Il problema dell'associazione: tra Hume, Kant e Husserl

 

Il problema dell’associazione ha assunto un rilievo particolare nella tradizione filosofica nel contesto della filosofia empirista e, in modo specifico, a partire da  David Hume, in cui si profila l’idea dei nessi associativi come principi fondamentali della vita psichica e, correlativamente, della costruzione soggettiva della realtà fenomenica stessa. Secondo il filosofo scozzese, infatti, l'intelletto umano è animato da una naturale tendenza ad istituire specifiche relazioni associative tra i suoi contenuti, le “idee”, derivanti direttamente dall’esperienza sensibile.

 

di Christian Vagnoni

 

 

Nella riflessione humiana i processi associativi tra idee cui l’intelletto mette capo sono regolati da tre principi fondamentali: la somiglianza, la contiguità spazio-temporale e la relazione di causa-effetto:

 

« A me pare che vi siano principi di associazione fra le idee, come somiglianza, contiguità nello spazio e nel tempo, causa ed effetto. Che questi principi servano a connettere le idee non potrà essere messo in dubbio. Un ritratto conduce naturalmente i nostri pensieri all’originale (somiglianza); la menzione di un appartamento di una casa conduce a domandare o a discorrere degli altri (contiguità); e se noi pensiamo ad una ferita, è improbabile che possiamo astenerci d riflettere sul dolore che ne segue (causalità). »(D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano)

 

In questa forma, il problema dell’associazione è passato attraverso Hume anche all’interno della psicologia, che del resto trova nel filosofo scozzese uno dei propri precursori, e in particolare il precursore dell’orientamento dominante negli studi di psicologia sperimentale della seconda metà dell’Ottocento (si pensi agli studi di Fechner sulle sensazioni o a quelli di Ebbinghaus sulla memo che generalmente ricade sotto la denominazione di associazionismo). Di fatto, la posizione humiana del problema dell’associazione appare fondata su un assunto epistemologico particolarmente forte che può essere sintetizzato nel modo seguente: “non vi sono necessità interne all’esperienza”. Ogni formazione oggettuale è il risultato di un processo di strutturazione da parte del soggetto a partire da impressioni distinte e slegate (nonché dalle idee che ne derivano), che ricevono un consolidamento attraverso l’individuazione su base induttiva di certe regolarità empiriche. La tendenza all’individuazione di tali regolarità, che inducono il soggetto a stabilire legami associativi tra gli stimoli sensoriali che gli provengono dall’esterno, ha come risultato il costituirsi di abitudini (percettive, mentali, comportamentali), un’idea quest'ultima che è stata ereditata dalla psicologia associazionistica.

 

Nel tentativo di far fronte agli esiti scettici cui l’empirismo radicale humiano conduceva (circa, ad esempio, la necessità del nesso causale), Kant prospetta una soluzione che parte invece dal presupposto che vi siano forme a priori della sensibilità e categorie dell’intelletto egualmente a priori, appoggiandosi su un assunto diametralmente opposto a quello di Hume: “vi sono necessità interne all’esperienza”. Per esprimerci in termini kantiani, vi sono condizioni necessarie e universali, antecedenti ad ogni esperienza, che devono essere soddisfatte affinché un’esperienza in generale sia in linea di principio possibile. Il problema che Kant pone al centro della sua filosofia trascendentale, quale è inaugurata e tratteggiata nelle sue direttrici fondamentali nella Critica della Ragion Pura, è infatti quello della definizione di tali condizioni di possibilità dell’esperienza e della conoscenza.

 

Dopo Kant (e nelle sue successive declinazioni neokantiste), il concetto di associazione implica nel suo significato la negazione della tesi trascendentalistica secondo cui esistono simili condizioni di possibilità dell’esperienza. Sul versante del pensiero psicologico, la reazione all’associazionismo venne soprattutto nei primi decenni del Novecento da parte della psicologia della Gestalt, facendo sì che la si considerasse un indirizzo teorico di orientamento kantianeggiante. Infatti, per gli psicologi della Gestalt (tra i quali ricordiamo, accanto al fondatore Max Wertheimer, anche Wolfgang Köhler e Kurt Kofka), in stretta analogia con la pozione filosofica di Kant, la mente del soggetto opera una propria elaborazione dei dati sensibili, impone loro, per così dire, una certa forma, a partire dalle proprie “leggi” di organizzazione.

 

Questi problemi compaiono, com’è noto, anche in rapporto alla fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938), che del resto presenta diverse affinità con l’indirizzo gestaltico, di cui peraltro anticipa alcuni importanti sviluppi, a cominciare Filosofia dell’artimetica del 1892. In seguito, a partire da L'Idea della fenomenologia (1907) e da Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), Husserl qualificherà la propria idea di fenomenologia con l’aggettivo trascendentale – seppure, come risulterà chiaro tra poco, con un significato completamente ripensato rispetto all’originario impiego kantiano – che implica pertanto una esplicita presa di distanza dal punto di vista psicologistico proprio dell’empirismo humiano e dell’associazionismo. L’utilizzo della nozione di trascendentale e il distacco dalla prospettiva empiristica e associazionistica comporta invero l’adesione all’idea dell’esistenza di condizioni a priori di possibilità dell’esperienza, ma il problema, nell’ottica husserliana, è quello di definire in che modo abbiamo accesso a queste condizioni e quale sia, per così dire, la loro natura.

 

M.C. Escher, "Giorno e notte", 1938
M.C. Escher, "Giorno e notte", 1938

 

Volendo arrivare al punto focale della questione, in Husserl il modo di accesso alle condizioni di possibilità si presenta come una definizione delle forme di unificazione concreta che si danno necessariamente in un’esperienza attuale. Di conseguenza, il loro carattere è quello di legalità interne alla struttura dell’esperienza stessa. In altri termini, per Husserl le connessioni associative non hanno luogo sul piano delle idee, nell’accezione humiana, ma su quello delle oggettualità esperite. Esse non rinviano – come nella psicologia humiana e in quella associazionistica – a processi psichici di unificazione, ma a connessioni materiali-qualitative, di natura contenutistica, che si stabiliscono, in modo indipendente dall’attività del soggetto, sul terreno dell’esperienza stessa. In questo senso sarebbe erroneo ridurre tali connessioni a leggi contingenti ed arbitrarie, a leggi puramente empiriche, fondate, humianamente, su una chimerica  “natura umana” o sulla legge dell’abitudine. Per converso, richiamandosi ad un lessico kantiano (pur tenendo conto delle dovute differenze), le si potrebbe caratterizzare come sintetiche a priori, ossia come strutturazioni costituentisi sulla base di sintesi necessarie che si realizzano in modo passivo, non già dal lato della coscienza ma da quello delle oggettualità dell’esperienza, e nelle quali è escluso, così come avviene entro la prospettiva psicologistico-empiristica humiana e quella associazionistica, ogni richiamo a regolarità empiriche o alle “accidentalità” della vita psichica del soggetto. Le riflessioni husserliane sul tema dell’associazione e la sua formulazione, in tale contesto, del concetto-chiave di sintesi passiva, così come emerge dalle omonime lezioni universitarie tenute dal filosofo tra il 1920 e il 1926, sono dunque una chiara espressione dell’impostazione antiempiristica e antipsicologistica della sua fenomenologia: esse trovano infatti il loro nucleo centrale nell’esibizione di quelle legalità esperienziali che, sul piano della pura passività, rendono possibile il costituirsi delle stesse oggettualità di cui facciamo esperienza.

 

D’altro canto, il punto di vista husserliano differisce anche dalla posizione trascendentalistica di Kant. Il problema kantiano è infatti quello di un’analisi delle forme del giudizio, a partire da una peculiare analisi logica (da un’”analitica trascendentale”) avente l’obiettivo di cogliere, descrivere e giustificare la validità de iure di quelle strutture aprioriche dedotte da quelle e da lui definite “categorie”, e che secondo la sua prospettiva filosofica verrebbero proiettate dal soggetto sul materiale informe offerto dalla sensibilità. Dunque secondo Kant le condizioni di possibilità non sarebbero già presenti nel materiale esperienziale, ma sarebbero in un certo senso connaturate alle facoltà conoscitive della soggettività stessa, che è dunque una soggettività “legiferante”, la quale impone spontaneamente le proprie regole apriori di unificazione, le proprie forme di organizzazione concettuale e predicativa al «molteplice» indeterminato dell’esperienza. Il significato della nozione di trascendentale in Kant è strettamente connesso ad una simile teoria della soggettività: ciò che non fa parte del materiale fenomenico ma è condizione di possibilità, appartiene per il filosofo tedesco interamente alla soggettività (all’Io-penso) come unità trascendentale delle funzioni categoriali. In Husserl la nozione di trascendentale ha invece implicazioni diverse e rinvia all’idea di fondo secondo cui esistono condizioni a priori di possibilità dell’esperienza che sono immanenti alla struttura dell’esperienza stessa e, in quanto tali, esplicitabili e chiarificabili mediante l’analisi fenomenologica. Si tratta nello specifico, nell’ottica husserliana, di dare corpo ad una nuova “estetica trascendentale” (cfr. Lezioni sulla sintesi passiva), di stampo fenomenologico, che abbia di mira la descrizione di tali forme di organizzazione autonoma e contenutisticamente determinata dei materiali dell’esperienza, dalle quali traspaiono, a suo avviso, quelle forme categoriali che sono proprie del pensiero e del giudizio – ed è per questo che Husserl, a differenza di Kant, non prende le mosse dalla tavola delle forme di giudizio, da lui assunta in maniera aprioristica e quasi acritica, per dedurne le categorie, ma descrive quelle modalità passive di strutturazione della nostra esperienza, dalle quali traggono la loro genesi le forme logico-predicative. Se dunque Kant, al fine di individuare le condizioni di possibilità del costituirsi dell’esperienza per la soggettività,  le aveva dedotte dalle forme del giudizio, Husserl compie invece l’operazione inversa, traendole – come risulta da Esperienza e giudizio (1939) e dalle Lezioni sulla genealogia della logica – dalla struttura dell’esperienza antepredicativa, la quale appare già organizzata secondo una propria “logica” immanente, donde l’innovativa idea husserliana di una logica trascendentale, da intendersi in un senso completamente inedito rispetto a quello, dianzi chiarito, con cui Kant la intende nella Critica, un senso che è da ricondursi, per l’appunto, al progetto filosofico, che il fenomenologo comincia a sviluppare all’altezza degli anni ’20, di una genealogia delle forme categoriali (logico-predicative), fondata su un tentativo di esplicitazione fenomenologica di quelle articolazioni precategoriali, presenti nella struttura dell’esperienza stessa, che ne anticipano e ne rendono possibile la costituzione.

 

11 agosto 2023

 









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