeit. Dice Heidegger: «L’errare, la peregrinazione verso ciò che è degno di essere posto in discussione, non è un’avventura ma un ritorno a casa» (M. Heidegger, Wissenscahft und Besinnung, 1953). L’uomo, nella sua dignità, ritorna a casa, seguendo il linguaggio che si fa pastore dell’Essere.
Il pensatore, nella convinzione che il compito della filosofia sia quello di intraprendere un pellegrinaggio verso un nuovo linguaggio autentico in grado di rispondere al quesito fondante della Seinsfrage, ci dice che sta ricercando un qualcosa di profondamente diverso che renda pronunciabile l’indicibile. «L’uomo incamminandosi verso l’Essere torna nello stesso tempo nella parola, nel linguaggio» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, 1959). In queste parole possiamo cogliere il senso profondo del pellegrinaggio dell’Esser-ci verso l’Essere; il viaggio contiene in sé ciò che potremo cogliere al suo compimento, in una precisa similitudine con la rappresentazione religiosa del viaggio dell’uomo e della meditazione silenziosa rivolta al trascendente.
3 febbraio 2022