Il potere della scrittura

 

Nel presente lavoro si è scelto di approfondire alcuni snodi concettuali della riflessione filosofico-teologica di Simone Weil, il cui pensiero è uno tra i più significativi nel panorama femminile contemporaneo. Si è inoltre tentato di sviluppare alcune considerazioni in merito al potere insito nella sua modalità di scrittura – in relazione ad autori di epoca moderno-contemporanea, quali Jean-Paul Sartre e Julian Nida-Rümelin.

 

di Afaf Ezzamouri

 

 

Attenzione, Scrittura, Giustizia

 

Uno dei concetti-chiave elaborati da Simone Weil è quello di attenzione. Quest’ultima, ci spiega l’autrice, è necessariamente legata ad una forma di giustizia, nonché ad una peculiare introversione dell’individuo. L’Uomo attento è colui in grado di rivolgere uno sguardo che si rivela autentico, e cioè giusto; è inoltre capace di prestare ascolto nei confronti dell’Altro e di riconoscere la sua sventura (le malheur), in quanto silenziato dalla propria condizione. Gli sventurati, infatti, «supplicano in silenzio che vengano loro fornite le parole per esprimersi» (Simone Weil, La persona e il sacro), poiché la loro anima viene stritolata e la loro voce annientata. L’attenzione di cui parla Simone Weil è una forma d’amore, in quanto «intensa, pura, senza movente, gratuita, generosa» (ivi). Da questa peculiare forma di interesse nei confronti del genere umano, ha luogo (e spazio) la giustizia. Nell’opera scritta a Londra poco prima di morire, il c ui titolo è La persona e il sacro, la filosofa francese scrive infatti: «lo spirito di giustizia [e di verità] non è altro che quella particolare specie di attenzione che è puro amore». I concetti di attenzione, giustizia, amore e verità non possono che co-implicarsi nella riflessione di Simone Weil, la cui esistenza è stata segnata da queste stesse parole. A partire dal 1934 decide infatti di lasciare il suo incarico lavorativo, i suoi studenti e l’ambiente scolastico, per lavorare al fianco degli operai. Si impone di vivere la loro vita per poter comprendere fino in fondo le sofferenze di cui si nutrivano; due anni dopo sceglie di vivere in prima persona la guerra, rientrando poco dopo piena di orrore. Giunge infine alla conclusione secondo cui «si ascolta soltanto chi si ama veramente», poiché l’attività  di ascolto esige un’attitudine decisiva, che è l’attenzione in tutti i suoi aspetti.

 

 

La scrittura di Simone Weil vuole avere un impatto concreto sull’esistenza afflitta e sulla condizione fragile di una ben precisa categoria: i lavoratori nelle fabbriche, gli operai e più in generale gli oppressi a livello sociopolitico. Le parole che scrive, ma soprattutto le parole che sceglie, conducono ad un’analisi che può definirsi di tipo etico. Non si può non venire scossi dalle frasi o dai testi di Simone Weil, né tanto meno (non) esserne trasformati – o toccati interiormente. Non si tratta infatti solo di un’analisi filosofico-teoretica, poiché il ruolo che assume l’autrice è anzitutto e per lo più di tipo politico.

 

Jean-Paul Sartre
Jean-Paul Sartre

 

A questo proposito risulta interessante approfondire la concezione di un’altra figura di nazionalità francese: Jean-Paul Sartre. Il filosofo esistenzialista non solo definisce in modo impeccabile alcune caratteristiche del mondo della letteratura, ma coglie come fondante la libertà in relazione alla scrittura. Nel testo Che cos’è la letteratura? scrive infatti: «la letteratura vi getta nella battaglia; scrivere è un certo modo di volere la libertà; una volta che avete cominciato, per amore o per forza siete impegnato. Impegnato a che? A difendere la libertà […]». Colui che scrive è un uomo libero e questo implica di necessità che si rivolga ad un pubblico altrettanto libero. La sua priorità è qui quella di sviscerare il tema della libertà; Sartre parla in questo senso di democrazia. Se viene meno la libertà di scrivere, è minacciato il senso democratico proprio della prosa. «Non si scrive per degli schiavi» dice Sartre, aggiungendo che «la libertà di scrivere implica la libertà del cittadino. […] L’arte della prosa è solidale con il solo regime in cui la prosa conserva un senso: la democrazia».

 

La posizione di Sarte evidenza di fatto come le pratiche di scrittura coinvolgano l’individuo in tutte le sue forme. Scrivere è la chiave sostanziale che permette alla verità di emergere. La letteratura diviene in questo senso un possibile tramite per dare voce agli “sradicati”, direbbe Simone Weil, ossia a coloro a cui è stata drasticamente tolta la possibilità di compiersi come esseri umani; a quelli a cui – in breve – è stata tolta l’umanità. Sartre ci indica il valore insito nelle parole, le quali «sono […] come tranelli per suscitare i nostri sentimenti e rifletterli verso di noi; ogni parola è una via di trascendenza […]». La parola può farsi sentire e divenire in questo modo azione. Lo scrittore «impegnato» è secondo Sartre colui che:

 

« sa che la parola è azione: sa che svelare è cambiare, e che non si può svelare se non divisando di cambiare. Ha abbandonato il sogno impossibile di dare un quadro imparziale della Società e della condizione umana. L’uomo è l’essere di fronte al quale nessun essere, nemmeno Dio, può restare imparziale. »

 

Il ruolo dello scrittore diviene politico oltre che identitario. Per certi versi pare che Simone Weil abbia assunto una posizione sartriana, perché capace di prendere parte della sofferenza altrui al fine di comprendere condizioni di vita drammatiche oltre che paradossali. Le vie da lei intraprese per agire direttamente e concretamente sono molteplici: il dolore si può manifestare urlando le atrocità ma soprattutto scrivendo della violenza e marcandone i segni – sia fisici che morali: «la brutalità, la violenza, la disumanità hanno un prestigio immenso, che i libri di scuola nascondono ai bambini, che gli adulti non si confessano, ma che tutti subiscono» scrive in un Frammento del 1939 nella raccolta di scritti sulla guerra (1933-1943).

 

Scrivere significa lasciare una traccia di sé, del proprio vissuto e di quello altrui, per dare voce alla sofferenze di coloro i quali non posseggono voce alcuna. Si tratta di ricercare, per mezzo della parola, l’umanità talvolta persa. L’impresa di Simone Weil sta (tuttora) nel non discernere la ricerca filosofica e l’impegno civile ma anzi, di agire grazie a questa compenetrazione tra piani.

 

A tale proposito, uno degli spunti contemporanei più interessanti riguarda Julian Nida-Rümelin: professore ordinario di filosofia e teoria politica all’Università di Monaco di Baviera, nonché ministro della cultura durante il primo governo Schröder. In genere l’autore sviluppa considerazioni sui fenomeni migratori che da anni l’Europa si trova ad affrontare; non parla di “attenzione” ma il suo ragionamento implica che vi sia questo modo di essere (e di procedere) in ambito politico. Il saggio Pensare oltre i confini. Un’etica della migrazione, pone al centro della riflessione la componente etico-normativa, che permette a Nida-Rümelin di sviluppare quella che definisce “politica migratoria coerente”. Fa qui riferimento ad un’etica da intendere in senso lato e ad un realismo etico fortemente sostenuto da figure come Ronald Dworkin e Thomas Nagel, che l’autore stesso considera i suoi pochi alleati nella filosofia contemporanea. Ciò a cui instancabilmente punta il docente – e più in generale questa scuola di pensiero – è di «scoprire che cosa dovremmo fare, non ciò che comunemente si ritiene che andrebbe fatto; ciò che effettivamente va fatto, non ciò che sarebbe accettabile per un’ideale comunità di discorso». L’attenzione di cui ci parla Simone Weil potrebbe coincidere con la cooperazione che secondo Nida-Rümelin va necessariamente affrontata a livello globale. La politica deve infatti considerare il collettivo e tralasciare del tutto gli interessi personali. Se si vuole agire eticamente in ambito politico, l’unica via è questa, poiché «gli individui che volta per volta prendono parte a un’istituzione non hanno una responsabilità individuale, bensì una responsabilità cooperativa in merito alle decisioni politiche. […] Stanno agendo non solo per sé, ma come parte di un’istituzione», dato che «la loro prassi, volta per volta individuale, è parte di una prassi collettiva politicamente rilevante». La prospettiva assunta all’interno del saggio è dunque cosmopolita; l’etica della migrazione viene discussa «sotto l’aspetto di una configurazione umana dei rapporti a livello mondiale, e non a partire da una prospettiva legata agli Stati nazionali o a singoli gruppi».

 

Dopo aver dedicato una prima parte del saggio a temi e concetti quali i doveri etici, la responsabilità, il comunitarismo in relazione al cosmopolitismo e la giustizia internazionale, l’autore passa ad esplorare puntualmente gli aspetti etici dei vari tipi di migrazione (per povertà, per guerra e guerra civile e migrazione economica), le conseguenze della politica migratoria attuale – fornendo alcuni spunti affinché questa venga gestita eticamente –, e la legittimazione dei confini. Nel corso della sua indagine, Nida-Rümelin riprende più volte il concetto di responsabilità – ponendolo per esempio in relazione ad una condizione di sofferenza.

 

La riflessione di quest’autore pone al centro una questione che Simone Weil stessa, con altre parole, aveva individuato, e cioè: a rendere il mondo meno ingiusto non saranno di certo il nazionalismo o un sovranismo sempre più crescenti, bensì una peculiare e giusta forma sociopolitica, in grado di rivolgere lo sguardo non tanto sugli interessi di oligarchi, quanto piuttosto sulla forma d’amore per eccellenza: l’attenzione. Si tratta di un’attitudine complessa da sviluppare ma che, anche per mezzo della scrittura, consente di ottenere quella forma di giustizia di cui l’essere umano da sempre ha bisogno.

 

 6 gennaio 2022

 









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